Scritto da Fulvio Senardi
Per le cure del Presidente del Centro studi gradese “Biagio Marin”, l’instancabile Edda Serra, che si avvale in questo caso della collaborazione di due giovani studiosi, Isabella Valenti-nuzzi e Pericle Camuffo, vede finalmente la luce – come supplemento al numero 11 di “Studi mariniani”, pubblicato per i tipi di Fabrizio Serra editore, Pisa-Roma, 2007 – il volume Autoritratti e impegno civile di Biagio Marin (con sottotitolo: Scritti rari e inediti dell’archivio Marin della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia); un volume che, al di là delle note della curatrice, vanta il corredo di due ottimi saggi di Fulvio Salimbeni (L’impegno civile di Biagio Marin) e di Roberto Spazzali (La profezia civile di Biagio Marin), storici di illustri credenziali e di lunga familiarità con l’opera di Marin, considerata nella prospettiva della storia del pensiero, dell’impegno politico-civile e dei valori ideologici, messi in rilievo sullo sfondo dei problemi e delle sollecitazioni suscitate dalie tormentate vicende del “confine nobile” dell’Italia nord-orientale. (F.S.)
La prima parte del libro, Autoritratti, farebbe pensare, per il titolo, a momenti introspettivi di analisi privata e di riflessione intima. E in effetti c’è, a momenti, anche questo; ma, giusta la convinzione mariniana che “nella vita umana nulla vi ha per me che possa compararsi a un dialogo tra gli uomini” {Conversari in biblioteca), ogni qualvolta Marin inizia a parlare di sé il discorso immediatamente si allarga, il percorso si affolla di co-protagonisti, i ricordi si intrecciano a splendidi squarci di bozzettismo letterario; mentre la voce si inarca, ora suadente ora aspra, come quella di un moderno Savonarola, a ricordare oltre il crinale degli amati valori letterari quei principi patriottici e morali di radice mazziniana che Marin, ultimo sopravvissuto della generosa razza dei “vociani” della Giulia, trapianta con enfasi dal clima risorgimentale dell’Interventismo democratico fino nel cuore del secondo
Novecento. Vale infatti per tutte le terre “irredente” del Litorale austriaco quell’aggettivo di “romantico”’ con cui Saba ha più volte definito Trieste: terre “romantiche” cioè nel senso, insieme buono e cattivo, messo in luce da Ernesto Sestan, in una pagina indimenticabile: “una crescente inquietudine, una irritabilità ed una ipertensione quasi patologiche del sentimento nazionale che […] diviene l’atmosfera quotidiana quasi ossessionante nella quale vive l’italiano di questa regione e alla quale son ricondotti come a un motivo unico, tutti i giudizi di valore, ogni misura di merito”1. E infatti, “siamo ancora sempre irredentisti”, scrive Marin nel 1954, quasi a ribadire quella condizione spirituale. Impossibile stupirsi dunque che, anche laddove egli disquisisce di poesia (e con quale perspicuità e competenza, con quale nitidezza d’espressione!) – nel Discorso per la laurea honoris causa dell’Università di Trieste, per esempio – è sul tasto politico che il discorso va perentoriamente a concludersi, a celebrare, nella fattispecie, “anche noi, a modo nostro, il cinquantenario di Vittorio Veneto” (ma prima ancora, con una formula di valore più generale: “ogni affermazione concreta di libertà è già poesia” – parole che, pronunciate nel 1968 della Primavera di Praga non possono lasciarci indifferenti). Insomma, per chiudere il cerchio: una volta irredentisti, irredentisti sempre. Straordinariamente succosa la seconda parte del volume. I contributi di riflessione di Marin coprono un arco di tempo che va dal 1948 agli anni Settanta: i più diversi fondali geo-politici dietro la lunga carrellata, ed eccezionale la capacità del Poeta (classe 1891, non dimentichiamolo!) di cogliere i fermenti nuovi, rinnovandosi. Se teniamo presenti, d’altra parte, i materiali marinia-ni raccolti e pubblicati nel 20052, l’inesausta opera di revisione auto-critica risalta con evidenza ancora maggiore, sopratmtto in relazione alla vera natura del fascismo, cui il poeta – e non era stato il solo fra i giovani “irredenti” – aveva inizialmente concesso una sostanziosa apertura di credito, e che gli si viene pian piano svelando non quale un dispotismo illuminato ma come un totalitarismo corruttore, fonte di servilismo e ipocrisia.
