A Lubenizze, minuscolo villaggio nel cuore dell’isola di Cherso, vi è un museo dedicato alla pastorizia. Simbolo di un territorio che, raccontando di sé, vuole reinterpretare e continuare nelle proprie tradizioni. Abbiamo incontrato Marijana Dla?i?, la sua presidente.
Com’è nata l’idea del Museo della pastorizia?
Nel 1999, più di vent’anni fa, venne creata innanzitutto un’associazione per valorizzare la tradizione pastorale [la “Ruralna oto?na grupa”, gruppo rurale dell’isola, ndr]. Fu poi Mario Šlosar, uno dei fondatori dell’associazione, il principale ideatore del Museo (“Muzej ov?arstva ”). Voleva rivitalizzare Lubenizze. Io mi unii all’associazione nel 2010, quando il progetto stava ormai prendendo forma. Sono originaria di queste terre, del vicino paese di Pernat, mi sono riconosciuta nell’intera iniziativa e ho deciso di dare il mio contributo.
L’idea del museo della pastorizia nacque poi concretamente nel 2008. L’edificio in cui si trova il museo e in cui ci troviamo ora è di proprietà del comune di Cherso ed è colloquialmente chiamato Popova ku?a [La casa del pope] perché un tempo ospitava l’abitazione del sacerdote locale. La casa era in condizioni fatiscenti quando l’associazione la ottenne in uso. Bisognava ricostruirla interamente, come ben mostra uno dei pannelli esposti all’esterno. Il tetto, i muri, i soffitti in legno, i pavimenti… tutto venne ricostruito affinché l’edificio potesse ospitare il progetto dedicato alla pastorizia tradizionale.
Prima ancora del museo siete però partiti con un libro…
Sì, la prima iniziativa importante fu la pubblicazione di un libro sulla pastorizia tradizionale, uscito nel 2010, scritto da Marina Jurkota Rebrovi?. Un libro che parla di allevamento della pecora non solo a Lubenizze, ma sull’intera isola di Cherso e su quella di Lussino. La peculiarità della pastorizia a Cherso risiede nel fatto che le pecore trascorrono tutto l’anno all’aria aperta. Nella vicina isola di Veglia le pecore di notte vengono ricondotte in stalla, mentre qui stanno sempre all’aperto, vengono solo spostate da un terreno – ograjica, come le chiamiamo qui – all’altro.
In passato gli abitanti di queste isole, oltre che alla pastorizia, erano dediti anche a varie attività agricole. Gli anziani ne conservano la memoria. Ad esempio, una signora di Lubenizze ha raccontato che un tempo l’attività più redditizia era la vendita di legna. Nelle vecchie fotografie si vedono inoltre dei vigneti ai piedi di Lubenizze. In realtà, un tempo l’intera isola era coperta di vigneti. Oggi invece non se ne trovano più, ma ci sono ancora molti uliveti.
Attività agricola che, a differenza della pastorizia, è ormai quasi abbandonata…
I villaggi si sono svuotati. Sono rimasti solo gli anziani, i giovani se ne sono andati nei centri urbani, a Cherso, Lussinpiccolo, Fiume, anche più lontano… L’esodo dei giovani pian piano ha portato anche all’abbandono dell’agricoltura. La pastorizia invece è sopravvissuta proprio perché le pecore stavano all’aperto tutto l’anno, non serviva portarle al pascolo ogni giorno. Quindi, risultava più semplice praticare la pastorizia che l’attività agricola. Per lo stesso motivo è sopravvissuta, o meglio è stata ripristinata, la coltivazione dell’olivo. A differenza dei vigneti che, se vengono trascurati per qualche anno, diventano completamente irriconoscibili, gli alberi di olivo anche dopo anni di abbandono continuano a dare frutti, quindi la coltivazione può essere facilmente ripristinata.
E perché avete deciso di concentrarvi in particolare sulla pastorizia?
Ci siamo focalizzati sulla pastorizia perché i turisti e i visitatori la percepivano come l’elemento che maggiormente contraddistingueva queste terre. Però, quando ci penso, dopo tanti anni, forse avremmo potuto allargare la prospettiva dimostrando che la pastorizia non era l’unica attività praticata sull’isola. Ecco, potrebbe essere una visione per il futuro: mostrare che in passato sull’isola, oltre alla pastorizia, fiorivano anche altre attività.
