“Amarissimo Mare” è l’appellativo con cui Gabriele D’Annunzio si riferiva all’Adriatico, teatro di numerose sconfitte militari italiane e all’epoca sotto il dominio austriaco. Correva l’anno 1908 e D’Annunzio si accingeva a presentare una delle sue ultime opere teatrali, “La Nave”, ambientata nel 552 ma che riproponeva nello scontro narrato tra Venezia e Bisanzio molti dei temi dell’irredentismo anti-austroungarico che animavano il dibattito di quegli anni. La definizione di “amarissimo” infatti era dovuta al dominio dell’Austria-Ungheria sulle acque dell’Adriatico e sulle terre irredente di Istria e Dalmazia che vi si affacciavano.
Nelle trecento pagine del ricco volume dello storico contemporaneista triestino Raoul Pupo l’aggettivo esce dall’accezione letteraria e revanchista usata da D’Annunzio per assumere i connotati purtroppo concreti che si riassumono nel sottotitolo: appunto “una lunga storia di violenza”, settant’anni che vanno dagli ultimi due decenni dell’Ottocento fino alla metà del secolo scorso, con due picchi esplosivi (“la stagione delle fiamme e la stagione delle stragi”) che Pupo collega alle due guerre mondiali.
Infatti la prima stagione, quella delle fiamme, inizia nel 1915 quando i roghi bruciano dapprima a Trieste i luoghi simbolo dell’irredentismo italiano, per poi incendiare i presidi culturali sloveni e croati (come il Narodni dom attaccato dai fascisti nel 1920) per finire con le Camere del lavoro, i giornali socialisti e perfino i cantieri, simbolo dello splendore della marineria giuliana. Si impone un viscerale “fascismo di confine” che si proietta sul palcoscenico della storia italiana come soggetto assolutamente speciale e indispensabile, in serrata concorrenza con gli altri fascismi della periferia nazionale.
C’è poi la stagione delle stragi, che però inizialmente parte lontano, dalle terre di Bosnia e del Montenegro invase dagli italiani nel 1941. Ma rapidamente, col declinare delle sorti del conflitto, l’onda della violenza si avvicina, lambisce Gorizia, Fiume, il Carso. Scrive Pupo che “fra il 1944 e il 1945 tutto si fa maledettamente più complicato”. E sanguinoso. Anche perché la fine delle ostilità tra gli eserciti non spegne i conflitti accesi durante la guerra, tanto è vero che proprio nella primavera del 1945 si tocca un picco altissimo di violenza. Non è solo questione di numeri – almeno 60/80 mila vittime, di cui alcune migliaia di italiani nella Venezia Giulia – ma anche di una inedita cultura della violenza, che mira ad un nuovo ordine politico, ideologico e statuale.
Il tempo del secondo dopoguerra si fa lunghissimo ed incerto, spaccato tra una zona A che sta nell’Occidente liberale e capitalista ed una zona B che è Europa dell’est comunista, anzi stalinista per poi diventare di colpo solo titoista, cioè antistalinista. L’Adriatico è il liquido asse verticale che fa da laboratorio ad una brutalizzazione della politica che decolla nel primo dopoguerra con Fiume per poi diventare parossistica nel periodo 1941-1945. Anzi, nota Pupo, c’è “una circolarità dei modelli di violenza politica tra le due sponde adriatiche, che dopo la Grande Guerra connettono tra loro diversi bacini di crisi: quello balcanico-meridionale, quello centro-europeo e quello italiano”.
Quella che presenta l’autore è una storia complessa, sovente dolorosa, come spesso succede alle storie di frontiera. Una storia che però va affrontata per evitarne interessate e disinvolte manipolazioni. Ed anche per non dimenticare, come succede in questi tempi superficiali dall’oblio facile.
Vittorio Filippi
Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa – 14/12/2021