Marin, ricordiamolo, non è mai stato un letterato “puro”, nel senso di astrarsi compiaciuto dalla realtà della Storia. Per quanto la sua poesia tenda all’assoluto, sia il vero primum anzi della sua attività intellettuale, l’uomo – fedele al messaggio mazziniano – si caratterizza per un’ansia di conoscenza e di impegno che trova nella res publica il suo congeniale campo di applicazione. Una tensione civile, combattiva fino al sacrificio, che non è mai venuta meno: tanto negli anni fiorentini che nel primo Dopoguerra, tanto durante il Fascismo che dentro la fiamma della Resistenza, Marin non si è negato mai a confrontarsi con la vicenda dell’uomo, coerente con la formula di “pensiero e azione” del suo grande maestro ideale. E lo vediamo allora – il punto di partenza più adatto per aprire il discorso sugli “scritti civili” del volume di cui parliamo – partecipare nel 1945 al CLN giuliano (rinato per la quarta volta dopo devastanti ondate di arresti), aderendo al Partito liberale, nell’opposizione più aspra (perfino militare, nelle intenzioni) verso quel comunismo triestino che si mostrava totalmente succube del nazionalismo jugoslavo. Cose che conosciamo bene soprattutto grazie alle indagini di Roberto Spazzali. Per più aspetti è ancora questo lo sfondo dei primi contributi di riflessione politica di Autoritratti e impegno civile: pagine che risentono della Guerra fredda, vissuta con esasperata intensità in minacciate terre di confine: toni duri e rissosi, polemica gridata contro il comunismo e gli slavi, scomunicante epiteto di “bastardi” lanciato verso quei connazionali che si piegano a signorie straniere, sullo sfondo di una concezione ancora gentiliana dell’intima, necessaria coincidenza di Stato e nazione3 (così per esempio nel “Commento ali ‘elegia su Trieste di Dino Buzzati”, 1950; in “Uomini e situazioni bastardi”, 1952; ne “La lezione del Canton Ticino”, 1954). Era il momento in cui Giani Stuparich4, il sodale degli anni fiorentini, scriveva, in epilogo a Trieste nei miei ricordi: “infelice generazione la nostra, che vedemmo prima salire la realtà verso il sogno più bello e poi ripiombare giù, più giù d’ogni temuto incubo” 5. Reazioni delle viscere e del cuore; scusabilissima partigianeria di uomini che avevano messo tutto in gioco per salvare, cito Marin, “le ragioni dell’anima” (così sui profughi istriani esuli dalle proprie terre). Scriveva Prezzolini, in tempi non sospetti (il 13 dicembre 1914 per la precisione): “più parlo con Trentini, Triestini e Dalmati e più mi convinco che tutti parlano ‘provincialmente ‘ senza capire che il loro problema è italiano e anzi europeo; ma faccio un ‘eccezione per Slataper, il solo triestino che si sia sollevato sopra il comune campanilismo”6. Ma, a discolpa di una generazione, va detto che nel secondo Dopoguerra era probabilmente impossibile dimenticarsi del “campanile” se, solo ad alzare gli occhi, proprio il campanile del Duomo di Pirano – che nelle giornate più chiare si scorge distintamente da Trieste, la seconda patria di Marin – ricordava che l’Istria veneta era diventata terra straniera, in un’orgia di violenze e di lutti? Si decantano i toni tuttavia, a mano a mano che il secolo invecchia: “…ho il dovere dell ‘apertura”, dichiara istruttivamente Marin nel 1955, indirizzando al direttore del “Messaggero Veneto” una lunga, spregiudicata riflessione su Cattolicesimo, Risorgimento, Fascismo, e sulla pochezza della “classe dirigente italiana”, “impari al compito” (un motiv che diventerà presto leit-, nella sua riflessione, ma di cui si trovano già sparsi annunci nel Diario 1941-50). Sfogliando con un occhio al panorama politico italiano e internazionale, Diari ed Epistolari – quel che n’è stato per ora pubblicato – sarebbe interessante valutare, tema per tema, la portata dei mutamenti di rotta (mutamenti coerenti, e non è un ossimoro). Ma non lo consentono i nostri limiti di spazio.
