Scritto da Alessandro Mezzena Lona, «Il Piccolo», 22/07/11
Così Nando Vitali descrive l’orrore di una foiba nel suo romanzo I morti non serbano rancore. «Con lo sguardo incalzò qualche metro più in basso, come per risucchiare con gli occhi la breve profondità che lo separava da quella massa scura. Una leggera brezza fredda e pungente gli arrivò come una folata. Il Capitano si rinserrò nella divisa. Chiuse l’ultimo bottone che si annodava alla gola. Poi lo prese il dolore, poi il vomito e le mani gli formicolarono come se milioni di insetti gli si fossero ficcati sotto la pelle. Di quelli che ti paralizzano e ti succhiano la vita. Si fondevano schifosamente con il corpo. Per terra, steso con circospezione, la sua testa si era appoggiata sul bordo della fossa. L’odore si era fatto più forte, fino a quando i suoi occhi, d’improvviso raggianti, più reattivi, avevano illuminato la moltitudine di carne e ossa che otturava la foiba. Quasi la riempiva fino all’orlo, come succede allo scarico di un lavandino quando l’acqua non riesce a scendere, e bisogna succhiare con la ventosa per riportare a galla tutto lo schifo che aveva formato l’intasamento. Avvertiva più forte il bisogno di chiarezza, le braccia si muovevano da sole, sentiva il roteare della scapola e le mani come animali, le dita chele, il rigonfiamento delle nocche ossute. Il Capitano gemeva, il corpo allungato, che ricordava quello di un verme cieco alla ricerca del cibo, e della tana perduta».
Per troppi anni è sceso il silenzio. Un’indifferenza colpevole. Un disinteresse inspiegabile. Sembrava che i morti nelle foibe non avessero il diritto di essere pianti nemmeno da chi si occupa per professione degli orrori della Storia. Poi, all’improvviso, è cambiato qualcosa. E negli ultimi anni si sono intensificati non soltanto i documentati saggi, gli studi specialistici sull’argomento, ma anche i romanzi. Le prove narrative. E proprio l’ombra nera di quegli inghiottitoi carsici in cui sono sparite innumerevoli persone ritorna in un romanzo dello scrittore napoletano Nando Vitali. Si intitola I morti non serbano rancore, lo pubblica la casa editrice Gaffi di Roma (pagg. 302, euro 15.50). Arriva sulla scia di altre prove narrative, come Chiodi storti. Da Ponticelli a Napoli centrale, dell’autore che collabora al «Manifesto» e al «Mattino». Vitali va a scavare nel passato dimenticato dalla memoria familiare. Per riportare alla luce la vicenda del Capitano Goretti, un soldato italiano sbalzato all’improvviso su uno dei fronti più difficili della Seconda guerra mondiale. Quello posto nelle vecchie province dell’Impero austroungarico che i partigiani di Tito contendevano, palmo a palmo, a chi era stato spedito lì, e poi abbandonato a se stesso, dal fascismo. A quell’esercito che aveva portato in Slovenia, in Croazia morte e violenza. La storia riprende forma grazie alle parole del figlio, che in un dialogo impossibile e commovente si fa raccontare dalla sorellina Marianeve, ormai morta, i dettagli di una vicenda a lui sconosciuta.
Vitali sa fondere con grande sensibilità i diversi piani della narrazione. Così, tra le pagine del romanzo, il dialogo immaginario tra i due fratelli, separati inesorabilmente dalla Morte, si interseca con il racconto di quella guerra maledetta. E con altre due vicende private, parallele: l’amore furioso, carnale, contraddittorio del Capitano Goretti per la bella Ivanka, che deve dividere con il capo dei titini Erik il Rosso, e il tradimento della moglie che lo aspetta a casa. E che porterà alla nascita di una figlia troppo presto ripudiata. A elevarsi sul fondale delle vicende private è la tragedia delle foibe. La scoperta di una violenza cieca, bestiale, che non guarda in faccia nessuno. Che trasforma il nemico nell’oggetto odiatissimo da eliminare con tutti i mezzi. Da consegnare nelle braccia della Morte come un povero agnello sacrificale, con le mani legate dal filo spinato. Laggiù, dentro le paurose cavità che accolgono i corpi in un silenzio irreale. E che diventano subito tombe segretissime. Impossibili a volte da individuare. La follia della guerra, l’impossibilità di separare veramente le colpe dei vinti da quelle dei vincitori, l’ingresso in quella zona grigia dove ogni violenza è consentita anche a chi in tempi di pace sognava un mondo diverso, più libero, migliore, sono l’impasto narrativo da cui Nando Vitali estrae un romanzo bello e doloroso. Un libro che porta in primo piano il tradimento più grande perpetrato nel “secolo breve”: quello contro la dignità della persona umana.