Carna Pištan – «La banalità del male»: la storia dei cancellati in Slovenia

venerdì 19 marzo 2010

«LA BANALITÀ DEL MALE: LA STORIA DEI CANCELLATI IN SLOVENIA»
Carna Pištan

L’8 marzo del 2010 il Parlamento sloveno (Državni zbor) ha approvato con 48 voti favorevoli e 30 contrari la Legge sull’integrazione e modifica della legge regolante lo status dei cittadini delle repubbliche ex-jugoslave presenti in Slovenia (ZUSDD-B), o, più semplicemente, la Legge sui “cancellati”, ponendo fine a quella che è stata definita «la più grande violazione dei diritti umani» nella storia più recente del paese. Si ricorda che la cancellazione risale all’epoca della proclamazione dell’indipendenza della neonata repubblica, allorquando sul territorio del paese risiedevano circa 200.000 persone non iscritte nel Registro dei cittadini sloveni: erano immigrati interni, provenienti dalle altre Repubbliche della RSFJ, e, pertanto, cittadini jugoslavi, in possesso della c.d. «residenza permanente» che consentiva loro il godimento della quasi totalità dei diritti civili. Con l’entrata in vigore della Legge sulla cittadinanza del 25 giugno 1991, Lubiana si impegnò a concedere la cittadinanza a tutti i residenti trasferitisi in Slovenia dalle altre parti della Federazione, mentre la relativa domanda doveva essere presentata entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge.
Ad onor del vero 170.000 immigrati ottennero la cittadinanza slovena. Tuttavia, per varie ragioni non tutti i residenti la richiesero in tempi utili: qualcuno decise di lasciare la Slovenia, altri non riuscirono a raccogliere la documentazione necessaria o la loro domanda fu respinta. Il tutto avvenne in un clima di confusione tra cittadinanza e appartenenza etnica a cui si aggiunse lo sconcerto mostrato di fronte alla rapidità con cui precipitava il processo di disintegrazione dello Stato federale.
Il 26 febbraio 1992 con un’operazione segreta, priva di basi legali, il Ministero degli Interni aveva provveduto ad una sorta di “genocidio virtuale”, ossia alla cancellazione dai registri di residenza permanente di tutti i cittadini jugoslavi che non avevano richiesto od ottenuto la cittadinanza slovena nel termine previsto dalla legge del 1991. I dati anagrafici dei cancellati furono spostati dal registro dei residenti permanenti in un altro elenco denominato «Evidenza inattiva» che raccolse i nomi di quanti avevano definitivamente perso l’esercizio di una serie di diritti civili e sociali. E non solo: la perdita della residenza permanente aveva automaticamente trasformato gli individui in stranieri o apolidi, ovvero in stranieri illegali, clandestini, sprovvisti di un regolare permesso di soggiorno, costretti ad emigrare, richiedendo asilo politico in altri paesi. Poco importava se su quel territorio avevano vissuto per decenni o vi erano addirittura nati.
Sullo sfondo di questo scenario quasi kafkiano prende così inizio il lungo calvario dei cancellati, i quali vennero a conoscenza della cancellazione per lo più in modo casuale, dopo mesi, o addirittura anni, dalla perdita della residenza e in gran parte al momento del rinnovo dei documenti.
Investita della questione, la Corte costituzionale proclamava per la prima volta nel 1999 (sent.n.U-I-284/94) l’incostituzionalità della cancellazione, rilevando che i cancellati erano stati vittime di un evidente vuoto legale, e pertanto obbligava il legislatore ad intervenire in materia disponendo al contempo il divieto dell’espulsione degli ex residenti. In risposta, l’8 luglio del 1999 il Parlamento adottava la Legge regolante lo status dei cittadini delle ex-repubbliche jugoslave presenti in Slovenia (ZUSDDD) che ancora una volta fissava un termine strettissimo, di tre mesi, per la presentazione delle domande di regolarizzazione. Nel 2003 anche quest’ultima sarà ritenuta incostituzionale (sent.n.U-I-246/02), in quanto la residenza non veniva riconosciuta retroattivamente, dal momento della cancellazione. E ancora una volta il Giudice costituzionale impose al legislatore di eliminare le disposizioni incostituzionali entro sei mesi: tra queste il mancato riconoscimento dei diritti di quanti erano stati espulsi dalla Slovenia per effetto della cancellazione.
