Note sul racconto di Sergio Sozi «Ginnastica d’epoca fredda»

Scritto da Subhaga Gaetano Failla
Ho già letto numerosi racconti di Sergio Sozi. La sua scrittura è sempre caratterizzata da una forte tensione etica ed esalta una ricerca linguistica che rinnova con grande eleganza la tradizione classica della letteratura italiana. Le pagine di Sozi sono spesso finemente venate da sfumature di realismo magico evocatrici d’un suo grande amore di carta: Massimo Bontempelli. Una ironia malinconica, che raramente diviene sarcasmo, e l’abile impasto linguistico forgiato nella scuola gaddiana rendono la scrittura di Sozi di grande interesse – del tutto lontana da certe mode iperrealistiche, minimalistiche, o addirittura di inconsapevole sciatteria. Mi sono accostato al racconto Ginnastica d’epoca fredda (un titolo molto bello, elegantissimo) pregustando dunque un nuovo piacere letterario. E così è stato.
In questo racconto Sozi ci accompagna sulle tracce d’un fuggitivo, Poliorcete Visentini (il nome, ci ricorda l’autore nella sua Nota, significa in greco antico “assaltatore di città”). Troviamo, nelle prime righe, Poliorcete nascosto nei pressi d’un cimitero, avvolto in un plaid, «fra un cipresso storpio ed un muretto a secco». Siamo nel 1952, nei territori dei confini oscillanti della penisola istriana. Il protagonista è stato spinto a quella fuga da un gioco crudele, in cerca d’una sua terra, d’una sua identità non perseguitata. «Se ce l’avesse fatta, avrebbe potuto scegliere se restare in Italia o tornare in Croazia… in entrambi i casi il Partito avrebbe dato un definitivo colpo di spugna al suo passato di partigiano-mosca bianca antititino, nonché figlio di proprietari di nazionalità italiana.»
Ginnastica d’epoca fredda affronta i nodi storici delle vicende iugoslave, del regime fascista italiano e di quello comunista di Tito, e del prolungato dopoguerra relativo ai confini della multietnica penisola d’Istria. Soltanto recentemente la storiografia ufficiale ha cercato di portare un po’ di luce in quelle ampie zone di penombra o del tutto oscure. Scrive ancora Sozi nella sua Nota: «Cattolici, repubblicani mazziniani, socialdemocratici e liberali, monarchici antifascisti, sia slavi che italiani, finirono nelle foibe, lo si sa. Tutti insieme scomodi.» Tuttavia la riflessione di Ginnastica d’epoca fredda non si limita a quel territorio e a quegli anni, ma, attraverso l’esemplarità delle vicende storiche, vuol giungere fino a noi, fino ai nostri giorni, con le parole d’un personaggio minore del racconto, un militare: «Noi stiamo trasformando i popoli in masse. Accumuli. Anonimità facenti strato e spessore, ma producenti risonanza e dotati di un potere che nemmeno loro meriterebbero. E voi siete un anelletto di questo processo chimico.»
Anche in questo racconto ho potuto assaporare il gusto prelibato d’una narrazione alta, che sembra scaturire da un racconto orale, similmente alla scrittura d’uno dei maestri di Sozi: Giovanni Boccaccio. E la fuga del protagonista, prima del disvelamento finale, evoca, nella sua struttura narrativa classica, il Tönle di Rigoni Stern, nelle vesti questa volta d’un ex partigiano di provenienza borghese. Ma c’è una ulteriore lettura del racconto, che mi sta particolarmente a cuore, strumento di individuazione d’un’altra universalità di significato. In Ginnastica d’epoca fredda si parla di assurdi esuli, un’assurdità sancita dalle assurdità cosiddette storiche: un italiano si deve spostare dall’Italia, un po’ più in là, per potersi ancora definire italiano. Deve cioè inseguire le fluttuazioni d’un invisibile confine – visibile solo nelle menti confinate di qualcuno dei potenti di turno. L’uomo, l’esule, in tal modo porta con sé l’ombra d’un confine, d’un margine. Diviene un uomo marginale.
La storia italiana del Novecento ha generato milioni di uomini marginali. La psicologia sociale ha studiato questo fenomeno attraverso numerose indagini, generalmente nell’ambito dei flussi migratori. Colui che nasceva da genitori italiani emigrati all’estero si sentiva definito dal paese ospitante come italiano, sebbene il bambino, per evitare una profonda ferita identitaria e favorire l’integrazione, avrebbe voluto prevalentemente definirsi, a seconda della nazione ospitante, tedesco, francese, belga, svizzero, inglese, brasiliano, statunitense, argentino, ecc. ecc. Ma ciò non gli era permesso dallo stigma che gli si imprimeva come un marchio sulla fronte. L’individuo rimaneva in tal modo confuso tra due confini oscillanti dell’identità: quella soggettiva che lo spingeva verso la nazione di nascita e di vita, quella oggettiva, sociale, culturale e famigliare, che lo spingeva verso una radiceche era solo parzialmente sua. E quando la famiglia decideva di rientrare in Italia, il fenomeno grottescamente si capovolgeva: l’individuo nato all’estero, in cerca d’una nuova integrazione, veniva definito dagli italiani come altro: tedesco, francese, argentino…
Dovremmo riflettere con urgenza anche su tali aspetti – proprio adesso che i migranti non sono più gli italiani – in un periodo storico di abbrutimento leghista (e non solo). Concludo con le parole del protagonista di Ginnastica d’epoca fredda: «Spiegatemi» insiste il fuggitivo «che accidentaccio state facendo tutti quanti sulla mia pelle (…)».
Fonte: ‹wordpress.com›, 09/07/09.