Mutamenti territoriali e giurisdizione penale dello Stato

venerdì 13 marzo 2009

Articolo in corso di pubblicazione nel volume di Studi in onore del Prof. Pisani a cura di P. Corso
MUTAMENTI TERRITORIALI E GIURISDIZIONE PENALE
DELLO STATO
(nella dottrina e nella giurisprudenza italiana)
Augusto Sinagra*

sommario: 1. Introduzione. – 2. L’Ordinanza del Tribunale di Roma in sede di riesame, del 2.7.1996 e le principali sentenze della Corte di Cassazione. L’art. 6 c.p. e l’ipotesi di delitto realizzatosi parte in territorio ceduto e parte in territorio rimasto alla sovranità dello Stato cedente.- 3. Principio di territorialità della legge penale ed evoluzione del diritto internazionale e del diritto penale interno. – 4. Giurisdizione penale e realizzazione in concreto della pretesa punitiva dello Stato. – 5. La giurisprudenza della Corte di Cassazione che ritiene precluso l’esercizio della giurisdizione penale in conseguenza della cessione territoriale del locus commissi delicti ad altra sovranità statale, ancorchè con riguardo a delitti commessi anteriormente alla cessione di sovranità. – 6. L’errore interpretativo di fondo dell’art. 6 c.p. – 7. Ancora sul legittimo esercizio della giurisdizione e l’esecuzione del giudicato penale. – 8. Il pensiero di Quadri. – 9. La posizione della Avvocatura Generale dello Stato e l’esatta interpretazione dei precedenti della giurisprudenza di legittimità. – 10. Il problema dal punto di vista del diritto intertemporale. L’art. 6 c.p. in quanto “entità razionale”. Critica. – 11. La incondizionata perseguibilità dei delitti contro l’umanità. – 12. Conclusioni.
1. Il problema della esercitabilità della giurisdizione penale dello Stato in rapporto a mutamenti territoriali è stato oggetto di specifica attenzione e di studio in Italia negli anni immediatamente successivi alla feroce occupazione da parte delle bande slavo-comuniste dei territori delle Province italiane di Pola, di Fiume e di Zara (oltre che di altri territori dell’altra Istria, della Provincia di Gorizia e delle isole e della costa dalmatica pure sottoposti alla sovranità italiana) a far data dall’ultimo periodo della guerra fino al 3 maggio 1945 (ma anche ben oltre) con la occupazione della Città di Fiume da parte delle dette sanguinarie bande slavo-comuniste.
Maggiore studio e attenzione sono stati rivolti, ovviamente, a tale problema da parte della giurisprudenza e della dottrina dopo la firma del cosiddetto trattato di pace del 10 febbraio 1947 (che non fu, come si sa, un trattato bensì un diktat violento, e che comunque non portò la pace e ne’ può dirsi essa oggi esistente), e dunque dal 16 settembre del 1947, data della sua entrata in efficacia.
Il problema consiste, in breve, nella esercitabilità della giurisdizione penale dello Stato (italiano, per quel che ora interessa) per la perseguibilità di delitti commessi su territori già sottoposti alla sovranità italiana e poi ceduti ad altra sovranità statuale (e cioè alla Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia) dopo, come detto, il periodo di feroce occupazione slavo-comunista che in nessun modo, e per evidenti ragioni, consentiva l’esercizio della giurisdizione (men che mai penale) italiana nei territori occupati; nè la giurisdizione fu esercitata dall’occupante in applicazione dell’allora vigente legge nazionale italiana, come disciplinato dal diritto internazionale [1].

Ciò non avvenne, si ripete, per evidenti ragioni consistenti nel fatto che quella giurisdizione avrebbe dovuto esercitarsi, pur doverosamente, nei confronti proprio di quegli slavo-comunisti responsabili di eccidi efferati, numericamente incalcolabili e preordinati in esecuzione di un chiaro disegno genocidiale in danno della popolazione italiana di quelle Regioni prima occupate e poi cedute alla sovranità statale jugoslava.
Il lungo decorso del tempo dagli anni immediatamente successivi alla cessazione delle ostilità e alla entrata in efficacia del cosiddetto trattato di pace, ha naturalmente rarefatto i casi coinvolgenti il problema di cui ora si discute. E ciò per le più differenti ragioni: la morte dei responsabili, il disinteresse o la morte dei parenti delle vittime, l’intervento di differenti provvedimenti di clemenza adottati in Italia a cominciare dal 1944, e a beneficio di quei cittadini o stranieri, che venivano mandati esenti dalle conseguenze penali delle loro azioni in quanto ritenute connesse alla finalità della cosiddetta “liberazione”[2].

A ciò deve aggiungersi, ed è appena il caso di dirlo, quante volte e in quali numerose occasioni tali provvedimenti di clemenza furono inappropriatamente applicati per l’effetto di una interpretazione anche consapevolmente abnorme perchè assolutamente ingiustificata, della politicità del delitto, che costituiva il criterio conduttore dei detti, numerosi provvedimenti di clemenza succedutisi nel tempo.
Il problema si è riproposto di recente dinanzi alla Corte d’Assise, alla Corte di Assise di Appello di Roma, e dinanzi alla Corte di Cassazione, in occasione del processo promosso a carico di tre individui accusati di diversi fatti omicidiari in danno di cittadini italiani presenti in quelle Regioni.
Tale vicenda processuale si è conclusa con la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. I pen., del 20.3.2004, n. 175/04, confermativa del preteso principio di diritto formulato dalla prima Corte di Assise di Appello di Roma con sentenza del 15 aprile 2003, n. 26/03.

Come prima si è accennato, il problema consiste nella corretta interpretazione dell’art. 6 del vigente codice penale italiano e, dunque, nel valutare se sia o meno esercitabile, senza richieste o autorizzazioni da parte dell’autorità politica rappresentata dal Ministro della Giustizia, la giurisdizione penale italiana nei confronti di persone non residenti in territorio italiano, e per delitti commessi ed esauriti nei loro effetti, cioè interamente commessi in territorio sottoposto alla giurisdizione italiana al momento della loro commissione; territorio poi ceduto ad altra sovranità statuale, come nel caso deciso e concluso dalla Corte di Cassazione italiana con la sentenza prima richiamata [3].

Mentre la prima Corte d’Assise di Roma con sentenza dell’11 ottobre 2001, n. 24/01, faceva cattivo governo dell’amnistia concessa con d.p.r. n. 460 del 1959, così dichiarando non doversi procedere contro o.p. (unico imputato rimasto in vita nelle more del processo) e così riconoscendo esplicitamente la esercitabilità della giurisdizione penale italiana per i plurimi fatti omicidiari commessi a Fiume nel maggio del 1945, la prima Corte di Assise di Appello di Roma e poi la Corte di Cassazione, con le richiamate sentenze, hanno dichiarato non potersi procedere nei confronti dell’imputato, in quanto hanno ritenuto cessata la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana per effetto della cessione del “locus commissi delicti” ad altra sovranità statuale in conseguenza dell’entrata in efficacia del cosiddetto trattato di pace deciso a Parigi il 10 febbraio 1947, ancorchè tale cessione di sovranità territoriale fosse intervenuta in un momento successivo a quello di commissione dei delitti; e dunque attraverso una erronea interpretazione dell’art. 6 del vigente codice penale italiano, che costituisce oggetto delle presenti riflessioni[4].

2. Giova premettere che già il Tribunale di Roma, in sede di riesame, pronunciandosi sull’appello proposto il 22.5.1996 dal p.m. avverso l’Ordinanza del 14.5.1996 con la quale il g.i.p. aveva respinto la richiesta di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere per o.p., aveva affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice penale italiano con argomentazioni che trovano riscontro positivo nel codice penale e che sono confortate dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti.
Il Tribunale penale di Roma, in sede di riesame, con l’ordinanza del 2.7.1996 aveva correttamente rilevato che l’art. 6 c.p. considera il reato come commesso nel territorio dello Stato, da cui deriva la punibilità del reo secondo la legge italiana, allorché l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero ivi si è verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione[5].

Unico requisito, dunque, per la assoggettabilità alla giurisdizione penale italiana è pertanto quello dell’essersi realizzato in territorio italiano uno degli elementi costitutivi del fatto-reato: azione (od omissione) od evento.
Al riguardo, nessun dubbio vi può essere -come ricordano le Sezioni Unite penali della Corte Suprema di Cassazione nella sentenza del 24 novembre 1956 (Salomone)- nel senso che a seguito del trattato di pace tra l’Italia e le Potenze Alleate e Associate, la cessazione della sovranità italiana nella Regione istriana e di Fiume e nella Regione dalmatica era stata prevista per la data di entrata in vigore del trattato (16 settembre 1947), per cui certamente fino a tale data detti territori sono rimasti soggetti alla sovranità italiana con la conseguenza che per ogni eventuale infrazione di carattere penale commessa in quelle zone sorgeva e permaneva incondizionatamente a favore dello Stato italiano la corrispondente potestà giurisdizionale.