Una nuova lettera al direttore del “Messaggero Veneto” perfeziona l’analisi politico-sociale: ostilità del credente alle tendenze confessionali della Democrazia Cristiana, dell’ex-liberale alla politica destrorsa di Malagodi (“l’unico modo di combattere il comunismo [è] opporgli una nazione socialmente bene ordinata”), e tutto ciò insieme alla capacità di cogliere il nucleo tragico dell’arretratezza italiana nel “problema dell’assimilazione delle masse allo Stato liberale”. Sono, vogliamo dirlo?, prese di posizione in fondo “salveminiane”, per riandare a quell’orizzonte politico-ideologico dove, con gli altri “delfini di Slataper”, Marin aveva formato la propria Weltanschauung (pur non nascondendo, a quei tempi, la sua distanza da certa moralistica astrattezza di Salvemini). Nelle pagine commemorative dell’entrata in guerra dell’Italia – un testo fino ad ora inedito, certamente del 1965 -la rivendicazione dei valori della Resistenza vede per la prima volta citati i comunisti fra quelli che, insieme a “cattolici, liberali, socialisti, repubblicani e monarchici”, si levarono contro il tedesco “al servizio di un ‘unica realtà ideale che si chiama Italia”. Le piccinerie della polemica locale (e ci sarebbe stata parecchia carne da mettere sul fuoco del dibattito, cominciando da Porzus e dalle posizioni antinazionali in merito al confine orientale del PCI togliattiano nei primi anni della “questione di Trieste”’) cedono il passo ad uno sguardo lungimirante, ad una scommessa sul futuro. Siamo in quell’arco di anni in cui matura – lo ha messo in luce Giovanni Talami in un bel saggio del 19927 – un modo nuovo di porsi. È nel mondo della cultura e dello spirito – il terreno più caro a Marin -che egli vorrà individuare quei legami ideali che permettono tanto una piena consapevolezza identitaria che un rapporto finalmente costruttivo con l’Altro: a teatro, nel 1958, a Capodistria, Marin scruta gli spettatori slavi, “… anch ‘essi piegavano la testa e il cuore di fronte a certi valori. Liberamente!” 8.
Fratelli nel nome di Goldoni. Siamo a una svolta.
