Scritto da Giuseppe Parlato, «Libero», 01/11/13
venerdì 01 novembre 2013
Nel 1957 il governo italiano aveva notizie abbondanti sulle foibe e su quanto era accaduto sulla frontiera orientale fra il 1943 e il 1945. Le notizie provenivano dai vari rapporti dei corpi militari di stanza in Istria,a Trieste, a Fiume prima e dopo1`8 settembre. Relazioni, a cominciare da quelle puntuali della Guardia di Finanza, che concordavano tutte nel descrivere una tragica verità: la sistematica eliminazione degli italiani, soprattutto dei semplici servitori dello Stato, aldilà delle ideologie e delle appartenenze politiche. Bastava, com`è noto,essere italiani per rischiare l`eliminazione. Quindi il governo italiano,che pure iniziava ad avere rapporti commerciali con la vicina Belgrado, sapeva bene che cosa era successo. Forse, però, ignorava l`entità della strage, o comunque ne aveva una superficiale informazione, come per altro anche noi oggi non riusciamo a sapere esattamente quanti sono state le morti violente in quei tragici mesi. Peraltro, da parte jugoslava – allora come oggi – si tentava di ridimensionare il numero delle vittime, derubricandolo a poche decine, in genere biechi fascisti, già torturatori di slavi innocenti.
Ma evidentemente i governi centristi non erano così convinti che quella di Belgrado fosse la verità. Stiamo parlando della primavera-estate del 1957 e al governo c`era Antonio Segni con una coalizione Dc, socialdemocratici e repubblicani, fino al maggio, poi Adone Zoli, con un monocolore democristiano sostenuto dai voti determinanti del Movimento sociale italiano. Due governi, quindi, di centrodestra, come oggi si direbbe.
Per cui l`ipotesi che potessero volere verificare l`entità della tragedia e soprattutto verificare che le foibe fossero piene dello ro tragico carico di morte è più che verosimile. Sta di fatto che in quell`estate, un alpino del Genio fu incaricato di scendere in diverse foibe, due vicino a Trieste, altre in territorio jugoslavo.
L`operazione fu coperta da assoluto segreto e il giovane ufficiale non poté parlarne né prima né durante con nessuno, neppure con i familiari, come oggi mi confermano l`interessato e sua figlia. L`alpino in questione, il sottotenente del Genio Pionieri Orobica, Mario Maffi, 25 anni, cuneese, un tipo calmo e razionale, un bel pizzo alla Italo Balbo. Il segreto militare sull`intera operazione è venuto meno in questi ultimi anni e allora Maffi si è deciso a scrivere la sua storia in un bel libro nel quale racconta non solo la vicenda delle foibe, ma un po` tutta la sua vita: 1957. Un alpino alla scoperta delle foibe (Gaspari editore, pp. 126, euro 15,80). Scelto perché provetto speleologo, Maffi fu incaricato di perlustrare e fotografare il fondo delle foibe di Monrupino e di Basovizza, vicino a Trieste, le uniche in territorio italiano.
L`emozione e lo stupore provato alla prima discesa in foiba erano pari soltanto all`orrore che provò nel constatare che, dopo essersi calato con la corda, stava camminando su quello che credeva fosse il fondo della foiba; in realtà sin trattava di un blocco compatto di almeno 500 cadaveri ormai saponificati dall`umidità che costituivano una sorta di “pavimento”,ma il fondo della foiba era ancora più in basso. In superficie al blocco saponificato, abituandosi all`oscurità, Maffi distingueva ossa, mandibole,pezzi di stoffa, crani. Nella foiba di Basovizza,la stessa scena, ma con un blocco di cadaveri decisamente più ampio,sì da rendere l`aria del tutto irrespirabile.
Poi fu la volta delle foibe jugoslave. Di notte, in borghese e con la qualifica di fotografo, accompagnato da carabinieri italiani armati, senza sapere dove operava, ma sicuramente oltre confine, Maffi fu fatto calare in assoluto segreto in quattro foibe. Il suo ricordo è nitido: «Al fondo di quelle foibe riscontrai diversi resti umani, non in quantità esorbitanti, ma purtroppo in condizioni atroci: un paio di crani più o meno sfondati, mani e piedi avvolti da filo di ferro, alcune costole ancora unite alla spina dorsale avvolte da filo spinato. In tutte le foibe notai che quei resti erano ricoperti da pietrisco: evidentemente con l`esplosivo erano fatte saltare le rispettive imboccature». Ma l`operazione fu scoperta e ne parlarono i giornali.
Fu così che le missioni si interruppero. Maffi redasse una relazione per il comando, della quale poi non si seppe più nulla. Ma per fortuna la stampa parlò solo della missione a Basovizza e questo impedì un incidente diplomatico con la vicina Jugoslavia. Unico ricordo della missione furono le fotografie che Maffi scattò all`interno delle foibe e che sono riprodotte nel volume. Pochi mesi dopo si congedò. Il comandante lo avvertì di non recarsi in Jugoslavia perché il suo nome era stato certamente segnalato. Così finiva una storia tenuta segreta per anni. Anche questo tassello è servito a comporre la strategia del silenzio e dell`oblio, strategia alla quale tutti si sono attenuti, dai governi ai politici, dagli amministratori locali di quelle zone a coloro i quali sapevano perché testimoni diretti o indiretti. E il fatto che dopo 56 anni possiamo presentare come una novità un fatto che si sarebbe dovuto conoscere diffusamente è un altro segnale delle responsabilità della classe dirigente che ha voluto tenere all`oscuro generazioni di italiani. Non è certamente mai tardi per sapere come sono andate le cose, ma è assai grave che mezzo secolo di silenzio o di false verità si sia stratificato nei libri di storia e nell`immaginario collettivo.
Una rimozione che pesa sulle coscienze di chi ha voluto e organizzato questo silenzio e che ancora di più pesa nel vissuto e nel ricordo di chi sa di avere i propri cari laggiù, in quel blocco saponificato nel buio della storia.