La vicenda dei trentini in Bosnia affonda le sue radici in un passato non troppo lontano, tuttavia poco si sa di questa migrazione per molti versi anomala e col trascorrere degli anni molti ricordi si faranno sempre più sfuocati. Tutto ha origine nel 1882, quando una disastrosa alluvione travolge gran parte dell’arco alpino. Il Trentino, già fortemente impoverito dai mutamenti politici (annesso definitivamente all’Austria nel 1867, perde il suo principale sbocco commerciale nel Lombardo-Veneto) e dalla crisi dell’agricoltura, è al tracollo. Il fenomeno della migrazione, già fortemente presente, come del resto in tutta la penisola, diventa di massa.
Colonizzare la Bosnia, o no?
Nel 1878, a seguito del Congresso di Berlino, il Regno di Bosnia e il Ducato di Erzegovina, governati dal 1463 dall’Impero Ottomano, diventarono protettorato austroungarico. Il controllo dell’area rischiava di destabilizzare la neonata monarchia bicefala e la Bosnia Erzegovina versava in condizioni disperate: l’economia di sussistenza si basava su strutture feudali e una parte consistente della popolazione musulmana, all’indomani dell’arrivo delle truppe austroungariche, era fuggita verso la Turchia, abbandonando grandi estensioni di terreni. Parallelamente alle riforme avviate per migliorare la situazione economica del paese, si sviluppò l’idea di creare delle colonie contadine, con sudditi di comprovata fedeltà all’Impero, in queste aree rimaste disabitate, facendole diventare zone “sicure”. Da qui, quindi, il progetto imperiale che avrebbe portato i Trentini in Bosnia Erzegovina.
È difficile definire l’attendibilità di questa teoria diffusa tra gli storici che si sono occupati d Trentini in Bosnia Erzegovina (Sartorelli, Grosselli, Raffaelli); spesso analizzando la documentazione ufficiale, verrebbe da pensare il contrario: alla Luogotentenza di Trento arrivarono raccomandazioni atte a scoraggiare le partenze e nel 1910, a causa delle continue proteste della popolazione della Bosnia settentrionale, tutti i progetti di colonizzazione vennero abbandonati. Senza dubbio, l’amministrazione austroungarica non promosse mai una vera e propria politica di colonizzazione di massa. La macchina organizzativa cominciò a muoversi poco dopo l’alluvione. Il governo contattò i Comuni più colpiti, e nella primavera del 1883 vennero reclutati degli esploratori con il compito di visionare i fondi a disposizione in Bosnia Erzegovina, di capire se l’area fosse di effettivo interesse ed eventualmente procedere alla scelta dei terreni da colonizzare. Si possono circoscrivere sei principali “spedizioni” nel periodo che va dal settembre 1883 e l’aprile 1884.
Il primo viaggio
La prima partenza, avvenuta a fine settembre 1883, ebbe un destino tutt’altro che fortunato. I coloni, partiti da Nave San Rocco, un piccolo centro a nord di Trento, arrivarono alla meta prescelta, Konjic, in Erzegovina, ad autunno già inoltrato, scelta che li costrinse a un inverno di fame e stenti. Da subito la colonia si rivelò mal organizzata e mal gestita. Mancavano degli alloggi e i coloni si trovarono costretti a ripararsi dall’inverno in capanne di fortuna costruite in grotte; i terreni loro assegnati erano molto lontani dal centro abitato e, per tutto il periodo trascorso in Erzegovina, i coloni dovettero subire le angherie del direttore della colonia, mal disposto nei loro confronti. Con la fine dell’inverno, i trentini decisero di rimpatriare, considerando fallito il tentativo di colonizzare l’Erzegovina; questa decisione fu non poco sofferta: in Trentino ormai non avevano più nulla, ciò che non era stato distrutto dall’alluvione era stato venduto per provvedere alle spese di viaggio. Molti di loro furono costretti a chiedere l’aiuto delle autorità locali per poter cominciare nuovamente la propria vita. Tra l’agosto e l’ottobre 1884, tutti i coloni partiti per Konjic fecero ritorno a Nave San Rocco.
