Scritto da Nelida Milani Kruljac, «La Voce del popolo», 17/02/15
martedì 17 febbraio 2015
Libri, ricerche, dibattiti sui temi della frontiera, dell’identità ibrida, dell’ordito polifonico dell’Istria sulla linea di intersezione tra civiltà diverse, dell’esodo e dell’esilio, del plurilinguismo, del cosmo mitteleuropeo e balcanico già da anni arricchiscono la tavolozza tematica tomizziana che si è costruita progressivamente, dinamicamente, da un convegno ad un forum, da un libro ad un altro libro, saggiando e risaggiando. Il volume “Rileggendo Fulvio Tomizza” (a cura di Marianna Deganutti) presenta talune linee principali di una prospettiva critica che conferma una pronunciata coerenza con l’ormai lungo corso della produzione saggistica tomizziana che, però, a quindici anni dalla morte dello scrittore istriano (1935-1999), trovano fonte e alimento nei nuovi strumenti teorico-critici della modernità. Pubblicato dalla casa editrice “Aracne”, questa raccolta di contributi di docenti e ricercatori del mondo accademico, mira a ricollocare l’autore fra gli scrittori di spicco del secondo Novecento italiano, attribuendogli il valore che gli spetta alla luce dell’universalmente umano che i suoi nuclei concettuali hanno assunto nel mondo di oggi.
TRA IL SACRO E IL PROFANO, IL CROATO E L’ITALIANO
Sanja Roi? adotta la prospettiva imagologica relativa ai meccanismi di costruzione e trasmissione delle immagini dell’altro, forme, pregiudizi, stereotipi e cliché che le accompagnano nella geostoria del Nord-Est italiano (Istria, Carso, Trieste) rivelandone le scelte linguistiche, tematiche ed etiche. Le immagini dell’altro si costituiscono spesso come rappresentazioni ad hoc basate su una determinata ideologia o come rappresentazioni più o meno deliberatamente falsate di un’entità spesso considerata aliena e dunque potenzialmente ostile. Pericle Camuffo, riferendosi ad alcune lettere inedite, evidenzia i motivi centrali del rapporto umano ed intellettuale intercorso tra Gino Brazzoduro e Fulvio Tomizza, rapporto che sfocia nella comune esulanza e nell’accettazione della frontiera estranea, però, ad ogni logica di rivendicazione identitaria o politica, ma intesa come luogo dell’et-et. Alessandro Ceteroni analizza la figura di Martin Crusich, il sagrestano della Miglior Vita, dall’identità plurale, rappresentante di una parrocchia dell’entroterra istriano, in cui – tra il sacro e il profano, tra il croato e l’italiano – si mescolano eventi epocali, consuetudini locali, integrazioni decennali fallite o osteggiate, ma si mantiene il valore profondo dell’identità parrocchiale fino all’esaurimento della funzione della parrocchia. Lo fa servendosi del concetto di ipseità elaborato da Paul Ricoeur, uno dei concetti più importanti dell’ermeneutica del sé, inteso come identità narrativa di un personaggio. Živko Niži? analizza la figura dell’apostata rinascimentale capodistriano Pier Paolo Vergerio il Giovane, con il quale lo scrittore di Materada si identifica nella comunanza dicotomica e conflittuale nata dall’essere posti a vivere e a essere lacerati tra due mondi, creando così il paradigma dell’istrogeocentrismo che coinvolge tutta quanta la categoria della gente confinaria. Anna Modena sposta il baricentro dell’analisi sulla particolre condizione di esiliato, grazie all’elaborazione dei rapporti di Tomizza con due figure di riferimento per il suo mondo editoriale, Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Da materiale inedito emergono retroscena riguardanti la sua evoluzione e la sua carriera di scrittore. Gallo e Sereni fanno maturare in Tomizza la coscienza identitaria e forniscono momenti di intermittenza al suo esilio che resta ininterrotto nell’isolamento triestino e nella “distanza” reale e metaforica delle grandi tematiche che hanno segnato la sua biografia letteraria.
