Sembra davvero uscita dalla penna di un romanziere la vita spericolata di Camillo Castiglioni (1879-1957), triestino, che fu imprenditore, banchiere e finanziere e uno degli uomini più ricchi e in vista dell’Europa centrale a cavallo tra prima e seconda guerra mondiale e anche dopo. Da Trieste visse a lungo in Austria e Baviera, fu soprannominato l’Hugo Stinnes austriaco, o anche “Lo squalo”, si occupò di aviazione e dirigibili e vestì i panni del mecenate investendo in opere d’arte. Amico di Ferdinand Porsche ed Ernest Hinkel portò al successo la Austro-Daimler e la Bmw, fu proprietario di banche, acciaierie, giornali, aziende elettriche. Di origine ebraica, aderì con convinzione al fascismo ma nonostante fosse super-ammanigliato e in grado di muovere leve a ogni livello non riuscì ad essere “discriminato” (cioè a essere considerato un non-ebreo) dalle leggi antiebraiche.
Protagonista di clamorose cadute e altrettante risalite – fu sospettato fra l’alto di aver riciclato in Svizzera fondi neri di Mussolini e Ciano – arrivò, nel secondo dopoguerra, persino a ingaggiare un epico duello legale con il maresciallo Tito per un debito di 380 milioni (e lo vinse). Insomma un uomo dai mille volti e dalle mille vite, la cui esistenza diventa simbolo della tormentata complessità del Novecento. Ed è seguendo questo filo interpretativo che Gianni Scipione Rossi, giornalista Rai e studioso di storia contemporanea, ha scritto la prima biografia italiana completa di Castiglioni, “Lo ’Squalo’ e le leggi razziali – Vita spericolata di Camillo Castiglioni” appena uscito da Rubettino (pagg. 285, Euro 14,00).
Il volume porta in appendice l’autobiografia che Castiglioni compilò nell’autunno del 1939 per chiedere la discriminazione, una lunga nota biografica in cui elencò le allora sue benemerenze. A cominciare dalle origini triestine: «La mia famiglia – scrisse – fu sempre considerata a Trieste come irredentista e mio padre come benemerito della propaganda nazionale (…)». Scandagliando archivi e ricostruendo testimonianze dirette e indirette Scipione Rossi riesce a ricomporre in un quadro unitario il complicato puzzle che fu la vita di Castgilioni, figura a Trieste oggi quasi del tutto dimenticata.
Eppure soprattutto a Trieste molti ebrei aderirono al fascismo prima delle leggi razziali. Le motivazioni furono molte, a cominciare dall’adesione all’irredentismo/nazionalismo. Nel caso di Castiglioni vi furono ragioni più “trasversali”?
«Se la domanda sottintende un’adesione per interesse economico – risponde Gianni Scipione Rossi – , direi di no. La cosa a cui più teneva è essere riconosciuto come una pedina importante nell’ambiente politico e diplomatico. In questo senso non lo si può considerare un fascista in senso stretto. È un nazionalista che diventa fascista per le circostanze storiche. Così, dopo il 1945, non esiterà a collaborare con i governi democratici. D’altra parte Castiglioni è pienamente figlio della sua epoca e del contesto triestino. L’irredentismo appartiene alla tradizione di famiglia, dal padre rav Vittorio al fratello Arturo, il grande storico della medicina. Il caso di Camillo è poi peculiare. Il sentimento di base è pienamente irredentista, ma da giovanissimo è abituato a vivere senza confini, muovendosi con disinvoltura nel mondo austroungarico, tedesco e balcanico. Costruire aziende, farle crescere e trarne profitto è il suo personale carisma di imprenditore e finanziere. Per raggiungere i suoi obiettivi è di disposto a collaborare con chiunque. La trattativa è nel suo dna. Parallelamente – ed è l’altra faccia di Castiglioni – ha il pallino della diplomazia parallela. Aiuta il governo Giolitti e poi, con lo stesso spirito – non ideologico – il governo Mussolini. Per lui sono i governi della “sua” Italia. Se poi ne deriva la possibilità di fare anche affari è meglio, ma lo farebbe e lo fa anche solo per un misto di patriottismo e ambizione, per narcisismo si potrebbe dire».