Né può sostenersi, come ritenuto dalle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione con una precedente e remota sentenza del 2 luglio 1949 (Schwend), che i reati commessi su parte del territorio nazionale, successivamente ceduto ad altro Stato, devono considerarsi come commessi in territorio straniero con conseguente (sopravvenuta) impossibilità di esercizio della giurisdizione italiana.
Così argomentando, infatti, si confonde l’esercizio in concreto della potestà punitiva -non più possibile sul territorio ceduto- (e della quale si dirà più avanti), con l’esercizio della giurisdizione che non viene meno in quanto si fonda sull’applicabilità della legge penale italiana, per essere stato il reato commesso ratione temporis in territorio nazionale.

Nessuna norma, infatti, né di carattere interno e né di carattere internazionale, prevede che l’applicabilità della legge penale italiana, ai sensi dell’art. 6 c.p., sia soggetta a condizione risolutiva per il caso che il locus commissi delicti sia trasferito successivamente alla sovranità di altro Stato[6].
E’ ben vero che la giurisdizione fa passaggio con la sovranità territoriale, ma è evidente -anche per le conseguenti ed inammissibili eventuali impunità che ne potrebbero diversamente conseguire- che tale principio esplica la sua operatività per il futuro e non già per il passato: cioè per i fatti avvenuti successivamente al passaggio della sovranità territoriale, e non già per i fatti verificatisi precedentemente; solo in tal senso può avere ragione e significato l’espressione quando contenuta nel secondo comma dell’art. 6 del codice penale.

Tale pacifico principio di diritto interno ed internazionale trova conferma nella ipotesi della nave battente bandiera italiana nel caso in cui a bordo della stessa venga commesso un delitto nel corso della navigazione, e in acque internazionali. La giurisdizione del giudice italiano, in relazione a quel delitto, è indiscutibile così come dispone il secondo comma dell’art. 4 c.p. che, come il codice della navigazione, riconduce la nave al territorio dello Stato ai fini della legge penale, e ciò anche nel caso in cui tale nave per un motivo qualsiasi dovesse successivamente cambiare bandiera dismettendo quella italiana. In tale ipotesi certamente non verrebbe meno la giurisdizione del giudice italiano in relazione ai fatti avvenuti nel tempo in cui la nave batteva bandiera italiana ed era considerata come territorio dello Stato e dunque soggetta alla legge penale italiana[7].

A tutto ammettere, vi sarebbe da considerare anche l’ipotesi che il territorio su cui sono stati consumati i delitti non sia passato integralmente di mano. Tale rilievo acquista valore con riferimento all’art. 6 c.p., nella parte in cui questo prevede che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato anche nel caso di parziale svolgimento del medesimo in territorio italiano.
A tal proposito è utile evidenziare il caso in cui parte della complessiva e unitaria condotta criminosa si sia sviluppata anche in territorio ancora soggetto alla sovranità dello Stato cedente.
Nel caso di specie, ora considerato, è storicamente accertato che l’attività delle bande slavo-comuniste diretta a distaccare le Province italiane dell’Istria, della Venezia Giulia e della Dalmazia dall’Italia e ad organizzare la programmazione e l’esecuzione delle stragi, si è svolta contestualmente in tutta l’area giuliana, istriana e dalmatica e quindi sia nella parte del territorio poi ceduto alla Jugoslavia nel 1947, prima, e nel 1975 poi, con il Trattato di Osimo, che in quella rimasta tutt’oggi all’Italia.

3. E’ utile evidenziare ancora che lo sviluppo del diritto internazionale e nazionale degli ultimi decenni ha evidenziato in modo inconfutabile la tendenza a privilegiare la esigenza di repressione dei crimini di guerra e contro l’umanità, facendo passare in secondo piano il principio della territorialità e anche della irretroattività della legge penale incriminatrice[8]. Tale rilievo necessita, per essere meglio valutato, di un riscontro più completo che faccia riferimento alla connessione fra controllo politico del territorio ed esercizio della giurisdizione, per la quale il richiamato, consolidato orientamento conferma il superamento di tale legame nel momento in cui il crimine internazionale sia tale da violare i principi generali e le norme di jus cogens del diritto internazionale.

Occorre sottolineare come la norma internazionale che impone agli Stati il perseguimento dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità, è norma positivamente esistente nella coscienza giuridica collettiva degli Stati; e ciò indipendentemente da ogni rapporto o connessione tra tempo e locus commissi delicti e sovranità territoriale dello Stato che esercita la sua giurisdizione penale. Al contrario, nel caso in cui fosse riconosciuta come esatta la opposta tesi, il processo di Norimberga, il processo di Tokio, il processo di Venezia (quest’ultimo, come è noto, voluto dall’Autorità di occupazione inglese a carico del Feld-Maresciallo Kesserling e del Generale Jödl) e le statuizioni di condanna pronunciate da tali Tribunali sarebbero da considerare solo come abusi e sopraffazioni delle Potenze Alleate ed Associate.

La norma internazionale prima individuata era -per i motivi fin qui esposti e per quanto in seguito verrà detto- già radicata sicuramente nella coscienza giuridica della Comunità internazionale degli Stati. A conferma del fondamento dell’orientamento ora accennato, deve dirsi che è pacifica la perseguibilità del delitto di genocidio pur in assenza di un preteso criterio di stretto collegamento tra giurisdizione dello Stato ed esercizio della sovranità territoriale sui luoghi di commissione dei fatti costitutivi di tale delitto, riconoscendosi in tal modo, per quest’ultimo, il fondamento per così dire universale della sua perseguibilità a prescindere dal locus commissi delicti, da parte di ogni Stato (che ha l’obbligo di perseguire il delitto), essendo l’interesse al perseguimento degli autori del reato de quo, un interesse non limitato all’ambito sociale di ogni singolo Stato individualmente considerato, bensì interesse sociale di tutta la Comunità internazionale degli Stati; per tali motivi, ogni Stato ha l’obbligo di tutelare l’interesse generale della Comunità internazionale laddove -come nel caso del genocidio e di ogni altro delitto contro l’umanità- venga coinvolto il fondamento stesso e la difesa dell’ordine pubblico internazionale[9].

Giova, al riguardo, riportare quanto precisato dal Tribunale militare di Roma con sentenza n. 322 del 22.7.1997 (depositata il 13.9.1997) resa nel procedimento a carico degli ex Ufficiali tedeschi Erich Priebke e Karl Hass per i fatti avvenuti in Roma il 24.3.1994 in località Cave Ardeatine, che afferma il principio della perseguibilità penale fuori da ogni collegamento giurisdizione-sovranità territoriale in ragione del locus commissi delicti, e indipendentemente dal fatto che lo Stato la cui giurisdizione si attiva sia lo Stato per così dire parte lesa del delitto.

In modo conforme si è pronunciata la Corte di Appello di Lione (imputato Klaus Barbie, che si era rifugiato e che risiedette per moltissimi anni in Bolivia con il falso nome di Hans Altman) con sentenza del 1985, la quale ha stabilito che, in caso di reati contro l’umanità (che comprendono l’assassinio, lo sterminio, la deportazione della popolazione civile, nonchè la persecuzione per ragioni politiche e razziali, codificati poi -tra l’altro- dall’art. 6 dell’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945, istitutivo del Tribunale di Norimberga, e che sono pacificamente considerati come principi generali essenziali sempre esistiti dell’ordinamento internazionale), uno Stato è autorizzato -anzi, obbligato- a perseguire i responsabili di tali delitti, in qualsiasi momento e luogo commessi.

Un caso emblematico di perseguimento di un responsabile di tali crimini indipendentemente da ogni collegamento tra locus commissi delicti e giurisdizione dello Stato, è quello relativo ad Adolf Heichman. Lo Stato di Israele perseguì, catturandolo al di fuori dei propri confini (in Argentina), il responsabile e conseguentemente giudicandolo e condannandolo[10]. Con riguardo al processo di Tel Aviv, a carico di Heichman, al momento della commissione dei delitti addirittura non esisteva neppure lo Stato (Israele) che ha poi esercitato l’azione penale (con conseguente implicita affermazione della sussistenza della propria giurisdizione in relazione ai fatti contestati), in conformità non soltanto alle statuizioni del suo ordinamento nazionale, ma anche -e prima- in conformità alle preesistenti disposizioni normative del diritto internazionale dovutamente richiamate e poi recepite nell’ordinamento giuridico nazionale israeliano.