Un lungo contributo mazziniano del 1965 chiarisce che ogni contesto politico deve essere affrontato “con il solo metodo sempre valido, quello della libertà”. Qui la Resistenza si configura di nuovo come l’unico gesto collettivo che abbia riscattato il Paese dal disonore del Ventennio nero e delle adunate oceaniche di un servile popolo plaudente. Confutando in modo convincente, con trent’anni di anticipo, le conclusioni di Galli della Loggia, Marin mostra di capire la necessità urgente di fondare una religione civile in un Paese dalla coscienza collettiva fragile e lacerata – il Paese delle piccole patrie, dei campanili e fazioni, o peggio, delle logge e delle cosche, delle cordate e clientele – e che quel fondamento, con tutte le inevitabili semplificazioni ideologiche e storiografiche, non poteva essere individuato che nel secondo Risorgimento, nella lotta di liberazione (si legga “Cittadini di Trieste”, 1965). Colpisce che nel 1969, a qualche anno di distanza – ma è sopraggiunto intanto quello spietato esame di coscienza di cui si trovano tracce, per esempio, nella splendida “Cololtri” delle Elegie istriane – Marin ribalti in sostanza le sue affermazioni di dieci anni prima a proposito degli esuli. Di essi respinge la “geremiade” espressa in occasione dell’annuncio della visita di stato di Saragat in Jugoslavia: “E destino tragico delle civiltà raffinate, cittadine, quello di soggiacere alle genti più primitive della campagna. E noi, fin dal Placito del Risano dell ‘804, avemmo il torto di chiedere protezione a Carlo Magno, invece di cacciarli noi, gli slavi invasori della nostra terra […] La guerra del 15-18 risolse il problema in nostro favore. Ma non fummo saggi, non sapemmo rispettare noi per primi i confini, e le minoranze entro i nostri confini. E noi giuliani non possiamo separare la nostra responsabilità da quella di tutta l’Italia, che era arrivata ad annettersi la stessa Lubiana […] La politica dello stato italiano verso la Jugoslavia non può essere condizionata dagli umori, dalle nostalgie degli esuli, che del resto, tra noi, si trovano a casa loro, anche in posti di grande responsabilità. E per aiutare i rimasti oltre il confine si devono battere altre strade f…] All’Italia convfiene] mantenere vivo con la Jugoslavia un rapporto di collaborazione e di amicizia. Sarebbe ora che tutti i settori della democrazia triestina, prendano atto di questa realtà f…]”
Si sbaglia forse a sentire in queste frasi un attualissimo palpito europeo? Un invito – di matrice certo mazziniana – alla fratellanza dei popoli? Suona ancora attuale l’accusa di “campanilismo”’ pronunciata a mezza voce da Prezzolini più di cinquant’anni prima? Si professerebbe Marin “irredentista”, proprio come nel 1954? Forse sì, ma “irredentista”’ contro l’Italia, come scriveva l’amico Stuparich – ben consapevole della portata tragica di questa formula – in un articolo sulla “Rivista di Milano” del febbraio 1920 contro l’Italia podagrosa della burocrazia, l’Italia malfida del commercio pitocco, l’Italia stronfia della retorica di piazza” 9). Non vi sono tracce in questo libro, che si chiude con un inedito degli anni ’70 {“Preambolo”) dell’ultimo Marin “civile”. Ma dove vada in seguito a colpire la spada del suo sdegno, con toni insieme accorati e gladiatori, lo mostra, per esempio, uno splendido scambio epistolare con il diplomatico piranese Diego de Castro pubblicato nel 199210 (non è un caso forse che le pagine più ricche per apertura e comprensione si trovino, per quanto riguarda Marin, negli epistolari, a dimostrazione che la dimensione “dialogica”, intesa come intreccio maieutico di interrogativi e di risposte, gli fosse particolarmente congeniale, sullo sprone dell’umanissima esigenza di trovare nell’altro frammenti di verità da fare, condizionatamente, propri). Fra gli infiniti spunti (e sono soprattutto germi di pessimismo e disincanto), il tono dominante è quello dell’amara scoperta dell’Italia: sul filo della critica al malgoverno democristiano Marin ammonisce che “uno stato balordo è sempre il prodotto di un popolo,,11 (1979), esprime disagio per la “continua esplosione di scandali” 12 (1980) e dichiara il proprio sgomento, considerando che il Rinascimento ha portato la civiltà in ogni angolo d’Europa, di fronte alla prospettiva – che pure si rifiuta di accettare – di un “popolo italiano ridotto a una marmaglia anarcoide, 13, (1981). E così via, con uno scoppiettare polemico di giovanile vivacità: leggere per credere. Ma il disincanto si era annunciato già qualche anno prima: aveva scritto a Carlo Jemolo, infatti, in un altro fondamentale scambio di pensieri dall’altissima temperatura intellettuale e morale (si legge su vari numeri della “Nuova Antologia” dei primi anni Novanta), “tu sai quanto male io, europeo, pensi di troppi italiani 14. Insomma l’uomo che intreccia con de Castro il fitto carteggio di cui abbiamo riportato qualche battuta appare ai nostri occhi ben più giovane e fresco dei suoi anagrafici novant’anni, ancora reattivo e pugnace come il ragazzo che faceva girare la testa alle maestrine di Gorizia: risoluto a non abbassare il capo, al contrario di quei molti fra noi che accettano rassegnati il degrado etico-civile, adulando magari una classe politica – inamovibile “casta”, come è stato dimostrato – probabilmente la peggiore d’Europa, composta in gran parte di individui ansiosi a concorrere per l’elezione non per spirito di missione ma per il desiderio di garantirsi l’agiatezza o l’impunità, in un Paese dove i cittadini onesti rappresentano ormai una minoranza derisa (li chiamano con sprezzo “moralisti” o “giustizialisti”).
