Scritto da Piero Rauber
Ci vorranno secoli, e non siamo nelle condizioni di Venezia, ma arriverà il giorno in cui piazza Unità e le Rive annegheranno nel mare. E non per colpa di una fenomenale libecciata, ma per l’impercettibile quanto inesorabile “accomodarsi” di questo nostro pezzo di terra nell’Alto Adriatico. Una discesa al ritmo di circa 0,7 millimetri all’anno. Un metro e mezzo abbondante in due millenni. I cambiamenti climatici e il temuto innalzamento delle acque stavolta non c’entrano. Questa tendenza – che risulta dalle conclusioni di un progetto europeo Interreg Italia-Slovenia da 236mila euro sul Golfo di Trieste finito nel 2009 dopo tre anni di ricerche – si origina da cause tettoniche. Da pure variazioni geologiche che un approccio scientifico, fondato esclusivamente su strumenti e modelli matematici, con ogni probabilità non sarebbe riuscito a scoprire da solo. A dare l’indicazione decisiva, in effetti, è stato lo studio di reperti archeologici, ieri terrestri e oggi sottomarini. Come dire, un’altra volta è stato il passato a suggerirci quale potrà essere il futuro.
Esperti ricercatori in versione sub hanno battuto infatti le coste del Golfo dalle Foci del Timavo a Pirano a caccia di “segnali” che testimoniassero com’era il paesaggio del frontemare di un tempo. E questi segnali sono venuti da «orti e soprattutto da moli per l’accesso di imbarcazioni di piccole e medie dimensioni in prossimità dei resti delle ville abitate in epoca romana che si affacciavano sul mare», come racconta Fabrizio Antonioli, il paleoclimatologo dell’Enea di Roma che ha seguito la parte geomorfologica del progetto, denominato “L’archeologia dei paesaggi costieri e le variazioni climatiche nel Golfo di Trieste” e coordinato dal Dipartimento di Scienze dell’antichità dell’Università di Trieste con la collaborazione, sul versante italiano, del Dipartimento di Scienze geologiche dello stesso ateneo giuliano. Un lavoro che è sfociato pure nella pubblicazione, la scorsa primavera, di un volume intitolato “Terre di mare” e curato dall’archeologa subacquea Rita Auriemma e da Snježana Karinja del Museo del mare di Pirano.
«Le misurazioni della quota di profondità di tali moli – entra nel dettaglio Antonioli – hanno detto che oggi il loro piano di calpestio sta di un metro e 60, un metro e 80 sotto il livello del mare, anziché gli originari dieci centimetri. Ne consegue che in duemila anni la parte emersa di questo Golfo è scesa di almeno un metro e mezzo». Un trend, se diviso in una microunità di misura come un singolo anno solare, da 0,7 milllimetri. Un trend che è uscito, come detto, da studi incrociati di geologi e archeologi. Dove le conoscenze storiche sono venute incontro ai dati strumentali. «Ciò – rileva ancora il paleoclimatologo dell’Enea – non dipende dal clima bensì da cause tettoniche. Il locale mareografo, che registra le variazioni di mare e terra, sembra non vedere questa tendenza. Segno che i movimenti più recenti tra quelli che hanno prodotto tale cambiamento, generati naturalmente da terremoti, risalgono almeno a 150 anni fa».
Fonte: «Il Piccolo», 29/10/09.