E’ utile, inoltre, richiamare l’ordinanza del 6 maggio 1994 del Giudice Istruttore del Tribunale di Grande Istanza di Parigi[11] con cui il giudice francese ha affermato la perseguibilità dei delitti contro l’umanità commessi nella ex Jugoslavia (dunque, successivamente al 1990) da soggetti comunque non presenti sul territorio francese.

E’ dunque evidente che i delitti contro l’umanità, vengono considerati dal diritto internazionale e da quello interno, che al primo deve adeguarsi, perseguibili anche a prescindere dal fatto che uno Stato abbia mai esercitato la sua sovranità sul territorio su cui gli stessi sono stati perpetrati. E poiché quella parte del diritto internazionale che afferma la attivazione della competenza di ogni Stato a conoscere di tali delitti ha ormai da tempo natura espressiva di norme generali fondamentali, queste ultime sono automaticamente rilevanti ed applicabili nell’ordinamento italiano ex art. 10 Cost., e già prima della promulgazione della Costituzione, a prescindere dall’esigenza di far richiamo a strumenti internazionali aventi lo stesso oggetto (cioè, accordi o convenzioni).

4. Tutto ciò premesso, va ora rilevata, sotto diverso aspetto, l’infondatezza della tesi secondo la quale in tanto può sussistere ed è esercitabile la giurisdizione penale dello Stato, solo in quanto a questa corrisponda la possibilità in concreto di realizzare la pretesa punitiva dello Stato stesso.
L’art. 6 del codice penale italiano va inteso nel senso di considerare i reati come commessi nel territorio dello Stato, in quanto l’azione e l’evento che li costituiscono è ivi avvenuta. Infatti, l’inciso commesso nel territorio dello Stato (secondo comma dell’art. 6 c.p.) ha necessariamente una valenza sia spaziale che temporale, in quanto un’azione o un evento è tale in quanto abbia una sua dimensione sia nello spazio che nel tempo. In questo senso va intesa la locuzione quando presente nel 2° comma dell’art. 6 del codice penale.

Perciò, quando il legislatore dice che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, vuole fare riferimento sia allo spazio (territorio dello Stato) sia al tempo (territorio dello Stato nel momento della commissione del fatto-reato). Ad avvalorare tale interpretazione è la vis attrattiva della giurisdizione italiana di cui sono permeate tutte le norme sostanziali e procedurali che disciplinano la competenza.

Da una visione unitaria di queste norme si ricava la ratio comune che il legislatore ha assunto nel disciplinare una materia così importante: la prevalenza, cioè, della giurisdizione italiana anche nel caso in cui il momento di collegamento con l’ordinamento dello Stato sia di minima importanza, come nel caso in cui, per quanto riguarda i reati continuati, l’azione delittuosa sia solo cominciata in Italia o ivi si sia verificato solo l’evento[12]. A maggior ragione quando il reato si sia interamente verificato in territorio italiano, dal suo primo atto integrativo della fattispecie fino alla sua intera consumazione.
Non vi sarebbe quindi alcun motivo di mettere in discussione il fondamento e la esercitabilità di una giurisdizione che ictu oculi appare certa.

Nel senso indicato si è espressa con molta chiarezza la Corte di Cassazione a Sezioni Unite penali con la sentenza del 24 novembre 1956[13], la quale ha ritenuto che ai fini dell’applicazione dell’art. 6 c.p. si debba tener conto del rapporto di sovranità esistente nel momento in cui il reato è stato commesso, onde la punibilità per il reato sussiste anche se successivamente questo rapporto sia venuto meno. La sentenza appena richiamata, essendo successiva a quelle contrarie di cui si dirà, e provenendo dalle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione, risolve nel senso ora indicato la questione della esistenza o meno della giurisdizione penale del giudice italiano nel caso di mutamenti della sovranità territoriale dello Stato.

Inoltre, bisogna ricordare che il clima storico e politico in cui furono emesse le iniziali sentenze della Corte di Cassazione, forse non permetteva un diverso orientamento, dato il loro carattere eminentemente politico e dato che l’Italia usciva sconfitta da una guerra che le aveva sottratto parte del suo territorio, e si trovava in condizioni di debolezza politica interna ed internazionale, oltre che in stato di comprensibile confusione circa l’esatto inquadramento giuridico -politicamente condizionato- dei rapporti tra esercizio della giurisdizione e sovranità territoriale.

Al contrario, non appena si uscì fuori da questo stato di soggezione psicologica -conseguente a quella politica- nei confronti degli Stati vincitori della guerra (si veda la sentenza del 1956, prima richiamata), la Corte di Cassazione fu più libera di svolgere correttamente la sua funzione nomofilattica avendo come unico punto di riferimento la lettera e lo spirito della legge (art. 6 c.p.) e la sua esatta interpretazione e collocazione sistematica.

5. In contrario, si citano talune sentenze della Corte di Cassazione, dando loro un significato e presentandole in maniera tale da farle apparire come aderenti alla tesi contestata della cessazione della giurisdizione italiana, dimenticandosi però di evidenziare il fatto -tra l’altro (altre considerazioni saranno svolte in prosieguo)- che nessuna di queste sentenze ha avuto come oggetto reati gravi come l’omicidio plurimo e pluriaggravato[14].

La sentenza del 1949 (Schwend) è stata severamente criticata dalla quasi totalità della dottrina giusinternazionalistica e penalistica per le lacune e le imprecisioni in essa contenute. Tali lacune ed imprecisioni si sostanziano, in particolare, nel fatto che in essa si è assunto quasi come un dogma il principio di territorialità del diritto penale italiano e non sono state prese in considerazione tutte le numerosissime ed autorevolissime voci contrarie[15].

Una ulteriore lacuna rilevabile ictu oculi nella sentenza del 1949 è rappresentata dal fatto che i giudici della Corte di Cassazione non si sono posti il problema del diritto transitorio. Si vuole fare riferimento alla circostanza che, fermo (per ipotesi) il principio del simultaneo passaggio della giurisdizione con la sovranità, tale ragionamento è stato fatto valere anche per il caso in cui la sovranità dello Stato sul territorio è cessata dopo la commissione del reato, senza alcuna ulteriore precisazione in merito.
6. Tutto ciò premesso, giusta le considerazioni fin qui svolte, è ora possibile correttamente intendere l’errore interpretativo consistente nell’assunto secondo cui interessato alla repressione sarebbe dal punto di vista territoriale, lo Stato italiano se ed in quanto il reato è commesso nei limiti attuali della sovranità territoriale italiana, e secondo cui l’art. 6 del codice penale non farebbe riferimento alla sovranità del tempo della commissione del fatto illecito, ma alla sovranità del tempo in cui l’interesse statale italiano alla repressione, sia in tutte le sue fasi che in una fase soltanto, si manifesta.
Premesso quanto già detto in ordine alla valenza sia spaziale che temporale attribuita dall’art. 6 c.p. alla commissione dei delitti, quest’ultimo articolo, inteso come sostenuto dalla opposta tesi, non avrebbe allora ragion d’essere, in quanto coinciderebbe con l’art. 3 dello stesso codice, e ne costituirebbe dunque un inutile duplicato.

L’art. 3 del codice penale, infatti, statuisce che la legge italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, significando tale obbligatorietà sia il dovere di non violare le norme, sia la condizione di sottostare alle conseguenze della loro violazione ed ai mezzi per applicarle (col processo).

Lo stesso significato nella contestata prospettazione, verrebbe attribuito all’art. 6 c.p., che diverrebbe, come è già stato detto, un inutile duplicato dell’art. 3 c.p. .
Al contrario, l’art. 6 del codice penale distingue temporalmente la commissione del reato e l’esercizio della pretesa punitiva dello Stato, individuando il momento in cui il reato è stato commesso e quello in cui lo Stato che ha posto quelle norme che si intendono violate esercita la propria potestà punitiva attraverso il processo penale: chiunque commette un reato nel territorio dello Stato (Fiume al momento della commissione degli omicidi costituiva parte del territorio italiano) è punito secondo la legge italiana (tranne alcune eccezioni che non trovano, nel caso di specie, alcun spazio di applicazione), e cioè secondo la legge del tempo della commissione dei reati. Per cui, il primo accertamento che il giudice deve effettuare consiste nell’individuare il luogo dove è stato commesso il reato. Nel caso in oggetto tale luogo era certamente in Italia. Inoltre, il giudice deve individuare conseguentemente la legge applicabile e tale legge non può che essere quella italiana. Questo è il vero ed unico significato attribuibile al 1° e 2° comma dell’art. 6 c.p..

