Scritto da Kristjan Knez
Il telegramma inviato ai Cinque Grandi
Gli italiani dell’Istria assurdamente avulsi dalla loro Madrepatria, chiedono il riconoscimento dei sacrosanti diritti su quanto da secoli per etnografi a, storia e civiltà è italiano e solo una follia liberticida potrebbe misconoscere. Si appellano al senso di giustizia delle grandi Nazioni perché siano adottate immediate misure di sicurezza necessarie al nostro popolo onde possa liberamente esprimersi e perché migliaia di esuli antifascisti possano ritornare ai loro paesi natali. («Grido dell’Istria», a. I, n. 9, 2 ottobre 1945, p. 1)
Il secondo dopoguerra giuliano, con le sue luci ed ombre, offre molteplici visuali attraverso le quali osservare le intricate vicende succedutesi in un territorio conteso, e per alcuni anni addirittura area di frizione tra due blocchi contrapposti. Da oltre un sessantennio gli storici e gli studiosi del cosiddetto nodo di Trieste lavorano con l’intento di analizzare e di spiegare quanto avvenne lungo le terre dell’Adriatico settentrionale tra la fine delle ostilità e la metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Di conseguenza al giorno d’oggi annoveriamo una bibliografi a notevole in varie lingue. Dapprima l’attenzione era rivolta per lo più alla dimensione militare, politica e diplomatica, gli sforzi erano concentrati a ricostruire le varie fasi della vicenda e degli accordi internazionali. Altri problemi come, ad esempio, la vita quotidiana, i vari sistemi di amministrazione della Venezia Giulia tra il 1945 e il 1954, la realtà economica o culturale, furono in qualche modo accantonati e non approfonditi. Solo negli ultimi anni gli storici hanno iniziato ad interessarsi a siffatte pagine del passato recente, facilitati in primo luogo dalla disponibilità delle fonti di prima mano. Tra gli argomenti che, indubbiamente, non sono ancora esauriti – anzi le ricerche sono ai loro albori – dobbiamo rammentare quelli relativi alla società, alle trasformazioni avvenute in essa e alle imposizioni che ne determinarono un drastico mutamento, oppure le conseguenze provocate dall’esodo della popolazione autoctona che, oltre a provocare la quasi scomparsa della componente italiana, determinò anche il tramonto di non poche attività tradizionali. Gli studiosi sono ormai concordi che per comprendere la dinamica di siffatte trasformazioni e l’esodo stesso sia fondamentale analizzare i rapporti tra la popolazione e le nuove autorità e non meno importante è la comprensione della politica della cosiddetta “fratellanza italo-slava”.
Le sorti degli Italiani
Tra i capitoli che per molti aspetti sono ancora avvolti nel silenzio, e nella storiografi a non hanno ancora trovato la loro giusta collocazione, dobbiamo rammentare le sorti della popolazione italiana all’indomani della guerra. È cosa nota che su quella comunità si abbatté il revanscismo di un popolo vincitore che volle saldare il conto per le precedenti nefandezze, ma non solo, poiché i numerosi provvedimenti adottati erano tesi all’espulsione di quelle collettività autoctone. Furono proprio queste ultime – popolazione di una regione di confine e per giunta contesa ed aspirata dallo Stato vicino fin dal termine della Grande Guerra – a pagare più di tutti per la politica sbagliata del regime fascista e per la guerra da esso scatenata contro la Jugoslavia. Gli avvenimenti di minore o di maggiore portata si erano abbattuti su quelle comunità sconquassandole, determinando una frattura tuttora percettibile, infatti, è sufficiente passeggiare lungo le cittadine della penisola per cogliere la portata del cambiamento radicale sia in termini di struttura etnica e sociale sia in quelli relativi alla lingua parlata e alla cultura espressa.
