«Quello del 10 febbraio 1947 non fu un Trattato di pace, perché non ci furono margini di
trattativa, in quanto l’Italia aveva subito una debellatio che l’aveva annichilita già in
occasione del cosiddetto “armistizio lungo” del 28 settembre 1943. Le perdite al confine
orientale rappresentarono una delle tante lesioni della sovranità nazionale che la neonata
Repubblica dovette accettare»: chiaro, netto e preciso come nello stile degli editoriali che
ne hanno fatto una delle firme più autorevoli ed apprezzate del Corriere della Sera, il
professor Ernesto Galli della Loggia ha inaugurato con una lectio magistralis domenica 29
ottobre il ciclo di appuntamenti culturali dell’edizione 2017 della Bancarella. Salone del
libro dell’Adriatico orientale, dedicata ai 70 anni dal Trattato di Pace.
Introdotto dal professor Davide Rossi, docente dell’ateneo triestino e dirigente
dell’associazionismo giuliano-dalmata, Galli della Loggia, che da bambino visse al seguito
del padre ufficiale medico ad Abbazia le caotiche giornate successive all’8 settembre, ha
contestualizzato per il folto pubblico intervenuto al Ridotto del Teatro Verdi di Trieste le
condizioni in cui la diplomazia italiana dovette arduamente cimentarsi nel secondo
dopoguerra. Alcide De Gasperi, a fronte delle pesanti imposizioni che andavano
delineandosi sul confine orientale, cercò invano di opporre resistenza nei confronti della
cessione di Pola, considerata un’importante base navale, e si adoperò per far capire che
Trieste, ancor più di Trento, rappresentava per la nazione il simbolo della Prima guerra
mondiale più coinvolgente sul piano emotivo, vuoi per il ruolo svolto nella società italiana
dall’irredentismo giuliano-dalmata, vuoi per il mito di Guglielmo Oberdan. Gli esuli istriani,
fiumani e dalmati dovettero pagare i conti aperti dal fascismo con la Jugoslavia, ma d’altro
canto già la costituzione della Zona di Operazioni Litorale Adriatico aveva intaccato la
sovranità italiana in queste terre ed il movimento di resistenza partigiana non aveva
instaurato rapporti facili con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.
Secondo il professore emerito di Storia contemporanea, il movimento antifascista visse su
un’ambiguità di fondo, poiché, concentrando i suoi sforzi contro il regime mussoliniano,
non si rese conto che l’Italia in quanto Stato aveva perso il conflitto e agli Alleati poco
interessava degli esiti della guerra civile. Fu quindi sincero lo stupore allorché l’opinione
pubblica si rese conto che il paese veniva considerato alla stregua dei perdenti e non ci si
capacitava che la mobilitazione di massa contro la Repubblica Sociale Italiana non fosse
stata tenuta in debita considerazione. Non ci si rendeva conto che la Resistenza non ebbe
carattere nazionale, sia perché dipendeva finanziariamente e militarmente dagli Alleati, i
quali avevano inoltre imposto ai capi partigiani la cessione del controllo delle località che
venivano liberate, sia perché proprio al confine orientale si realizzò una profonda
spaccatura tra partigiani comunisti e non comunisti. In quest’ambito la lontananza dal
CLNAI di Milano e la vicinanza del IX Korpus titino fecero sì che l’appartenenza ideologica
rivestisse un’importanza maggiore di quella nazionale: emblematici risultarono l’eccidio di
Porzûs ed il proclama con cui Togliatti invitava ad accogliere come un liberatore l’esercito
di Tito, le cui mire espansionistiche erano evidenti.
Nonostante la commozione diffusa, i cortei e le manifestazioni che quel 10 febbraio
caratterizzarono le ore a ridosso della firma del Trattato di pace, l’Italia diventò «una
democrazia senza nazione», la cui Assemblea costituente, nella quale non sedevano
rappresentanti eletti nelle province di Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Zara, avrebbe
ratificato con poche eccezioni il gravoso diktat. Quest’ultimo entrò in vigore il 15
settembre, venendo subito messo in discussione da Tito, che cercò in due occasioni di
impadronirsi del Territorio Libero di Trieste. La presenza degli Alleati in armi sul suolo
italiano indusse a più miti consigli il dittatore comunista, laddove, ha concluso Galli della
Loggia, la sanzione definitiva della mancanza di carattere nazionale e patriottico nelle
istituzioni italiane sarebbe giunta con la firma del Trattato di Osimo del 1975.
Lorenzo Salimbeni