Castiglioni conosceva bene l’Austria, e tentò di gettare ponti con l’Italia dopo la Grande guerra. Se in Italia è ricordato come lo Squalo, quale memoria ha lasciato a Vienna?
«Solo in anni recenti la sua figura di imprenditore è stata parzialmente rivalutata, in particolare grazie a una biografia di Reinhald Schülter, che tuttavia non tiene conto delle fonti italiane. Per decenni è stato ricordato solo come il prototipo dello speculatore che si arricchiva grazie alla catastrofe dell’Impero. È una narrazione deformata. La speculazione sulla perdita di valore delle valute europee lo premierà ma gli farà anche rischiare il fallimento. Il Castiglioni imprenditore nasce prima della Grande guerra, quando giovanissimo intuisce la potenzialità dei dirigibili, degli aerei, dell’automobile, quando porta al successo la Austro Daimler, come dopo farà con la Bmw. È falso che fece fallire la Depositenbank. È vero che si rifiutò di partecipare alla fondazione della nuova banca nazionale e che rastrellò aziende sull’orlo del baratro. Ma nella Vienna disperata del dopoguerra un italiano ebreo ricchissimo non poteva forse che essere scelto come il prototipo del profittatore, sia dalle classi popolari sia dalla nobiltà e dall’alta borghesia in rovina. Come all’inizio della sua scalata all’economia mitteleuropea torna in fondo a essere considerato un parvenu. Anche in Italia entrò nel mirino della polemica antisemita, che nel 1920-22 si scatenò – eterodiretta dai proprietari dell’Ansaldo – contro la Comit di Toeplitz e il suo alleato Castiglioni».
E a Trieste quale memoria ha lasciato? Chi si ricorda ancora di lui?
«Può sembrare strano, ma a me risulta esistere solo qualche brandello di carteggio, già citato in lavori settoriali, e sempre incidentalmente. Su Castiglioni sembra essere calata una sorta di damnatio memoriae, anche nella città che era e considerava come la sua vera patria. Forse perché non è mai tornato a viverci e le sue erano visite saltuarie. La famiglia si era dispersa, nonostante il padre Vittorio si fosse fatto seppellire con la madre di Camillo nel cimitero ebraico triestino. Da rabbino capo di Roma sarebbe stato onorato nella capitale, ma le radici triestine erano fortissime».
Era più attratto dalla politica o dal denaro? O forse vedeva un nesso inscindibile fra le due?
«Era attratto dal fare, dall’inventare, dal costruire, dalla sfida in sé. Che sono caratteristiche proprie di entrambe le personalità, dell’imprenditore e del politico. Ha ragione Attilio Tamaro quando scrive nel suo diario: “Lo affascina non il denaro, ma l’affare: il denaro lo vuole per poter spendere con lusso e perché spera di trarne potenza”. Camillo Castiglioni non era un banale accumulatore. Del denaro si serviva per tentare sempre nuove imprese, anche nei momenti di difficoltà».
Può essere considerata una figura attuale quella di Castiglioni, oppure il suo poliformismo, questo gettare ponti tra fronti opposti che poi regolarmente crollavano, appartiene solo alla sua epoca?
«No, non credo appartenga solo alla sua epoca. Sono figure umane – molto rare e straordinarie – che riemergono come le acque di un fiume carsico, ciclicamente. Si pensi, oggi, ai creatori della new economy. Castiglioni ebbe la capacità di capire e cogliere tutte le eccezionali opportunità che offriva un mondo in rapidissima evoluzione tecnologica. Per denigrarlo, il drammaturgo Karl Kraus disse che Castiglioni “ruggiva come una locomotiva fischiante”. Forse a Castiglioni non sarà piaciuta, ma la definizione è calzante. Il giovane figlio di Trieste era proprio così, una locomotiva fischiante che avanza senza fermarsi mai».
Intervista di Pietro Spirito a Gianni Scipione Rossi
Fonte: Il Piccolo – 14/07/2017