Pur ribadendo, in linea di massima, la sua fedeltà speculativa al neo-idealismo italiano, mi pare inoltre che proprio nelle lettere a de Castro emerga in Marin una tacita presa di distanza tanto nei confronti di chi aveva sostenuto che il fascismo era stato un episodio circoscritto, una sorta di inattesa calata del Hyksos, quanto verso chi aveva ciecamente (e colpevolmente) legato le proprie fortune alle sorti del regime, facendosene fino all’ultimo strenuo apologeta (quel Gentile che Carlo Dionisotti – un altro grande intellettuale novecentesco tanto in apparenza schivo e appartato quanto in realtà proiettato verso la vita civile per un bisogno di incondizionata moralità – aveva descritto, nei giorni del tramonto, come uomo di “meschinità rivoltante“15, a quanto si legge in un intervento riproposto proprio quest’anno nei suoi Scritti sul fascismo e sulla Resistenza).
A proposito dell’Italia di oggi, Manlio Cecovini, nella raccolta di saggi Escursioni in Elicona, ricorda le pensose parole del novantenne: “la nostra Italia era ancora sempre un ideale da realizzare e non un semplice problema d’ordinaria amministrazione”16. Triestinizzare l’Italia, azzarda Cecovini, facendo eco a Slataper. E Marin, crogiolandosi in un miraggio di diversità che forse, per la sua generazione, conservava ancora qualche ragione di legittimità (la dice lunga la sua reazione all’inciviltà di un ufficiale italiano nel centro di addestramento di Caserta, negli anni del primo conflitto: “Noi austriaci non siamo avvezzi a tale inciviltà”, come racconta in un ricordo, 4 novembre 1918, pubblicato nel 1991 sul primo fascicolo di “Studi Mariniani”): “… questo miracolo fin ‘ora nessuno lo ha potuto fare;e Scipio è morto disperato””. Mentre intanto è la “palude” italiana – poteri arroganti, scialo di fondi pubblici, nepotismo e clientele, fastidio con la legalità – ad aver inghiottito Trieste: una città che, con fare indifferente (tanto c’è la sagra del sardòn) continua a confermare una classe politica allegramente sciovinista (scriveva Marin nel 1979, riferendosi al primo Dopoguerra: “ilpopolo italiano non era all’altezza della nostra esigenza”^; ma chi oserebbe ora attribuire ad altri la colpa della nostra ignavia?). Cosa avrebbe scritto Marin dell’ignominia della vita pubblica della cosiddetta “seconda Repubblica”, con le sue nuovamente oceaniche masse di popolo plaudente (tele-dipendenti, questa volta, che nutrono il nulla con l’effimero)? Non è difficile da immaginare. Per lui, mentre avvicinandosi all’ultimo crepuscolo si sente sempre più amareggiato dalla poca considerazione che pensa di godere negli ambienti più accreditati del mondo letterario (ed è perciò incline a chiudersi nel “culto fervido, creativo della trascendenza”19), ciò che vale è ormai soprattutto l’arte e la cultura, il mondo dei valori spirituali, un mondo nobile e immacolato – inaccessibile agli indegni – in cui contano soltanto i valori più veri: là e solo là, come aveva cantato l’amato Goethe, “iiber alien Gipfeln ist ruh”. Chiuderà gli occhi nel 1985. Di questo Maestro il libro di cui stiamo parlando trae dall’oblio straordinarie tracce di riflessione e infiniti stimoli a bene operare. Non resta che ringraziare.