Il secondo viaggio
Tra il settembre e l’ottobre 1883 partirono da Aldeno, piccolo paese a sud di Trento, circa novanta famiglie dirette verso Maglaj, nel distretto di Banja Luka, un’area in cui erano già presenti gli insediamenti di coloni provenienti da altre parti dell’Impero. Come per chi era emigrato in Erzegovina, anche qui il primo inverno non fu affatto facile; tuttavia le famiglie insediatesi a Maglaj non si persero d’animo e solo dopo due anni ottennero un nuovo lotto di terra in una zona collinare poco distante, dove in breve sorse la Tiroler Colonie. Dal Trentino importarono la vite, costituendo un fiorente commercio di vino, al tempo pressochè sconosciuto in Bosnia, e in pochi anni riuscirono a creare condizioni di relativo benessere. Così come la colonia di Konjic, anche la Tiroler Colonie non esiste più.
Dopo la Prima guerra mondiale, la situazione per la comunità mutò fortemente: non più sudditi dell’Impero Austroungarico, i trentini si ritrovarono improvvisamente stranieri nel villaggio da loro stessi fondato due decenni prima; la coltivazione della vite, unica fonte di sostentamento economico, fu colpita da un’epidemia di filossera. L’interessamento del fiduciario del console italiano nel Regno di Jugoslavia ai coloni fece in modo che questi nel 1928 ottenessero la cittadinanza italiana e che, nel 1940, potessero trasferirsi, in un esodo al contrario nell’Agro Pontino.
Il terzo viaggio
Numerose le partenze, sia gestite a livello imperiale sia organizzate in modo indipendente, verso la zona di Prnjavor, piccolo centro a est di Banja Luka. È difficile stabilire il numero dei coloni partiti: nei documenti per l’espatrio non era necessario specificare quale fosse la destinazione del viaggio nel caso si trovasse all’interno dei confini Imperiali; inoltre buona parte degli archivi comunali e parrocchiali, sia in Trentino sia in Bosnia, è andato distrutto durante la Prima guerra mondiale. Le famiglie inizialmente si insediarono in maniera sparpagliata su tutto il territorio attorno a Prnjavor. Il primo decennio di permanenza in Bosnia della comunità fu caratterizzato da una forte mobilità, anche oltre oceano.
La colonia di Štivor così come è conosciuta ai giorni nostri nacque nel 1893 quando tutte le famiglie trentine cominciarono ad acquistare nuovi terreni, differenti da quelli assegnati dalle autorità austriache, sulla stessa collina, spinte probabilmente dal desiderio di riunirsi con i propri conterranei. Come nella Tiroler Colonie, i coloni cercarono di introdurre tutti i prodotti tipici dell’agricoltura trentina, non ottenendo però lo stesso successo dei coloni di Mahovljani, forse perché meno esperti nella viticoltura, coltivazione più redditizia, e perché più isolati da un possibile mercato. L’economia rimase a lungo di sola sussistenza e molte persone si trovarono costrette a fare ricorso a lavori salariati in altre zone della Bosnia o a dover ricorrere nuovamente all’emigrazione.
La “scoperta” di Štivor
Gli ultimi contatti tra Trentino e la comunità di Štivor risalgono al 1914, prima che scoppiasse la Grande Guerra, quando vennero mandate le ultime lettere ai Comuni di provenienza, ignorate e archiviate perché scritte in serbocroato o in un dialetto che ormai non si comprendeva più. Dopo la Prima guerra mondiale vivere nell’anonimato divenne un’esigenza per gli štivorani: cittadini di un impero che non esisteva più, stranieri e senza una vera e propria patria (il Trentino era a sua volta passato dall’Austria-Ungheria al Regno d’Italia), i coloni si isolarono sempre più per paura di ritorsioni da parte del nuovo governo jugoslavo. Di loro si sono perse le tracce fino alla seconda metà del Novecento.