Inizialmente pubblicavamo libri dedicati ai vari aspetti della pastorizia, completando così l’esposizione permanente. Poi nel 2019, in occasione dei vent’anni dalla fondazione dell’associazione, abbiamo realizzato il nuovo allestimento. L’idea dell’esposizione è di raccontare la pastorizia attraverso le stagioni, quindi un viaggio attraverso le stagioni per dimostrare che tutte le attività legate alla pastorizia venivano praticate in sintonia con la natura.
Ci racconta le sale del museo?
La prima e la più grande è dedicata alla primavera, ossia a quegli aspetti della pastorizia legati alla primavera. Con la primavera non inizia solo un risveglio della natura, ma anche un nuovo ciclo di vita delle pecore, perché è in questa stagione che le pecore partoriscono, quindi c’è più lavoro. Gli agnelli devono essere visitati ogni giorno per verificare se siano stati allattati. Le pecore sono come le persone, alcune allattano i propri agnelli più delle altre. Poi quando gli agnelli giocando si perdono, alcune pecore iniziano subito a cercarli, altre no. Anche le zecche sono pericolose, forse non tanto per gli esseri umani, e nemmeno per le pecore, quanto per un piccolo agnello, soprattutto se ne succhiano il sangue: la puntura deve essere trattata con un preparato speciale.
Un tempo i guadagni più cospicui derivavano dalla vendita degli agnelli. Ci si dedicava anche alla mungitura e alla produzione del formaggio. Poi in tarda primavera le pecore venivano tosate. Tutte queste attività sono presentate nella prima sala. Proseguendo il percorso, si arriva ad una sala laterale dove sono raccontate le attività svolte in estate. Nella sala di sopra invece è presentato l’autunno e poi l’inverno.
Si descrive anche il ciclo legato alla tosatura e lo sfruttamento della lana…
La storia della lana ben illustra l’intero percorso. Le pecore venivano tosate sul finire della primavera o all’inizio dell’estate. Poi bisognava lavare la lana, ma lo si faceva solo ad agosto: era il mese più caldo, quindi la lana si asciugava rapidamente. Secondo, in quel periodo non c’erano altre attività agricole, quindi ci si poteva dedicare al lavaggio della lana. Dopo il lavaggio la lana veniva pettinata, qui sono esposti tutti gli oggetti che servivano a questo scopo.
Poi d’inverno, quando le giornate si accorciavano e le donne trascorrevano più tempo a casa, la lana veniva filata. Qui al museo sono esposti anche i cosiddetti munineri che venivano utilizzati d’inverno.
Non mancano riferimenti alla cultura del cibo…
L’ultima sala è proprio dedicata ad un dolce preparato nell’intestino di pecora, particolare anche per il fatto che un tempo veniva preparato esclusivamente nel periodo del pust, cioè del carnevale. Qui si conclude la mostra: siamo partiti da febbraio/marzo e dalla nascita degli agnelli, ossia dall’inizio della vita, poi abbiamo attraversato tutte le stagioni, per arrivare nuovamente a febbraio, chiudendo il cerchio con il racconto sul cibo.
Perché avete deciso di aprire un museo proprio a Lubenizze? Oggi qui non vive più nessuno…
Fino a qualche anno fa vi vivevano tre anziane durante tutto l’anno. Adesso quando arriva il freddo vanno dai figli a Cherso. Se non erro, secondo l’ultimo censimento della popolazione, a Lubenizze sono registrate otto persone, ma questo dato ovviamente non corrisponde alla realtà.
Perché Lubenizze? Come potete vedere, questo è un luogo molto particolare. Quindi, volevamo in qualche modo promuovere non solo Lubenizze, ma l’intera area. Per questo abbiamo anche pubblicato una guida dedicata a queste terre. Prima dell’apertura del museo da queste parti non c’era nulla di simile, anzi, non c’era assolutamente alcuna iniziativa. È vero che d’estate è aperta una taverna, si vende qualcosa… ma noi volevamo offrire ai turisti e ai visitatori qualcosa di più.
La pastorizia continua ad essere praticata?