Collegare l’esercizio della giurisdizione penale come espressione massima della sovranità dello Stato rivolta a tutelare l’ordinato vivere del corpo sociale, alla conseguenza che non essendovi tale possibilità di disciplina sociale non vi sarebbe base, ragione e Stato, è un’affermazione priva di ogni fondamento[16].

A tal proposito è necessario sottolineare che, persa da parte dell’Italia la sovranità su quei territori sui quali furono commessi i delitti, ben permangono -in particolar modo nel caso di delitti particolarmente efferati- le conseguenze di quei delitti in capo ai parenti delle vittime e agli scampati che ancora oggi vivono su quella parte di territorio rimasta all’Italia. D’altro canto, non si può non considerare che il collegamento tra le esigenze di difesa sociale e l’esercizio della giurisdizione statuale è ugualmente esistente anche se la giurisdizione dello Stato si risolve nella protezione di interessi generali che la Comunità internazionale ha riconosciuto e riconosce meritevoli di tutela e che ciascuno Stato è tenuto ad assicurare.

Nel caso in cui si intendesse ritenere insussistente la giurisdizione quando non fosse possibile realizzare in concreto la pretesa punitiva dello Stato, sarebbe sufficiente osservare che l’art. 9 c.p., consentendo la esercitabilità della giurisdizione in presenza di una richiesta del Ministro della Giustizia (è il caso dell’omicidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ovvero dei cosiddetti desaparecidos in Argentina per i quali vi è stata appunto richiesta del Ministro della Giustizia), non per questo diviene certa la successiva realizzabilità in concreto della pretesa punitiva dello Stato.
In proposito, è il caso di ricordare, per inciso, che la richiesta del Ministro della Giustizia si pone come sola condizione di procedibilità e non già come condizione di sussistenza della giurisdizione penale dello Stato.

Da ciò discende in maniera incontestabile che la scelta legislativa di fondo rilevabile dal codice penale vigente non è quella della stretta territorialità della giurisdizione, dato che in questi casi la pretesa punitiva dello Stato si realizza attraverso l’istituto dell’estradizione che, per quanto ora interessa, verrebbe privato di ogni significato nonchè di ogni utilità, in conseguenza della sostanziale inesistenza che deriverebbe di tutte quelle disposizioni del codice penale che prevedono condizioni e requisiti per la esercitabilità della giurisdizione nazionale italiana.

Se è vero che, per rimanere all’ipotesi, la richiesta del Ministro della Giustizia si pone come condizione di procedibilità, proprio questo conferma la sussistenza della giurisdizione fuori da ogni infondato criterio di stretto collegamento territoriale come diversamente si pretende, con tutte le abnormi conseguenze che dalla tesi contestata discenderebbero.

E’ in questa prospettiva che acquista ulteriore conferma e validità la proposta interpretazione dell’art. 6 c.p. secondo cui la giurisdizione penale italiana va individuata non soltanto ratione loci ma anche ratione temporis, dovendosi avere riguardo al momento della commissione del delitto.
Nello stesso senso si è pronunciata un’autorevole dottrina, la quale ha affrontato in maniera articolata e completa il problema del rapporto tra l’esercizio della giurisdizione penale ed il territorio dello Stato[17].

Occorre concordare nel senso che la nostra legislazione penale contiene un gruppo di norme le quali o per una specifica determinazione in esse contenuta o, più frequentemente, in quanto vengono integrate con le disposizione formulate, in termini generali, dagli artt. 6, 9 e 10 cod. pen., prendono in considerazione un certo collegamento fra il fatto e lo Stato (non interessa qui se come elemento costitutivo del reato o come condizione di punibilità). Tale collegamento è talvolta un collegamento obiettivo e, più particolarmente, territoriale, in quanto si concreta nella circostanza che il fatto sia commesso nel territorio dello Stato (articoli 6, 270, 274, 288, 295, 297, 299 cod. pen.).
Altre volte il collegamento è subiettivo e ha riguardo, cioè, al soggetto autore del fatto od al soggetto leso. Il criterio di collegamento subiettivo generalmente utilizzato è la cittadinanza, sia come criterio destinato a funzionare subordinatamente all’assenza del collegamento territoriale, come avviene per l’art. 9 (cittadinanza dell’autore) e per l’art. 10 (cittadinanza del soggetto leso), sia come criterio autonomo, destinato a funzionare incondizionatamente (articoli 242, 246, 269). Criteri subiettivi diversi dalla cittadinanza sono la dimora (art. 250) e la residenza (art. 4, I° comma, per l’ipotesi di apolidia, art. 274, 2° comma).

Le norme penali, così come prendono in considerazione dati collegamenti fra i fatti contemplati e lo Stato, così possono dare una certa rilevanza all’assenza di un dato collegamento. Si hanno così norme le quali contemplano l’ipotesi di fatto commesso all’estero (articoli 8, 9, 10, 269, 293), di fatto commesso da uno straniero (articoli 27, 10, 246, 2° comma), di fatto commesso a danno di uno straniero (articoli 9, 3° comma, 10, 2° comma)[18].

Le norme che, come gli articoli 6, 9 e 10 del codice penale subordinano, con formulazione generale, la punibilità di un fatto ad un dato collegamento fra il fatto stesso e lo Stato sembrerebbero dirette a delimitare l’ambito della giurisdizione penale, cioè a compiere una funzione analoga a quella che, rispetto alla giurisdizione civile, è esplicata dagli art. 2 segg. cod. proc. civ. Ma l’analogia è soltanto apparente. I citati articoli del codice di procedura civile contengono norme aventi natura processuale dirette propriamente a delimitare la giurisdizione dello Stato, cioè a determinare le liti che dai giudici italiani possono essere decise. Invece gli articoli 6, 9 e 10 cod. pen., non diversamente dagli altri articoli, sparsi nello stesso codice, che si riferiscono ad un collegamento obiettivo o subiettivo con lo Stato, attribuiscono al previsto collegamento una funzione di diritto sostanziale, la quale si concreta in una delimitazione della sfera di efficacia delle norme materiali e non già in una delimitazione della giurisdizione penale.

L’assenza, in concreto, del collegamento richiesto importa che il fatto non è contemplato dalla norma penale e pertanto non costituisce reato. Più che di mancanza di giurisdizione dovrebbe, in ogni caso, parlarsi di impossibilità di una sentenza di condanna. Al contrario, l’assenza dei collegamenti indicati nell’art. 4 cod. proc. civ. non tocca per nulla l’esistenza del rapporto, in quanto rapporto giuridico rilevante per l’ordinamento italiano, escludendo soltanto che sul rapporto stesso possa esercitarsi il potere giurisdizionale dei giudici italiani.

Con l’accenno che si è fatto alla natura ed alla funzione dei criteri di collegamento che sono di solito utilizzati in materia penale, non si vuole affermare che la giurisdizione penale sia del tutto illimitata, nel senso che essa si estenda, in ogni caso, a tutti i fatti che sono contemplati dalle norme materiali; non si vuole negare cioè in maniera assoluta l’esistenza di norme dirette propriamente a limitare la giurisdizione penale come tale, senza influire sulla sfera di efficacia delle norme materiali. Può dubitarsi se una norma limitatrice della giurisdizione risulti dagli art. 9 e 10 c. p. in quanto questi articoli pongono la condizione della presenza dell’autore del fatto nel territorio dello Stato, ovvero se si tratti anche qui di un elemento attinente al diritto sostanziale.

Ma sembra certo che un vero e proprio limite alla giurisdizione penale debba ravvisarsi nella norma con cui l’ordinamento italiano si è adattato alla norma internazionale circa l’immunità diplomatica in materia penale; tale immunità si concreta infatti nella esenzione dalla giurisdizione e non pure dalla legge penale, considerando la qualità di agente diplomatico non già una condizione preclusiva del reato, ma soltanto una condizione soggettiva che importa impedimento all’esercizio dell’azione penale[19].

Le norme penali che contemplano la presenza o la assenza di un dato collegamento rispetto allo Stato italiano configurano di solito il collegamento o la sua assenza come una circostanza non già estrinseca al fatto, ma a questoinerente. Ciò comporta che, per una determinazione che deve ritenersi implicitamente, ma sicuramente, contenuta nella norma, la circostanza stessa va accertata avendosi riguardo al momento in cui il fatto è compiuto. La presenza o l’assenza del previsto collegamento assume così il carattere di circostanza non suscettibile di variazione nel tempo quali che siano le variazioni che vengono a subire gli elementi da cui la circostanza stessa risulta. Perciò il mutamento di uno di questi elementi (come la cittadinanza o la sovranità sul territorio) non produce le conseguenze che altrimenti si verificherebbero. Conseguenze che, quando si tratta di norma diretta a subordinare ad un certo collegamento la punibilità del fatto si concreterebbero, per quello che si è detto, nella estinzione del reato e non già semplicemente nella estinzione della giurisdizione.

