Alessandrine: storia di un’esodo dalla Slovenia all’Egitto
Scritto da Nicola Falcinella, Osservatorio Balcani e Caucaso, mercoledì 25 gennaio 2012
Al Film Festival di Trieste le commoventi storie di donne slovene emigrate in Egitto. Per lavorare come governanti, balie, tate, badanti. Lasciarono le famiglie, spesso anche con figli piccoli, per fare ritorno solo dopo anni e in alcuni casi mai più.
Le storie poco note delle donne slovene emigrate in Egitto e le vicende della più importante rock band jugoslava. Sono due dei film che hanno più appassionato il pubblico del Trieste Film Festival che si conclude stasera con “Leaving” di Vaclav Havel. Sia “Aleksandrinke” di Metod Pevec sia “Bijelo Dugme” di Igor Stoimenov sono documentari lunghi, appassionati e commuoventi. Il regista sloveno di “Carmen”, “Pod njenim oknom – Beneath her Window” (2003) ed “Estrelita” ha raccolto decine e decine di testimonianze per ricostruire le dolorosa vicende di migliaia di donne che partirono dalla valle del Vipacco, non lontano dalla frontiera di Gorizia, alla volta del Cairo e di Alessandria per lavorare ben pagate nelle case come governanti, balie, tate, badanti.
Lasciarono le famiglie, spesso anche figli piccoli o piccolissimi, per fare ritorno solo dopo anni e in alcuni casi mai più. Il regista ha trovato un paio di protagoniste, ormai centenarie, di quel vero e proprio esodo. L’ondata migratoria durò un centinaio d’anni, dal 1860-70, al tempo dei lavori per il canale di Suez, fino all’immediato secondo dopoguerra. Al tempo la porta del Mediterraneo e dell’Oriente era il luogo di scambi, un Paese florido, una ricchezza fondata sui commerci e sulla coltivazione del cotone. Le slovene si occupavano della cura delle persone ed erano preferite alle altre perché “più gentili delle inglese, meno rigide delle austriache, meno presuntuose delle francesi”.
Per saperne di più Un portale trilingue, in sloveno, italiano e inglese dedicato alle vicende delle “Aleksandrinke”
Le storie che emergono sono strappalacrime, sia viste dalla prospettiva delle famiglie abbandonate sia da quella dei bambini cresciuti da queste balie. Ragazzi cresciuti da madri surrogate che hanno sentito più vicine di quelle naturali. Un uomo ormai anziano ricorda la separazione mai rimarginata quando a 12 anni la sua tata lasciò all’improvviso la casa. «Sento ancor oggi una sensazione di perdita e di mancanza di sicurezza – racconta – quando sono morti i miei veri genitori non ho sofferto così». Dall’altra i figli cresciuti senza madri, affidati a una vicina, alla nonna, al padre. Oppure rimasti orfani, come due fratelli che all’età di quattro anni persero prima la nonna e poi il padre, mentre la madre rimasta in Egitto sarebbe tornata solo 40 anni più tardi.
Non meno doloroso il percorso delle balie. Partorivano a casa, partivano quasi subito per Alessandria, quando non avevano più latte rientravano a casa, il tempo di partorire un nuovo figlio e ripartire. Ci sono anche le giovani partite come prostitute e che han fatto fortuna sposando ricchi uomini d’affari. Tra i testimoni, anche uno eccellente: l’ex segretario generale dell’Onu Butros Butros-Gali ebbe una tata slovena di nome Milena. Curiosamente queste donne erano definite “Aleksandrinke” a casa e “Goriciennes” in Egitto. Le ragioni di questo esodo di massa stanno nella povertà della zona sud occidentale della Slovenia a quel tempo e anche nell’occupazione fascista.
Nella sezione “Muri del suono”, purtroppo quest’anno ridotta a due soli film (l’altro era “Freakbeat” di Luca Pastore, viaggio nel beat italiano anni ’60 e ’70 tra musiche de I Corvi ed Equipe 84 con Roberto Freak Antoni accompagnato dalla figlia alla ricerca di una fantasmatica registrazione emiliana di Jimi Hendrix), c’era “Bijelo dugme”. Il mitico gruppo del “bottone bianco”, nato nei primi ’70 in una Sarajevo molto dinamica. Circa 15 anni, dal ’74 all’89, di successi, scandali, milioni di dischi venduti, concerti affollatissimi, provocazioni e politica. Stoimenov ha condotto una meticolosa ricerca tra i filmati d’archivio per ricostruire, con la voce narrante dell’attore serbo Nikola Ðuri?ko, l’epopea della band che era partita scimmiottando i Beatles e divenne il simbolo di un’epoca.
Protagonista è il leader indiscusso del gruppo, quel Goran Bregovi? che l’Italia ha conosciuto solo più tardi con le colonne sonore per Emir Kusturica e per il recupero delle sonorità tzigane che hanno arricchito la “World Music”. Tra ballate, doppi sensi, copertine azzardate, censure, i Bijelo dugme hanno rappresentato più di tutti l’ansia di cambiamento e novità della gioventù jugoslava del periodo, aprendo la strada a gruppi come Azra, Prljavo kazalište, Elektri?ni Orgazam, Idoli o Zabranjeno Pušenje. Critici musicali, musicisti e naturalmente gli ex componenti rievocano nascita, sorprendente successo, litigi, cambi di cantanti, dischi registrati a Londra, canzoni scritte in poche ore sotto l’effetto delle droghe, concerti epocali, fan, sesso e tutto quanto fa una rock band. Fino allo scioglimento, nell’89, l’anno della caduta del Muro e del discorso di Miloševi? a Kosovo Polje. La fine di un sogno anticipava l’inizio di un incubo.