Nel tentativo di fronteggiare la situazione, il 25 marzo 2003, la maggioranza parlamentare, di centro-sinistra, approvò la c.d. «Legge tecnica sui cancellati» che riconosceva la retroattività della residenza esclusivamente a coloro che ne erano già in possesso, disattendendo pertanto ancora una volta le indicazioni dell’organo di giustizia costituzionale. Al contempo, l’opposizione capeggiata dai democratici di Janša promosse un referendum volto all’abrogazione della legge del 2003 cui seguirono campagne di diffamazione sia dei cancellati, ormai stigmatizzati come “antisloveni”, che della stessa Corte costituzionale. Il 4 aprile 2004, il 31% dell’elettorato sloveno si recò a votare: i risultati referendari portarono all’abrogazione della legge. Probabilmente la questione sarebbe stata risolta se fosse stato richiesto alla Corte costituzionale di esprimersi sull’ammissibilità del referendum, ma il parere non fu chiesto in tempi utili.
Nel 2009 il Ministero degli Interni ha reso ufficialmente noto il numero dei cancellati: 25.671. Secondo il ministero, 24.369 persone sono ancora in vita e oltre 17.000 sono divenuti cittadini stranieri. 7313 persone negli anni successivi alla cancellazione hanno ottenuto la cittadinanza slovena, altre 3630 sono in possesso di un regolare permesso di soggiorno. Sono infine 13.426 gli individui che al momento attuale non hanno “regolarizzato” il loro status.
La nuova legge, approvata l’8 marzo scorso dal Parlamento sloveno, si propone ora di porre fine al calvario iniziato nel 1992 consentendo ai 13.000 cancellati di riottenere la residenza permanente. In conformità a quanto disposto dalla Corte costituzionale, la residenza permanente è stata dotata di effetti retroattivi sia nel caso dei cancellati già in possesso della stessa, sia nel caso di coloro che finora non hanno regolarizzato il proprio status, mentre il termine della presentazione delle domande di regolarizzazione è stato fissato in tre anni.
Si tratta di un atto legislativo tra i cui fini si legge la volontà di tutelare la dignità umana di coloro ai quali per troppo tempo è stata sottratta. È una legge con la quale in qualche modo si chiede scusa per quanto accaduto, e che pertanto vuole riparare ai torti del passato. Lo stesso Ministro degli Interni, Katarina Kresal, nel presentare il provvedimento, aveva invitato i deputati ad approvarlo «se non già per un vincolo etico nei confronti delle persone a cui lo Stato 18 anni fa aveva fatto un torto, per rispetto della Costituzione». Non sorprende che la “cancellazione dei cancellati” sia pervenuta dalla nuova generazione dei politici sloveni, troppo giovani per essere stati sulla scena politica all’epoca della cancellazione, e la cui forma mentis è plasmata esclusivamente su valori quali il rispetto della Costituzione, della legge, dei principi dello Stato del diritto e della giurisprudenza costituzionale.
Tuttavia, ancora una volta la storia sembra ripetersi: mentre la nuova legge si propone di riabilitare i cancellati, il 12 marzo scorso l’opposizione (Partito democratico e Partito nazionale sloveno) ha presentato al Državni zbor una proposta referendaria volta all’abrogazione della legge del 8 marzo, adducendo tra i vari motivi il timore che gli ex cancellati potrebbero richiedere indennizzi allo Stato unito alla preoccupazione che la reintegrazione degli stessi permetterebbe di riottenere la residenza anche a quanti avevano operato contro l’indipendenza dello Stato. Questa volta la reazione della coalizione di maggioranza (SD, Zares, Desus, LDS) non si è fatta attendere, avanzando questa a sua volta la proposta di interpellare la Corte costituzionale in merito all’ammissibilità della richiesta referendaria. Per qualsiasi decisione in proposito sarà necessario attendere la prossima seduta parlamentare.