L’affermato carattere di invariabilità si rileva in primo luogo nei criteri di collegamento subiettivi. Così, per le norme che si riferiscono alla ipotesi di fatto compiuto da un cittadino o a danno di un cittadino, deve ritenersi decisiva la cittadinanza posseduta dall’autore e dal soggetto leso al momento in cui il fatto è compiuto. Lo stutus civitatis anteriore è irrilevante, salvo che per i delitti contro la personalità dello Stato per i quali, in virtù di una apposita disposizione (art. 242, 3° comma), il criterio della cittadinanza dell’autore può concretarsi non solo nella cittadinanza italiana posseduta al momento del fatto, ma anche in quella posseduta anteriormente. Del pari irrilevante è l’eventuale perdita della cittadinanza intervenuta dopo il compimento del fatto. E’ evidente che un fatto compiuto da un cittadino o a danno di un cittadino non cessa di essere tale per la ragione che, successivamente al fatto, la cittadinanza italiana dell’autore o del soggetto leso sia venuta meno. Lo stesso dicasi per la dimora (art. 250) e per la residenza (artt. 4, 1° comma, e 274, 2° comma). Egualmente al momento del compimento del fatto bisogna riferirsi per accertare, anziché la presenza, l’assenza, prevista da una norma, del collegamento subiettivo della cittadinanza. Un fatto commesso da uno straniero o a danno di uno straniero rimane fatto commesso da uno straniero o a danno di uno straniero anche se, successivamente al fatto, l’autore o il soggetto leso abbia acquistato la cittadinanza italiana.

Non diversamente si comporta il collegamento obbiettivo del luogo di compimento del fatto. Questo collegamento inerisce al fatto ancora più intimamente della cittadinanza e degli altri criteri subiettivi; criteri che si riferiscono al fatto solo mediatamente, cioè attraverso il soggetto che si trova col fatto in una data relazione. Ciò per quanto riguarda uno dei termini del collegamento, e cioè il fatto. Ma, se si considera l’altro termine, che è lo Stato, si nota che, come nel criterio della cittadinanza, così in quello del luogo di compimento del fatto, il legame con lo Stato è costituito da un elemento che, in sé considerato, può estinguersi: come può cessare la cittadinanza dell’autore del fatto o del soggetto leso, così può venir meno l’appartenenza al territorio dello Stato del luogo in cui il fatto è stato compiuto. Ma una tale circostanza è sprovvista di qualsiasi rilevanza ai fini delle norme ora in esame.

L’art. 6 c. p. pone il principio generale che subordina l’applicabilità della legge penale italiana alla condizione, ed alla sola condizione, che il fatto sia commesso nel territorio dello Stato italiano; e prosegue al secondo comma precisando la relazione che deve intercorrere fra il fatto ed il territorio dello Stato perché il fatto possa considerarsi ivi commesso; relazione che consiste nella circostanza che nel territorio dello Stato sia avvenuta, in tutto o in parte, l’azione o l’omissione, ovvero si sia verificato l’evento che ne è la conseguenza. Ora, sebbene l’art. 6 c.p. non lo dica espressamente, risulta chiaramente dallo stesso modo in cui è configurato il criterio di collegamento adottato, che l’appartenenza al territorio dello Stato (inteso secondo la definizione datane dall’art. 4, 2° comma) del luogo in cui il fatto deve, alla stregua del secondo comma dell’articolo in questione, intendersi commesso, va accertata con riferimento al momento del compimento del fatto[20].

Lo stesso si dica di tutte le altre norme che si sono ricordate e che, al pari dell’art. 6, prendono in considerazione la circostanza che il fatto sia commesso nel territorio dello Stato. Conseguentemente, se il fatto è stato commesso in un luogo che, al momento del compimento del fatto, faceva parte del territorio dello Stato, la successiva perdita della sovranità su quel luogo non ha rilevanza alcuna ai fini delle norme penali di cui si tratta; non determina, in particolare, l’estinzione del reato[21]. Correlativamente, un fatto compiuto in un luogo che, al momento del fatto, non apparteneva al territorio dello Stato, deve continuare a considerarsi come fatto commesso all’estero (ai fini delle norme penali che prendono comunque in considerazione una tale circostanza) anche se successivamente lo Stato viene ad acquistare la sovranità su quel territorio.

Si intende che a diversi risultati dovrebbe pervenirsi ove esistessero speciali norme derogative, le quali potrebbero essere norme di adattamento al trattato internazionale da cui il mutamento territoriale dipende. Ma il trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 non contiene disposizioni derogatorie al riguardo, ne’ in un senso e ne’ in altro.

Quanto al trattato di San Germano del 10 settembre 1919, ricordato dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 2 luglio 1949 (Schwend), è vero che esso contiene, all’art. 45, alcune disposizioni concernenti l’esercizio della giurisdizione nei territori ceduti all’Italia; ma nessuna di queste disposizioni riguarda il trattamento da farsi, nell’ordinamento italiano ed in quello austriaco, ai reati commessi nei detti territori anteriormente alla cessione. Tali reati perciò, anche in seguito all’ordine di esecuzione del trattato (decreto-legge del 6 ottobre 1919, n. 1804), continuarono ad essere disciplinati, nell’ordinamento italiano, come reati commessi all’estero (art. 4 segg. cod. pen. del 1889).
Del pari inesatto è il riferimento fatto dalla Corte di Cassazione all’art. 22 del trattato del Laterano del 1929.

In primo luogo, questo articolo non contiene una delega di giurisdizione, ma semplicemente contiene la possibilità della delega, da darsi dalla Sante Sede caso per caso o in modo permanente. In secondo luogo, oggetto della prevista delega non sono i delitti commessi nel territorio dello Stato Città del Vaticano quando questo apparteneva ancora allo Stato italiano, ma i delitti che, successivamente alla formazione dello Stato della Città del Vaticano (e quindi alla entrata in vigore del relativo trattato), fossero commessi nel territorio del nuovo Stato. Si tratta, come si vede, di una disposizione che non si trova in alcuna necessaria relazione con la perdita, da parte dello Stato considerato beneficiario della eventuale delega, del territorio nel quale il delitto deve essere commesso per rientrare nel novero di quelli per cui la delega è prevista.

Non è quindi per l’art. 22 del trattato del Laterano, ma solo perchè tale trattato non contiene alcuna disposizione che esiga una deroga delle generali norme italiane in materia, che un reato, che fosse stato commesso in territorio vaticano anteriormente al trattato, avrebbe dovuto continuare ad essere considerato, nell’ordinamento italiano, come reato commesso in Italia (alla stregua dell’art. 3 del codice penale del 1889).

Nè può, con la Corte di Cassazione, ritenersi che anche indipendentemente da apposite disposizioni, l’impossibilità che lo Stato cedente continui ad esercitare la propria giurisdizione penale in ordine a fatti commessi prima della cessione, nel territorio ceduto (cioè, per altro aspetto, conservi a tali fatti la qualifica di reati) derivi dalla stessa perdita della sovranità sul luogo di compimento del fatto.
La cessione di una porzione di territorio da uno Stato ad un altro importa semplicemente, per il primo, l’impossibilità di esercitare la giurisdizione nell’ambito del territorio ceduto, cioè di esplicarvi la propria attività giurisdizionale e di compiervi gli atti coercitivi che sono con essa connessi. Non rileva per nulla alcun obbligo internazionale per lo Stato cedente di astenersi dal sottoporre alle proprie norme penali i fatti che si trovino in una data relazione col territorio ceduto, in particolare i fatti che in tale territorio furono in precedenza compiuti.

Il territorio ceduto, per quanto riguarda i fatti ivi compiuti dopo la cessione, non si trova in una posizione diversa da quella di ogni altro territorio straniero; e si sa che allo Stato è dallo stesso diritto internazionale consentito, sia pure subordinatamente alla esistenza di un qualche collegamento, di sottoporre alle proprie norme penali fatti commessi all’estero. In una posizione diversa il territorio ceduto si trova solo rispetto ai fatti in esso commessi prima della cessione; ciò per la semplice ragione che si tratta di fatti commessi nel territorio dello Stato cedente e non già all’estero. L’esercizio della giurisdizione penale in ordine a tali fatti, da parte dello Stato cedente, trova così, anche dal punto di vista del diritto internazionale, la giustificazione più sicura[22].