Attualmente il problema principale sono i cinghiali. Arrivano fino alla città di Cherso, attaccano anche le pecore e fanno strage degli agnelli. Per questo motivo ci sono sempre meno pecore e le persone sempre più spesso decidono di abbandonare l’attività.
Il problema dei cinghiali è difficile da risolvere?
Sì. In altri paesi e su altre isole si è riusciti a liberarsene, ma per questo è necessario adottare una legge a livello nazionale. Il nostro stato per qualche motivo non vuole adottare tale legge. È stata solo approvata una disposizione secondo cui li si può cacciare tutto l’anno. Ma così non si risolve il problema.
Eppure le soluzioni ci sono. In alcune zone hanno tentato di risolvere il problema con la sterilizzazione. Quindi, anche questa potrebbe essere una strada da intraprendere. Sempre più spesso si sente parlare dei cinghiali che arrivano fino alla periferia di Fiume, quindi fino ai centri urbani. Qui sull’isola la situazione è ancora peggiore, perché lo spazio è limitato. Ripeto, affinché il problema venga risolto, è necessario approvare una legge apposita. La città di Cherso ha cercato di intervenire a livello locale, anche la contea a livello regionale, serve però una legge nazionale.
C’è una pecora particolare qua a Cherso?
Si chiama pecora chersina. Oggi si alleva solo per gli agnelli, ma un tempo si produceva anche il formaggio e si vendeva la lana. Quindi, non veniva allevata solo per la produzione del formaggio, come accade sull’isola di Pago, né semplicemente per la lana o la carne, ma per tutti questi elementi insieme. Tutti i prodotti derivanti da questa razza sono di alta qualità.
A differenza di altre razze ovine, è più piccola e più snella, ha le gambe lunghe, anche perché qui il terreno è irregolare e disseminato di grosse pietre taglienti.
Questo è un luogo dove si preservano le tradizioni, si cerca di ricordare quello che è stato. Da questo punto di osservazione privilegiato lei ritiene vi sia un equilibrio tra tra turismo e tutela del territorio?
Proprio in questi giorni si sta dibattendo del fatto che qui, nei dintorni di Lubenizze vorrebbero aprire un campeggio. La popolazione locale è contraria, da un lato è un atteggiamento comprensibile, dall’altro però forse non è una cattiva idea. Il progetto è di una grande azienda che dispone di cospicue risorse. Viene comunque da chiedersi quanti vantaggi possa portare al territorio. A differenza di Valun, che è una località maggiormente orientata al turismo, qui forse il divario che causerebbe sarebbe troppo grande. Oggi qui non c’è più niente, il villaggio è deserto e sempre più abbandonato a se stesso. Se ci fossero più persone, come a Valun, allora sarebbe diverso. In alcuni luoghi la gente ha protestato [contro simili progetti] perché vi vedeva un problema. Qui però ormai non vive nessuno, quindi la gente può anche protestare, ma non è la stessa cosa, perché non c’è nessuno sul posto. Quindi, resta il dilemma su come sviluppare il turismo in questo territorio, considerando anche il problema dei cinghiali.
Siete soddisfatti di quanto costruito in questi anni?
Sì, siamo soddisfatti e l’atmosfera qui, quando il museo è aperto, da giugno a settembre, è sempre molto gioiosa.
Da direttrice, qual è il suo sogno per questo luogo tra cinque o dieci anni?
Non vorrei che la pastorizia venisse completamente abbandonata. Come ho già menzionato, sono originaria di Pernat, i miei genitori ancora hanno una ventina di pecore, ma anche noi abbiamo grossi problemi con i cinghiali. Io non posso occuparmene, quindi i miei genitori probabilmente abbandoneranno la pastorizia. Non vorrei però che tutto questo rimanesse ricordato solo nelle fotografie, che non ci fosse più la possibilità di vedere le pecore all’aperto. Il discorso potrebbe essere esteso agli altri aspetti a cui ho accennato prima, ossia al fatto che qui un tempo, oltre alla pastorizia, venivano praticate anche altre attività. L’idea è quella di sottolineare la convivenza con la natura, non per tornare indietro di cent’anni, bensì per imparare a rispettare la natura e l’isola, per trovare un equilibrio.
Intervista a cura di Nicole Corritore
Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa – 24/04/2023