La «parabola» tomizziana Maurice Actis-Grosso tratta l’esilio focalizzandosi sulla figura di Giustina de “La ragazza di Petrovia”, in cui storia privata e storia collettiva s’intrecciano, si fondono e concludono la “parabola” tomizziana con la morte della donna sul confine nel vano tentativo di tornare a casa, alla stregua della diaspora istriana che mai più farà ritorno nella terra avita. La catabasi della vittima sacrificale, in seguito alla repentina mutazione geostorica, trascende la dimensione individuale diventando simbolo di un’Istria ingannata e stuprata dalla Storia e dell’esilio di tutto un popolo. Paolo Leoncini nel suo saggio si inoltra nel territorio onirico de “L’albero dei sogni” e offre una nuova interpretazione del racconto della morte del padre come momento della riconciliazione con il figlio, proponendo la priorità del sogno sul racconto, del testo sul contesto, in base a un’analisi arcaico-totemica. Lo studioso vede nell’evento della riconciliazione onirica il nucleo germinale della narrazione che giungerà fino ad illazioni sull’essenza della natura umana, sui suoi condizionamenti storici e sul suo destino ultraterreno. Alessandra Locatelli, chiarisce e distingue la nozione di esilio e di esodo addentrandosi in profondità nella dinamica del sogno nelle opere “La torre capovolta”, “Nel chiaro della notte” e “La casa col mandorlo”.
Il sogno permette di sottrarsi alla logica e alla linearità del discorso per elaborare in libertà sia l’identità infranta dall’esodo che la sua trasformazione in sofferto esilio. Gianni Cimador elabora, invece, attraverso il libro “Nel chiaro della notte” il rapporto fra Tomizza e i Balcani, deposito intricato di memorie stratificate e irrisolte, zona per eccellenza di incontro-scontro, dove emergono fattori di un passato mai trascorso e sempre gravido di nuovo odio, rancore, conflitto, dissoluzione in territori marginali come l’Istria, dove si fa più acuta la “sindrome da ultima frontiera”. La volontà di ricomposizione afferma la riconciliazione e la costruzione di una memoria transculturale, estranea alle fasificazioni ideologiche e manipolatrici.
IL LIBRO COME UN MACROTESTO
Marianna Deganutti indaga alcuni rapporti che Tomizza ha instaurato con il mondo culturale e letterario est-europeo, con la letteratura slovena, ex-jugoslava e russa. Tracce dell’opera di Ivan Cankar, di Ivo Andri? emergono in riecheggiamenti e in parallelismi tematici nell’opera del Nostro. Rita Scotti Juri? fa emergere nell’opera tomizziana il complesso gioco interculturale e interlinguistico con tutte le tensioni cognitive e comunicative che ne nascono nella scrittura, con le pulsioni mortifere nonché con quelle di avvicinamento e scambio, le cui spie sono la commutazione di codice, le interferenze, i prestiti, i calchi. Il traduttore Mate Maras rievoca la pluriennale amicizia e mette in luce il travaglio linguistico di Tomizza sull’asse della selezione lessicale sottolineando inoltre come la prosa tomizziana rasenti spesso la poesia. Anne Jacobson Schutte, traduttrice in lingua inglese del libro “La finzione di Maria”, racconta la sua attrazione per la scrittura tomizziana così prossima alla microstoria. Infine Chiara de Manzini Himmrich si sofferma sulla profonda umanità di Tomizza uomo – che tale si rivela attraverso la pubblicazione di alcune lettere inedite – sempre disposto ad offrire “occhiali di lettura” per vedere la realtà in modo non convenzionale, bensì più vero, in tempi di guerra fredda.
Il volume è un macrotesto percorso da una complessa trama di intrecci e di richiami che possono incontrare momenti di confronto e di sintesi. Pur avanzando “per lumi sparsi”, è un buon tentativo di convergenza fra conoscenze settoriali, studi comparatistici, imagologici, onirismo come esplorazione di un’interiorità tormentata, studi sui pregiudizi, sugli stereotipi prodotti dall’alterità. Pur nella vastissima letteratura a lui dedicata nell’ultimo ventennio, a Tomizza piacerebbe questa summa, che ha il significato di un ribadito omaggio postumo e sottolinea ancora una volta che la funzione dei classici – e lui della frontiera a tutte le latitudini è un classico – non è solo quella di essere indimenticabili, ma di mimetizzarsi in inconscio collettivo e individuale.