Proprio perché quegli eventi avevano provocato un trauma, mentre l’abbandono della terra natia rappresentò una cesura a tutti gli effetti, fu alquanto difficile affrontare serenamente e con la dovuta obiettività tali tristi e drammatici frangenti del passato a noi più vicino. Non si poteva pretendere un netto distacco da coloro che furono coinvolti direttamente, in quanto l’emotività, per ovvie ragioni, dominava la razionalità; gli studiosi del Bel Paese, invece, nel silenzio generale verso i problemi del confine orientale obliterarono tutto e tutti e questioni di quella portata sembravano prive di dignità scientifica. Solo oggi, dopo mezzo secolo, una nuova stagione sembra essere sbocciata e anche la storiografi a italiana d’oltre Isonzo ha iniziato ad intavolare un discorso sulla Venezia Giulia e sull’Adriatico orientale in generale. Anche la storiografi a della Jugoslavia socialista mai s’occupò della posizione in cui vennero a trovarsi gli Italiani, e al contempo il silenzio regnava anche sui Tedeschi, pesantemente colpiti a guerra finita, espulsi in massa, mentre i loro territori d’insediamento storico venivano colonizzati. Solo dopo l’indipendenza della Slovenia gli storici hanno iniziato a lavorare in quella direzione con risultati di tutto rispetto. Mancano, invece, analisi slovene di ampia respiro su quanto accadde nel Capodistriano; per il momento esistono comunque lavori concernenti l’esodo e lo svuotamento delle cittadine costiere.
La presa del potere
L’avanzata jugoslava nella Venezia Giulia (primavera 1945), coronata con la vittoria sulle forze nazifasciste, fu accompagnata dall’insediamento dei Comitati Popolari di Liberazione. Fu raggiunta anche Trieste, città simbolo e obiettivo dell’irredentismo sloveno, che già ai primi di maggio fu annessa al cosiddetto Litorale sloveno. Al contempo iniziava la presa del potere mediante metodi prettamente rivoluzionari e con una linea marcatamente nazionale, il cui fine ultimo era il cambio di sovranità. Tali operazioni erano condotte con l’uso della violenza che si traducevano in arresti, interrogatori, deportazioni e uccisioni sommarie. Gli elementi italiani, anche antifascisti, erano visti con sospetto e, data la contrarietà circa l’annessione delle terre giuliane alla nuova Jugoslavia, divennero i principali bersagli da eliminare: furono liquidati gli esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale di Gorizia, gli autonomisti di Fiume, furono vessati coloro che si erano opposti al fascismo e avevano aderito alla Resistenza. Per influenzare l’opinione pubblica internazionale sulla presunta volontà popolare di far parte dello stato jugoslavo, venivano orchestrate le manifestazioni di piazza e al contempo si precludeva la possibilità di esprimere le posizioni diverse. Con gli accordi di Belgrado, del giugno del 1945, gli Jugoslavi abbandonarono la città di San Giusto e si ritirarono da Pola. Nel resto della penisola, però, la situazione non mutò minimamente. Gli Italiani furono imbavagliati e ogni iniziativa politica non in linea con quella filo jugoslava fu preclusa.
Con l’occupazione del capoluogo giuliano, annota Diego de Castro, «[ … ] nasce una particolare fauna locale e vengono alla luce caratteri personali: le non poche spie dei fascisti diventarono spie degli slavi; alcuni meridionali italiani divennero subito filoslavi e guardarono con distacco gli italiani locali; gli ex collaborazionisti diventarono nuovi collaborazionisti; e di questi casi ne ho visti io stesso parecchi» (D. de Castro, Onorare tutti i morti, in Il lapidario ai deportati del maggio ’45, ristampa dell’edizione del 1986, Gorizia 2001, p. 14). Cose analoghe si verificarono anche in Istria, ove al termine del conflitto schiere di opportunisti abbandonarono le vecchie divise per quelle dei vincitori, mentre coloro che credevano nell’ideale comunista abbracciarono la causa jugoslava, anche se le due posizioni sovente erano antitetiche specie sul versante del nuovo confine, e all’indomani della rottura tra Tito e Stalin il divario divenne via via più evidente e determinò l’isolamento dei comunisti italiani, i quali in buona parte abbandonarono le terre d’origine. Quegli Italiani che accolsero il nuovo ordinamento favorendolo e sostenendolo furono – taluni elementi – gli artefici di vessazioni, intimidazioni oppure delazioni, quindi erano dei preziosi elementi al servizio delle nuove autorità. Nella complessa realtà del secondo dopoguerra, non dimentichiamolo, si arrivò anche ad una resa di conti intrinseca alla comunità, che risaliva agli attriti dell’immediato primo dopoguerra tra squadristi e socialisti, quest’ultimi poi messi a tacere dal fascismo una volta giunto al potere; alle angherie delle camicie nere nei confronti degli antifascisti e/o dei Croati e degli Sloveni o alle più recenti forme di collaborazionismo con i nazistifascisti.