Si è notata la diversità di funzione fra le norme che subordinano la punibilità del fatto ad un dato collegamento con lo Stato e le norme che delimitano la giurisdizione in materia civile. Tuttavia, un rapporto tra i due gruppi di norme può essere suggerito da una certa analogia di struttura, in quanto anche le norme sui limiti della giurisdizione utilizzano, per i propri fini, dati collegamenti con lo Stato, nel senso che sottopongono alla giurisdizione dello Stato le liti che con questo sono in certo modo collegate.

Dei criteri di collegamento indicati, in funzione di criteri di giurisdizione, dall’art. 4 c. p. c., alcuni non sono suscettibili di estinzione. Presentano, in particolare, questo carattere taluni criteri che consistono nel collegamento di un fatto con lo Stato, e precisamente col territorio dello Stato, ed hanno l’effetto di sottoporre alla giurisdizione dello Stato le liti che si trovano con quel fatto in una data relazione. Tali sono il criterio del luogo di apertura della successione e quello del luogo in cui è avvenuto il fatto da cui è sorta l’obbligazione (art. 3, n. 2, c.p.c.). Questi criteri, al pari di quelli utilizzati dalle norme penali che si sono esaminate, si concretano in circostanze inerenti al fatto e quindi da accertarsi con riferimento al momento in cui il fatto è avvenuto. Conseguentemente, la successiva perdita della sovranità italiana sul luogo in cui si è aperta la successione o si è verificato il fatto da cui l’obbligazione ha avuto origine, non estingue la giurisdizione italiana sulle liti che sono determinate in base a quei criteri. Nè, correlativamente, sorge la giurisdizione italiana se, trovandosi quel luogo, al momento del fatto, in territorio estero, venga su di esso successivamente ad estendersi la sovranità italiana.
Altri criteri di giurisdizione si concretano invece in circostanze suscettibili di variazioni nel tempo. Tali sono la cittadinanza ed anche alcuni criteri che si concretano in un collegamento (subbiettivo od obiettivo) della lite col territorio dello Stato: residenza, domicilio, luogo ove si trova la cosa. Questi collegamenti possono venir meno tanto per il fatto che la residenza o il domicilio siano trasferiti all’estero o all’estero sia trasportato il bene (mobile), quanto per il fatto che il luogo di residenza, di domicilio o di situazione della cosa cessi di far parte del territorio italiano. In ogni caso, il venir meno del collegamento ha come conseguenza l’estinzione della giurisdizione in ordine al rapporto contenzioso.

Questa conseguenza, tuttavia, non si verifica in ordine ai processi pendenti al momento del mutamento; ciò per il principio della perpetuatio jurisdictionis sancito nell’art. 5 c. p. c.; principio che deve ricevere integrale applicazione nel caso in cui, nel corso del processo, venga meno la circostanza su cui la giurisdizione si fonda. Ma, a proposito del principio della perpetuatio jurisdicionis, occorre tener presente: 1) che questo principio ha ragione di essere soltanto per quei criteri di giurisdizione che si concretano in circostanze suscettibili di estinguersi e che esso perciò non viene per nulla in considerazione quando la giurisdizione si fonda su circostanze non passibili di variazione, come il luogo di apertura della successione o il luogo del compimento del fatto da cui è sorta l’obbligazione; 2) che il principio stesso ha una portata limitata, consistente nell’impedire l’estinzione della giurisdizione solo nel caso che il mutamento intervenga dopo la domanda, senza perciò escludere che la estinzione si abbia ove il mutamento avvenga anteriormente.

Risulta da ciò come non sia pienamente appropriato riferirsi al principio della perpetuatio jurisdictionis, per risolvere la questione specifica dell’ammissibilità dell’esercizio della giurisdizione penale in ordine a fatti commessi in territorio successivamente ceduto alla sovranità di altro Stato.
Secondo la Corte di Cassazione, un argomento a favore della tesi che nega la possibilità di esercizio della giurisdizione penale in ordine a quei fatti sarebbe fornito appunto dalla pretesa inapplicabilità, già affermata dalle Sezioni Unite civili, del principio della perpetuatio jurisdictionis nel caso di mutamento territoriale. In realtà, ove si volesse pur argomentare per analogia, bisognerebbe riferirsi unicamente a quei criteri di giurisdizione che, al pari dei criteri di collegamento adottati dalle norme penali, si concretano in circostanze inerenti ad un dato fatto e, come tali, non suscettibili di variazione. Ma, rispetto a questi criteri di giurisdizione, appunto per il loro carattere di invariabilità, del principio della perpetuatio jurisdictionis non può neppure parlarsi, mancando lo stesso presupposto del suo funzionamento, consistente precisamente nel venir meno della circostanza su cui il criterio di giurisdizione si concreta. E a tacer del fatto che l’applicazione analogica del principio della perpetuatio jurisdictionis, dovrebbe portare alla sola conseguenza che l’azione penale, promossa prima della cessione territoriale, potrebbe essere proseguita anche dopo.

E’ invece possibile, dopo la cessione territoriale, promuovere l’azione penale per un reato commesso anteriormente nel territorio ceduto, reato da considerarsi commesso nel territorio dello Stato: ciò per ragioni analoghe a quelle per cui, del tutto indipendentemente dal principio della perpetuatio jurisdictionis, è possibile, dopo la cessione, proporre in base all’art. 4, n. 2, cod. proc. civ., una domanda relativa ad una successione ereditaria apertasi, prima della cessione, nel territorio ceduto o ad una obbligazione sorta da un fatto ivi avvenuto prima della cessione territoriale ad altro Stato[23].
7. Da ultimo, occorre tenere ben presente, ancor più chiarendo tale aspetto del problema, che non può disconoscersi il fondamento di legittima esercitabilità della giurisdizione, riconnettendo l’esercitabilità alla possibilità di realizzazione in concreto da parte dello Stato della sua potestà e della sua pretesa punitiva.

Non si tratta di due aspetti del medesimo problema, ma si tratta di due problemi ben distinti e senza che tra i due esista qualsiasi nesso di collegamento o, diversamente, di interdipendenza[24].
Non solo significherebbe, come già si è detto, privare di senso e di ragione l’istituto estradizionale; non solo significherebbe, più in generale, negare la giurisdizione in tutti i casi in cui per le più diverse ragioni non fosse possibile per lo Stato esercitare in concreto la sua pretesa punitiva, ma significherebbe anche -ancorché in linea di paradosso- negare il fondamento della giurisdizione in tutti i casi in cui si potesse prevedere, per le ragioni e per le situazioni più differenti, l’impossibilità dell’esecuzione del giudicato.

Al contrario, proprio il rilevante numero di convenzioni internazionali in materia di estradizione e di cooperazione giudiziaria penale tra gli Stati, indicano che in tal modo gli Stati intendono assicurarsi gli strumenti necessari per l’esecuzione del giudicato penale, con ciò presupponendo all’evidenza il fatto che la giurisdizione può essere esercitata, nei casi e per le fattispecie che ora interesano, indipendentemente da una autonoma ed effettiva capacità dello Stato di realizzare in concreto e -si ripete- autonomamente la propria pretesa punitiva nell’ambito del proprio territorio.
In tal senso non ci sembra di poter condividere quella pur autorevole dottrina, secondo cui, ai sensi dell’art. 6 c.p., il concetto di territorio italiano si riferirebbe al momento della repressione e non a quello della commissione del fatto illecito; e ciò perché anche a voler riferire -ciò che si contesta- l’art. 6 c.p. alla sovranità del tempo in cui l’interesse statale (italiano) alla repressione si manifesta, ciò non significa e non esclude che tale interesse si possa manifestare in qualsiasi momento ancorché nei limiti temporali della prescrizione del delitto: tale pur autorevole dottrina sovrappone, all’evidenza, il concetto di interesse dello Stato alla repressione (che può ben rimanere immutato nel tempo e per il tempo in cui il “vulnus” portato dal delitto colpì la comunità sociale dello Stato), al concetto della capacità dello Stato di esercitare in concreto la propria pretesa punitiva che, come detto, è questione ben diversa e del tutto autonoma[25].