1 Ernesto Sestan, Venezia Giulia – Lineamenti di una storia etnica e culturale, Bari, Edizioni del “Centro librario”, 1965. P. 102
2 Biagio Marin, La pace lontana – Diari 1941-1950, a cura di Ilenia Marin, LEG, Gorizia 2005. Con una postfazione di Ilenia Marin e uno scritto di Elvio Guagnini
3 È una traccia che rimanda da un lato all’irredentismo “di destra” (Ruggero Timeus: “l’uomo da solo, può solo distruggere: edificare nella storia non può che la nazione […] tutta la nostra vita spirituale è, e deve essere, tributaria della vita spirituale dell’Italia”, in Idem, Trieste, Editoriale libraria, Trieste s.d., ma 1965, P. 211), dall’altro al fascismo (“tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro la Stato” aveva sentenziato Mussolini, cfr. Emilio Gentile, il culto del Littorio, Laterza, Bari 2001 (I ed. 1993), p. 87
4 Senza nascondere le crisi che avevano attraversato la loro amicizia, cosi ricorda Biagio Marin, nel 1961, l’amico di una vita: “lo avevo già conosciuto qui a Trieste, ad un convegno di universitari, nel settembre del 1911 […] Giani era più intelligente di me, più preparato di me. Io ero un provinciale, lui un cittadino che la sapeva lunga. Fu lui a guidarmi per primo fra le vie di Firenze […] Ciò che ad onta di tutto ci ha tenuti sempre legati è stato quel mattino solare della prima giovinezza che dico fiiorentina solo perché là è nata […] l’atmosfera ideale che poi ci ha accompagnati per tutta la vita” (Biagio Marin, Testimonianza per Stuparich, in “Umana”, nn. 3-4, Trieste, 1961. Ora in Aurelia Gruber Benco, Antologia dì “Umana” (1951-73), Edizioni Umana, Trieste 1974.
5 Giani Stuparich, Trieste nei miei ricordi, Il ramo d’oro, Trieste 2004. P. 201.
6 Giuseppe Prezzolini, Diario, 1900-1941, Milano, Rusconi, 1978. P. 143. La nota risale al 13 die. 1914.
7 Giovanni Talami, Biagio Marin e la Venezia Giulia, in “Quaderni mariniani”, II, 2, 1992.
8 Ivi, p. 72
9 Giani Stuparich, Irredentismo superato? In ‘”Diego de Castro, Lettere di Biagio Marin, in “Rivista di Milano”, 5.11.1920. Pp. 94, 95.
10 Studi marmiani”, II, 2, Dic. 1992.
11 Ivi, p. 172.
12 Ivi, p. 173.
13 Ivi, p. 176. P. 83.
14 Cfr. Fulvio Salimbeni, // carteggio Marin- Jemolo, in “Quaderni mariniani”, II, 2, 1992.
15 Carlo Dionisotti, Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, Einaudi, Torino 2008. P. 54.
16 Manlio Cecovini, Biagio Marin – Il poeta dell’Isola d’oro, in Idem, Escursioni in Elico-
na, Lint, Trieste 1990. P. 91.
17 Ibidem.
18 Diego de Castro, Lettere di Biagio Marin, in “Studi mariniani”, II, 2, Dic. 1992. P. 158.
Fonte: «Le Panarie», settembre 2009.