Liberazione-occupazione
Trieste e l’Istria rientravano nel novero delle aspirazioni territoriali jugoslave e perciò rivendicate nel corso del conflitto. L’arrivo delle formazioni militari dell’esercito di Tito fu una “liberazione-occupazione”, e appena ottenuto il controllo di un centro scattavano gli interrogatori, gli incarceramenti e nel peggiore dei casi l’eliminazione (con l’infoibamento o con altri metodi) dei “nemici” o presunti tali, che nella stragrande maggioranza dei casi non erano gli ex avversari, con responsabilità dirette, bensì si trattava di rappresentanti dello stato italiano e di conseguenza andavano eliminati. Parallelamente la polizia segreta, munita di liste – compilate per lo più da elementi locali – prelevava gli oppositori, anche solo potenziali, al piano politico di annettere le terre dell’Adriatico settentrionale alla Jugoslavia. Mettendo in atto la logica leninista-stalinista, volta all’eliminazione degli avversari, si desiderava liberare il campo in previsione del trattato di pace, estirpando di conseguenza ogni possibile intralcio o forma di resistenza. In questo modo si dette avvio ad una pulizia non tanto etnica quanto politico-economica e al contempo sociale in quanto la borghesia e l’intellighenzia italiane erano contrarie ai progetti jugoslavi. Le ricerche più recenti nonché le scoperte di fosse comuni indicano che la presa del potere da parte del regime comunista, e la rivoluzione messa in atto, con la soppressione dei rivali, non seguiva alcuna logica di carattere nazionale.
Esodo e rimozione
Un discorso inverso va invece fatto per quanto concerne l’esodo, i cui motivi che costrinse centinaia di migliaia di Italiani ad abbandonare le terre natie, oltre ai meccanismi messi in atto dal sistema comunista, devono essere ricercati nel vigoroso nazionalismo – che si sarebbe manifestato a prescindere dal colore politico al potere – deciso a “ripulire” il territorio dai segni dell’italianità, non solo quella espressa dal Regno d’Italia, bensì anche delle tracce antecedenti e risalenti all’età veneziana oppure testimonianza tangibile del carattere autoctono di una parte non irrilevante della popolazione di quelle latitudini. Si tratta di una dimensione che per molti aspetti era architettata a tavolino – sebbene non esistano decreti d’espulsione –, anche con il sostegno degli intellettuali: si stravolse l’immagine storica e culturale delle terre di nuova acquisizione, il martello ed il piccone abbatterono monumenti, targhe, epigrafi in quanto non erano confacenti a certi dettami o meglio perché esprimevano un passato diametralmente opposto a quello mistificato e in vari modi propinato. Si procedette poi alla rimozione degli odonimi e la toponomastica fu cancellata, si chiusero d’ufficio le scuole, si slavizzarono i nomi, chi si opponeva veniva incarcerato o messo nelle condizioni di non nuocere.
Appiattimento di una presenza
«Se gli italiani in Istria tentavano di liberarsi, anche minimamente, dal pesante giogo jugoslavo, ogni loro mossa finiva con arresti da parte della polizia politica», rammenta Diego de Castro nei suoi ricordi (Memorie di un novantenne. Trieste e l’Istria, Trieste 1999, p. 95). Era la politica di appiattimento della presenza italiana, continuata anche dopo i trattati internazionali – del 1947 e del 1954 – che assegnarono buona parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia, attuata anche grazie ad alcuni Italiani, in parte autoctoni in parti giunti dal Bel Paese, inquadrati nelle strutture del partito comunista, che per seguire il loro credo ideologico agirono – sovente con risultati deleteri – contro i loro stessi connazionali.
Per una lettura degli anni plumbei della nostra penisola nell’immediato secondo dopoguerra, segnaliamo la ristampa anastatica del «Grido dell’Istria», Organo del Comitato Istriano e successivamente Foglio della resistenza istriana, promossa lo scorso anno dall’Unione degli Istriani di Trieste, storica associazione che raccoglie buona parte degli esuli istriani.
Fonte: «La Voce in più Storia Ricerca», 05/12/09.