A conclusione di quanto fin qui detto, sostenere che è unicamente la giurisdizione dello Stato subentrante nella sovranità territoriale quella competente a perseguire i delitti precedentemente commessi, non appare condivisibile sotto tre diversi aspetti dato che, in primo luogo, la legge penale dello Stato subentrante potrebbe non prevedere quei fatti come delitti, che così rimarrebbero impuniti; in secondo luogo la giurisdizione penale dello Stato subentrante sarebbe, questa sì, certamente non esercitabile per il solo rilievo dell’ inesistenza di qualsiasi collegamento logico tra la nuova giurisdizione e i fatti accaduti in un momento precedente al sopravvenire della nuova sovranità: in altri termini, lo Stato subentrante pretenderebbe di essere stato presente già in un momento in cui era sicuramente assente; per ultimo, a tutto ammettere, niente può precludere l’esercizio alternativo o concorrente della giurisdizione dello Stato cedente il territorio e della giurisdizione dello Stato subentrante nella sovranità territoriale (comunque nel limite del principio del ne bis in idem, ove -e specialmente- pattiziamente convenuto tra i due Stati, e nessun accordo sul punto è mai intervenuto con la Jugoslavia, prima, o con la Croazia e la Slovenia, dopo).

In fatto, comunque, va rilevato che lo Stato subentrante nella sovranità territoriale -la Jugoslavia prima e la Croazia poi- non ha esercitato e né in atto esercita (e né mai eserciterà per ovvie e non commendevoli ragioni) la sua giurisdizione penale per il perseguimento dei delitti in questione.
La Corte di Cassazione affrontando il problema in oggetto, e ricordando le sentenze del 2 luglio 1949 (Schwend), del 20 maggio 1950 (Raze e altri), del 17 giugno 1950 (Formisano), del 27 maggio 1961 (Zeiner) e del 23 febbraio 1963 (Belisari) mostra di non avere compreso il senso delle sentenze richiamate[26]. E’ vero, infatti, che tali sentenze hanno affermato che con il passaggio di sovranità territoriale, per l’effetto di un trattato di pace, passa di mano anche l’esercizio della giurisdizione, ma è evidente che l’idea di giurisdizione richiamata nelle citate sentenze, è intesa erroneamente come anche comprensiva dell’esercizio in concreto della potestà punitiva dello Stato; in altri termini, della esecutabilità del giudicato penale.

La sentenza del 20 marzo 2004, n. 175/04, ultima in argomento della Corte di Cassazione, Sez. I pen., sostiene, poi, che essa è conforme “a quanto affermato dagli studiosi del diritto internazionale” e intende riferirsi, ovviamente, con tale locuzione a tutti gli studiosi di diritto internazionale. La sentenza, tuttavia, non dice chi essi siano e ne’ può dirlo per la sola e semplice ragione che, al contrario, tutti gli studiosi di diritto internazionale (ad eccezione del Quadri), come anche di diritto penale, affermano il contrario di quanto sostenuto in sentenza[27].

8. Unica eccezione, unico punto di vista divergente e conforme all’asserito “principio di diritto” di cui alla sentenza citata da ultimo, è rappresentato dal Quadri[28]. L’illustre Autore, rimarcando la sua istintiva attitudine alla dissonanza e alla singolarità, afferma che “da che mondo è mondo” con il passaggio di sovranità territoriale si trasferirebbe anche l’esercitabilità della giurisdizione penale da parte dello Stato cedente il territorio per i delitti commessi sul territorio ceduto anche se commessi prima della cessione territoriale.

Pur con tutto il rispetto per il pensiero del comune Maestro, deve pur dirsi che, anche aderendo in modo convinto al criterio di un riferimento rigoroso al dato fenomenico, per quel che riguarda la scienza del diritto internazionale, l’affermazione “da che mondo è mondo”, da un canto non è espressiva di un criterio giuridico e, d’altro canto, dovendo il diritto internazionale tenere massimamente in conto i dati della prassi, l’affermazione non corrisponde alla realtà di questi.
Va aggiunto, d’altra parte, che il punto di vista dell’illustre Autore ora in commento, è molto datato nel tempo e trae spunto da una sentenza della Corte di Cassazione del lontano 1949; egli, dunque, non poteva inoltre tenere conto della successiva evoluzione del diritto internazionale generale e convenzionale, oltre che della evoluzione del diritto penale che ha visto un costante processo di erosione del criterio rigoroso della territorialità della legge penale.

Evidentemente, la indiscussa autorità scientifica e la ben nota fascinazione argomentativa dell’illustre Autore ha suggestionato non solo la prima Corte di Assise di Appello di Roma, ma anche la Corte di Cassazione con la sentenza in questione (20 marzo 2004, prima citata), inducendo l’una e l’altra in un grave errore interpretativo dell’art. 6 c.p., oltre che dei pertinenti principi di diritto internazionale molto genericamente indicati in sentenza e che, ove conosciuti e ben intesi, avrebbero dovuto condurre i giudici di merito e di legittimità ad una decisione di segno opposto e rispettosa della lettera e dello spirito dell’art. 6 del codice penale italiano.

Dire che (in ragione di una malintesa esigenza di “opportunità” conducente a negare la sussistenza dell’esercitabilità della giurisdizione penale dello Stato per le fattispecie che ora interessano), la esercitabilità della giurisdizione richiederebbe “la disponibilità in loco di una struttura investigativa per la ricerca delle prove, di una struttura di supporto per la esecuzione di tutti gli adempimenti connessi alla celebrazione del dibattimento”, significa fare un’affermazione certamente non giuridica e certamente, del pari, non conferente.

Basti considerare che, secondo l’abnorme e molto superficiale ragionamento della Corte di Cassazione nella sentenza in oggetto, non sarebbe possibile esercitare la giurisdizione penale da parte dello Stato italiano neppure in tutti gli quegli altri casi (oltre che per quanto dispone l’art. 6 c.p.) nei quali il vigente codice penale prevede la perseguibilità dei delitti commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero.

Ancor più si rimane allibiti allorchè in sentenza si afferma pure, per negare la sussistenza della giurisdizione nazionale, che nei casi ora considerati manca “un apparato coercitivo per assicurare la esecuzione dei provvedimenti emessi nell’ambito del processo”: ben raramente è dato imbattersi in un tale macroscopico errore della giurisprudenza di legittimità che, nel caso ora esaminato dal quale trae spunto il presente studio, in modo sorprendente, approssimativo e superficiale, confonde -giova ancora ribadirlo- l’esercizio della giurisdizione -che è una cosa- con la realizzabilità in concreto della pretesa punitiva dello Stato- che è altra cosa.

Così pure, e come già si è detto, affermare che lo Stato cedente “non ha più interesse ad assicurare la tutela dei diritti dei cittadini di quel luogo, salvo situazioni di carattere eccezionale”, significa, da un canto, dire cosa radicalmente erronea e contrastante con le consolidate evoluzioni di principi generali e fondamentali di diritto internazionale, oltre che di principi generali di diritto penale comuni agli ordinamenti giuridici nazionali della generalità (in stragrande maggioranza) degli Stati e, d’altro canto, richiamando la possibilità di avvalersi degli artt. 7, 8, 9 e 10 del codice di procedura penale, relativi alla punibilità dei reati commessi all’estero dal cittadino italiano o dallo straniero, significa ritenere inesistente l’art. 6 del codice penale italiano.

Ne consegue che la Corte di Cassazione, per un verso, è venuta meno alla sua funzione nomofilattica e, per altro verso, ha assunto una indebita e abnorme funzione modificativa, anzi abrogativa, della legge penale. Interpretare l’art. 6 c.p. nel senso che occorre aver riguardo “non già al momento della commissione del fatto, ma a quello della repressione e quindi all’effettivo esercizio del potere giurisdizionale”, rappresenta un gravissimo e sorprendente errore, per tutte le ragioni prima esposte, commesso proprio da chi -la Corte di Cassazione- dovrebbe assicurare la esatta e uniforme interpretazione della legge senza confondere in modo così superficiale e irriflessivo, si ripete ancora una volta, esercizio della giurisdizione penale ed esecuzione in concreto del giudicato di condanna.
Gli stessi rilievi ora svolti valgono per la decisione resa dalla i Corte d’Assise di Appello di Roma il 15 aprile 2003, n. 26/03 (confermata dalla Corte di Cassazione) che, al di là di affermazioni inconferenti e integrative di palesi fuor d’opera (emblematico il rilievo secondo cui “il trascorrere degli anni” avrebbe fatto “venir meno il sentito problema della perdita del territorio già italiano”: è davvero atto di arroganza che una sentenza come tale resa in nome del Popolo italiano, pretenda di attribuire a questo valutazioni e sentimenti riferibili solo alla scarsa sensibilità di qualche giudice, con azzardate affermazioni estemporanee del tutto contrastanti con la realtà), svolge le medesime argomentazioni riprese, poi, dalla Corte di Cassazione e già prima ampiamente criticate. Argomentazioni che pretendono di fondarsi su precedenti giurisprudenziali dei giudici di legittimità, lontani nel tempo e, peraltro, inesattamente interpretati[29].

