Scritto da Chiara Mattioni
«Trieste m’assomiglia, per gli entusiasmi, le nevrosi, la debolezza assurda per Roma, per quel vento maledetto che ti congela e ti squassa i nervi quando meno te l’aspetti…». Non deve essere un uomo comodo né accomodante lo scrittore Gianfranco Franchi, di sangue triestino, istriano e austriaco ma romano d’adozione, e comoda non è la lettura del suo ultimo romanzo, Monteverde (Castelvecchi, pagg. 310, euro 16,00), dedicato «agli esuli istriani, fiumani e dalmati e ai loro discendenti, alla loro dignità e al loro orgoglio», perché, ma lo capiamo solo alla fine del libro, tra gli esuli saliti su un treno dopo la guerra, rigettati da molte città italiane e accolti infine dalla capitale, c’erano i suoi nonni. E Monteverde è il quartiere romano, tappa finale di questo viaggio di Ulisse, dove vive il protagonista Guido Orsini/alter ego dell’autore già apparso nei due romanzi precedenti, Disorder e Pagano, e che fa da sfondo puramente accidentale a un magma di riflessioni sulla vita, incursioni nella memoria, annotazioni di ordine sociale e politico. Non si tratta però di un romanzo sulle etnie diverse e le loro vicissitudini, se non come debito atavico che confluisce in una personalità complessa – «ho interiorizzato la frontiera» scrive l’autore.
Partendo da spunti autobiografici, Franchi compone, tassello dopo tassello, attorno a dei temi e senza sviluppare una vera e propria trama, il ritratto di una generazione in crisi, quella nata tra gli anni settanta e gli anni ottanta, l’ultima cresciuta a sogni e creatività, e che poi si è trovata schiacciata da un sistema economico sociale fallimentare, da uno Stato cannibalico e poco meritocratico che uccide l’originalità in nome del business. Ci costringe a riflettere, e possibilmente a ribellarci alla dead line a cui sembra giunto il mondo. Un fiume in piena che l’autore, si intuisce, ha cercato di imbrigliare senza per altro riuscirci del tutto, perché Franchi è scrittore debordante, visionario, irrefrenabile nel suo continuo interrogarsi sulla materia della vita. Se dovessimo paragonarlo a un quadro, il libro potrebbe essere una tela di Mondrian, con colori accesi (quelli dell’entusiasmo e della ribellione) trattenuti però da una struttura che può essere letta come i paletti che sempre più ci vengono imposti dall’esterno ma anche come la formazione dell’autore, tutto sommato fondata su valori classici e tradizionali. Non un anarchico iconoclasta e libertino, ma un ribelle che si aggrappa alla poesia per fare la rivoluzione, a tratti nostalgico sì, ma non di un’epoca quanto di un mondo in cui era ancora possibile sognare una libertà vera o presunta.
È per certi versi sorprendente leggere nella biografia di Franchi la sua data di nascita, il 1978. Se fosse un piatto, questo libro sarebbe un cibo forte e speziato, perché le pagine sono intense e sostanziose. Se fosse una musica, sarebbe una ballata tormentata e nevrotica dei Nirvana o una canzone dei Radiohead, «band rock di letterati» di cui l’autore è un cultore della prima ora e a cui ha dedicato un precedente libro. Magari l’ossessiva “Everything in its right place”. Sì, perché se Franchi con la sua indubbia intelligenza, la sua ironia, la sua capacità che rivela il suo essere un lettore onnivoro di lunga data (è fondatore, tra l’altro, di Lankelot.eu, sito di critica letteraria in cui propone ai naviganti in rete delle vere e proprie perle, cioè opere da scoprire di scrittori poco conosciuti), ma anche una certa dose di follia creativa, pecca di qualcosa, è, qua e là, di una certa malcelata aspirazione a «rimettere le cose a posto», insomma di essere al posto di dio, nonostante la pur sempre presente consapevolezza della fragilità umana – «Sono una foglia che pesa ottanta chili. Sono una tela d’acqua su una cornice di carta. Sono una sigaretta che non si spegne, fuma soltanto» scrive, ma anche «Sono un giocattolo giocato da mani sempre nuove, e tutto è un mio giocattolo. Forse anche la morte».
Cinque interludi e sei sezioni – Casa, Lavoro, Donne, Musica, la Roma, Patrie lettere – compongono il libro, in cui si spazia dalla rievocazione degli oggetti cult dell’epoca (le musicassette, i primi cellulari, il Commodore 600, l’accendino d’argento Dupont) ai ricordi di famiglia, alle critiche pungenti al sistema quando, neolaureato in cerca di lavoro, si scontra con gli effetti della legge Biagi cioè con «l’opportunità di essere legalmente schiavizzato gratis et amore e cum laude», e via via passando attraverso i rapporti con le donne, il tifo per la Roma e l’ascolto di un certo tipo di musica, espressione di grandi ideali e di un’epoca in cui «tutto era più difficile, poco accessibile, molto bello», fino alla dichiarazione d’amore per la Letteratura che è «incanto, magia, sogno, assurdo e meraviglia in tutte le cose». Un libro pieno, che punge e diverte, da cui non ci si stacca. Una scrittura che mano mano si svela, congiungendo ricerca formale, rischio poetico, rugosità e spessore tematico, violenza ed espressività. Una scrittura che è uno strumento musicale della coscienza di Franchi. Tutto si scompone ma nulla si sgretola, tratteggiando alla fine un volto che non è un’identità ma l’emblema e il sigillo dell’amara provvisorietà dell’esistenza umana.
Fonte: «Il Piccolo», 17/08/09.