Il merito della scoperta della comunità di Štivor va a una scrittrice trentina, Sandra Frizzera, a cui, sul finire degli anni ’60, giunse una lettera dagli Stati Uniti, da parte di una discendente di emigrati trentini, che conteneva un appello: si cercavano le tracce di un avo partito nel 1882 per la Bosnia. Le ricerche cominciarono dalla Valsugana, ma furono infruttuose: gran parte degli archivi era andata perduta durante la Prima guerra mondiale ed era impossibile recuperare documenti e dati che aiutassero a ricostruire le vicende della migrazione dalla Valsugana alla Bosnia. Il caso volle che venisse “captata” dalla scrittrice una trasmissione di Radio Capodistria in cui gli studenti di una scuola di Dignano, in visita per un gemellaggio a Štivor, salutassero le famiglie. La Frizzera non si fece scappare l’occasione e subito scrisse una lettera al giovane maestro della scuola di Štivor per chiedere maggiori informazioni riguardo alla comunità di trentini. Dopo una breve corrispondenza, la scrittrice organizzò nell’estate 1972 il suo primo viaggio sulle orme dei migranti verso la Bosnia, appoggiata dall’Associazione Trentini nel Mondo, che negli anni ha sempre contribuito a mantenere vivi i contatti con le comunità di trentini in Bosnia Erzegovina. Non si conosceva la strada per arrivare a Štivor e il viaggio fu non poco avventuroso, ma l’incontro emozionò molto sia la scrittrice e chi la seguiva dal Trentino sia gli štivorani, che finalmente potevano riallacciare i rapporti con una madrepatria distante ma mai davvero dimenticata. L’apice di questo processo di riavvicinamento si raggiunse nel 1982, in occasione del centenario della prima emigrazione in Bosnia Erzegovina, e non solo con il Trentino ma anche con chi nel 1939 si era trasferito nell’Agro Pontino.
Piccola Europa
Il villaggio di Štivor è situato su una collina nella municipalità di Prnjavor, centro noto per essere chiamato Mala Evropa, la “Piccola Europa”: nella zona si trovano infatti ancora oggi persone facenti parte di venti differenti etnie, la maggior parte delle quali ritrova le sue radici nello stesso progetto di colonizzazione che portò i trentini in Bosnia. Già prima della guerra jugoslava del 1991- 1995 il paese di Štivor aveva conosciuto uno svuotamento dovuto all’emigrazione della forza lavoro: solo formalmente gli abitanti raggiungevano le settecento unità. La guerra, pur non avendo colpito il villaggio, che probabilmente non rientrava negli interessi strategici di nessuno (ed è facile immaginare che un attacco a una comunità italiana avrebbe potuto suscitare gravi ripercussioni a livello internazionale), ha portato al pressoché totale svuotamento di Štivor: molti uomini sono partiti alla vigilia della guerra per non dover essere arruolati, le donne e i bambini sono fuggiti non appena il contingente dell’Esercito Italiano ha distribuito loro i passaporti italiani, permessi di soggiorno e di lavoro per poter emigrare al più presto. La maggior parte degli štivorani emigrati ha scelto di tornare nella patria dei propri avi ed ora abita in Trentino; nel solo comune di Borgo Valsugana si contano più di quattrocento persone originarie di Štivor.
Štivor oggi
Una parte residuale della comunità è però rimasta a Štivor. Nel corso degli anni e a causa non solo della guerra, ma anche della povertà della zona, la comunità si è disgregata, e si sta pian piano dimenticando la lingua dei padri, ma resta vivo il sentimento di appartenenza e la voglia di portare avanti tradizioni della vita quotidiana mutuate dagli avi, come recitare la messa in italiano e cucinare la polenta per tutta la famiglia alla domenica. Senza dubbio negli ultimi trent’anni la natura del villaggio è radicalmente cambiata: buona parte degli štivorani si è trasferita, in una migrazione al contrario, in Valsugana o più in generale in Trentino e fa ritorno a Štivor, solo l’estate per le ferie e per far visita ai parenti che hanno deciso di restare. Chi parla italiano l’ha imparato nel corso di esperienze di lavoro in Italia e non in quanto lingua imparata in famiglia. Molto probabilmente nel corso degli anni, per quanto vada riconosciuto l’impegno della municipalità locale per il mantenimento delle minoranze etnico-linguistiche e dell’Associazione Trentini nel Mondo per mantenere vivi i contatti con la terra d’origine degli avi, l’identità e la particolarità della comunità di Štivor andrà mano a mano scomparendo assieme ai più anziani che stanno cedendo il posto alle nuove generazioni.
Caterina Ghobert
Fonte: East Journal – 20/01/2023