Le Penne nere hanno scritto sul confine orientale italiano epiche pagine, tra le quali le esplorazioni di Mario Maffi nelle foibe.
Risale al 1872 la costituzione degli Alpini per presidiare valichi e vallate di confine con arruolamenti su base locale, in maniera innovativa per il Regio Esercito. Prendendo, infatti, a modello i Landesschützen tirolesi ed i precedenti risorgimentali dei Volontari Cadorini, capaci di dare filo da torcere agli asburgici nel 1848 sotto la guida di Calvi, e dei Cacciatori delle Alpi garibaldini, lo Stato Maggiore comprese che un possibile teatro di guerra come quello alpino necessitava di una perfetta conoscenza del territorio. I valligiani, inoltre, venendo mobilitati a difesa dei propri focolari, avrebbero garantito una maggiore capacità difensiva, incentivata dalla consapevolezza di combattere direttamente per la salvezza dei propri cari. In questa maniera vennero inquadrate con la tradizionale penna nera pure le classi di leva attinte dalle comunità slovene delle valli del Natisone, annesse nel 1866 e primo esempio di minoranza linguistica all’interno dello Stato sabaudo. Contemporaneamente la gioventù irredentista triestina attraverso la Società Alpina delle Giulie aveva promosso l’escursionismo e l’alpinismo con finalità addestrative e conoscitive di quello che sarebbe stato il campo di battaglia della tanto attesa nuova guerra di redenzione, con l’auspicio di dar vita nelle retrovie asburgiche di montagna ad una guerra per bande (seguendo un modello mazziniano) ovvero di esfiltrare per indossare il grigioverde e fornire prezioso supporto logistico (analogamente a quanto avrebbe fatto il trentino Cesare Battisti).
Nel corso della Grande guerra decine di battaglioni dall’Adamello al Carso passando per l’Ortigara combatterono molto spesso confrontandosi con Schützen austriaci che fino a pochi mesi prima erano stati loro amici e conoscenti nell’ambito delle comunicazioni transfrontaliere tra una valle e l’altra. Nelle prime giornate di conflitto sul fronte delle Alpi Giulie gli alpini realizzarono una delle imprese strategicamente più rilevanti: la conquista del Monte Nero, che consentì alle truppe di Cadorna di affacciarsi sulla fatale conca di Caporetto. A guerra finita, un paio di compagnie del battaglione Morbegno, destinato a vigilare su Fiume occupata da d’Annunzio, disertarono e assieme a singoli commilitoni e ad un reparto di mitraglieri già presenti nel capoluogo quarnerino costituirono il Battaglione Alpini Legionari Fiumani.
Durante la Seconda guerra mondiale le divisioni Taurinense, Pusteria e Alpi Graie sperimentarono la durezza della lotta antipartigiana in Montenegro, Sangiaccato ed Erzegovina (1941-1943), laddove la Julia, duramente provata sul fronte greco-albanese e ancor più su quello russo, avrebbe vissuto le catastrofiche vicende dell’8 settembre in Friuli Venezia Giulia, ove era in fase di riorganizzazione. Benché ridotta ai minimi termini, la Julia riuscì, infatti, a fronteggiare le colonne tedesche in arrivo dall’Austria prima di venire sciolta e di andare a costituire in clandestinità l’ossatura della brigata partigiana “bianca” Osoppo, i cui vertici, contrari al progetto espansionista di Tito nel nord-est d’Italia, sarebbero stati eliminati da gappisti friulani di fede comunista alle Malghe di Porzûs nel febbraio 1945. A difesa dell’italianità di queste terre ci furono anche penne nere sotto la bandiera della Repubblica Sociale Italiana: il reggimento Tagliamento, il battaglione Valanga nell’ambito della Divisione Decima e la compagnia Julia con mansioni di difesa costiera a Fiume.
E proprio ad un alpino venuto recentemente a mancare, Mario Maffi, si devono le prime ricognizioni alla ricerca di resti umani sul fondo delle foibe nel dopoguerra dopo i rinvenimenti del Maresciallo dei Vigili del Fuoco di Pola Arnaldo Harzarich in Istria nell’autunno 1943 e degli angloamericani sul Carso triestino nell’estate 1945. Esperto speleologo, Maffi svolse sotto copertura drammatiche ricognizioni notturne negli abissi di Basovizza e di Monrupino, ma anche oltre confine , grazie ad una scorta armata: la sua testimonianza (poi rielaborata in “1957. Un alpino alla scoperta delle foibe”, Gaspari, Udine 2013) e le sue foto dimostrarono che c’erano ancora ossa e reperti frutto delle stragi di massa perpetrate dalle truppe di Tito nei terribili Quaranta giorni di dominio nella Venezia Giulia. Pochi giorni dopo la sua morte, la Commissione statale slovena per le fosse comuni ha dichiarato che in territorio sloveno vi sono circa 600 siti in cui giacciono ancora vittime della repressione titina: in queste sepolture collettive vi sono salme di ex collaborazionisti sloveni e croati, ma probabilmente anche di centinaia di italiani deportati.
Comitato 10 febbraio, 13 luglio 2017