Anche la Corte d’Assise di Appello confonde tra esercizio della giurisdizione e realizzabilità in concreto della pretesa punitiva dello Stato cedente il territorio (sempre con riguardo ai delitti commessi sul territorio ceduto, prima della cessione).
Richiamando la autorevole dottrina prima citata del Quadri secondo il quale “la pretesa punitiva a titolo territoriale, per i fatti commessi nel territorio ceduto prima della cessione, è affare esclusivo dello Stato successore”, la sentenza dei giudici di appello aggiunge che tale principio, oltre che autorevolmente formulato, “deve ritenersi universale in quanto così affermato da tutte le trattazioni di diritto internazionale”: sarebbe interessante sapere su quali “trattazioni” i giudici di appello abbiano condotto i propri studi (se mai ne hanno condotti con riguardo al problema in esame). Ciò perchè nessuna trattazione di diritto internazionale contiene una affermazione del genere censurato che, peraltro, allorchè fa riferimento alla “pretesa punitiva a titolo territoriale” ha riguardo all’evidenza alla realizzazione in concreto della pretesa punitiva e non all’esercizio della giurisdizione penale. Tanto che l’autorevole ma solitaria dottrina citata allorchè parla di esecuzione della “condanna” tradisce, come si è detto, il riferimento logico solo al momento della realizzazione in concreto della pretesa punitiva dello Stato.

Va ancora segnalato, contrariamente al punto di vista espresso da quella autorevole dottrina, che l’art. 6 c.p. a proposito della locuzione in essa contenuta (“quando”) la riferisce esplicitamente al momento della commissione del fatto-reato. Dunque, è errato affermare che “l’art. 6 fa riferimento alla sovranità del tempo in cui l’interesse statale italiano alla repressione si manifesta”, onde “Il concetto di territorio italiano si riferisce, cioè, al momento della repressione non a quello della commissione del fatto illecito”[30].

Lascia francamente interdetti la ulteriore considerazione presente nella sentenza di appello, che vorrebbe essere “giuridica” ma non lo è e dovrebbe essere estranea allo svolgimento argomentativo di una sentenza, secondo cui il criterio della territorialità sarebbe giustificato dalla “possibilità che l’esplicazione di una attività delicata come quella repressiva si svolga in modo corrispondente per cui celebrare un processo magari contumaciale e senza esito perchè nessuna convenzione di estradizione potrà essere invocata equivale a uno sterile esercizio di attività giurisdizionali senza alcuna conseguenza per il condannato”.

A parte la misteriosità dell’affermazione secondo cui “nessuna convenzione di estradizione potrà essere invocata”, data la esistenza proprio per il caso di specie della Convenzione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957[31] (cui , poi, aderì la Croazia dopo il suo accesso all’indipendenza), bisogna pur dire che il pensiero dei giudici di appello sarebbe stato meglio e più sinteticamente espresso da Louis Maximilien de Robespierre: senza forca non c’è processo!
Il punto di vista qui sostenuto fu espresso in modo assolutamente chiaro nella Ordinanza del Tribunale di Roma in sede di riesame del 2 luglio 1996, n. 800: Così argomentando, infatti, si confonde l’esercizio della potestà punitiva -non più possibile sul territorio ceduto- con l’esercizio della giurisdizione, che non viene meno in quanto si fonda sull’applicabilità della legge penale italiana, per essere stato il reato commesso in territorio nazionale al tempo della sua consumazione.
Nessuna norma, infatti, ne’ di carattere interno ne’ di carattere internazionale, prevede che l’applicabilità della legge penale italiana, ai sensi dell’art. 6 c.p., sia soggetta a condizione risolutiva per il caso che il locus commissi delicti sia trasferito successivamente ad altro Stato.

9. A maggior chiarimento, va rilevato molto più semplicemente che, come fu osservato dalla Avvocatura Generale dello Stato[32], “dire il diritto” ed “applicare la sanzione” sono due aspetti così connessi a tutto il sistema giuridico e così diversi (basti pensare alla somma distinzione: accertamento e condanna, cognizione ed esecuzione, ecc.), che non è ragionevole pensare che il legislatore, proprio nel momento saliente della definizione dei criteri di applicazione del diritto penale italiano, abbia peccato di superficialità, omettendo di aggiungere “purchè territorio italiano sia anche quando si procede a carico del reo” o espressione analoga, o abbia inteso quell’ “è punito secondo la legge italiana” come se vi fosse aggiunto “purchè il territorio sia ancora dello Stato”. Così scarsa attenzione alla distinzione sarebbe stata dimostrata da quello stesso legislatore che, quando ha ritenuto di doversi riferire alla fase dell’esecuzione, all’esercizio effettivo dello jus puniendi, ho ha detto univocamente: a cos’altro si riferisce, infatti, la condizione della presenza del reo nello Stato (artt. 9 e 10 c.p.) cui è subordinata la sua punizione?

Sotto altro profilo, giova ribadire che la scelta legislativa di fondo, dunque, che emerge dal codice penale vigente non è quella della stretta territorialità della giurisdizione, poichè nei casi considerati e nel caso in oggetto la pretesa punitiva in concreto dello Stato si realizza attraverso lo strumento proprio dell’estradizione che, per quanto ora interessa, verrebbe privato di ogni significato in conseguenza della pretesa e sottintesa sostanziale inesistenza di tutte quelle disposizione del codice penale che prevedono condizioni e requisiti per la esercitabilità della giurisdizione penale nazionale italiana.

Venendo a taluni dei precedenti giurisprudenziali richiamati dalla Corte di legittimità, val la pena considerare che è quanto meno significativo che la decisione sulla quale fondamentalmente si basa la tesi contrastata, quella delle Sezioni Unite penali del 2 luglio 1949 (Schwend) concerneva un reato di rapina; che quella della ii Sezione del 15 febbraio 1950 (Albers) che ha ravvisato la sussistenza della giurisdizione italiana in quanto il reato di collaborazione militare con le Forze Armate tedesche è stato considerato reato contro la personalità dello Stato, si è limitata a richiamare, senza un rigo di commento, la precedente sentenza della Sezioni Unite; che quella delle Sezioni Unite penali del 23 febbraio 1963 (Belisari) concerneva un delitto di malversazione e che ha sostenuto il difetto di giurisdizione -si trattava in quel caso si stabilire se il giudice italiano potesse giudicare di una impugnazione proposta contro sentenza di un tribunale non più italiano- affermando l’inapplicabilità del principio del perpetuatio iurisdictionis; che, viceversa, quella delle Sezioni Unite del 17 giugno 1950 (Pellarin) aveva affermato l’esatto contrario; che, infine, quella delle Sezioni Unite penali del 24 novembre 1956 (Salomone) relativa ad un reato di bigamia, appare sentenza tutt’altro che di confine o marginale.

Si vuole dire, cioè, non solo che nessuna delle citate decisioni ha mai dovuto affrontare reati particolarmente gravi e disumani, ma, soprattutto, che la traccia giurisprudenziale che prende le mosse dalla sentenza del 1949 è tutt’altro che omogenea; tutt’altro che priva di contraddizioni; tutt’altro che esente da imprecisioni e lacune, di tal che non è mancato un diffuso dissenso in dottrina[33].

10. Un rilievo ulteriore e specifico va formulato a proposito della famosa sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite penali del 1949, resa nel caso Schwend, e a proposito di quelle altre pronunce che a questa si sono ispirate. Si tratta del problema intertemporale o di diritto transitorio.
Ammesso, infatti, per mera ipotesi, che quel principio di simultaneo passaggio della giurisdizione con la sovranità sia cogente o che, avendo dignità di norma generalmente riconosciuta, si sia verificata la sua automatica immissione nell’ordinamento italiano, non per ciò solo può dirsi che esso operi anche per i casi in cui la sovranità dello Stato sul territorio sia cessata dopo la commissione di un reato.
Quel principio infatti, dato per esistente, non può essere esteso a fattispecie di questo tipo in cui il momento di collegamento con l’ordinamento interno si era già realizzato quando sul territorio lo Stato aveva ancora sovranità, se è vero che il potere di jus dicere sorge per una condotta criminosa e da quando questa si realizza. Sono perciò puntuali le considerazioni imperniati su una domanda, non fatta, ma evidente: resterebbe allora impunito il reato, posto che lo Stato cessionario non aveva all’epoca della commissione, ne’ sovranità e ne’ giurisdizione sul territorio?

E’ evidente la petizione di principio contenuta nella sentenza Belisari (Sez.Un. pen. del 23.2.1963): per quanto concerne poi le norme del diritto positivo penale interno, è sufficiente ricordare l’art. 6 c.p. il quale, stabilendo che è punito secondo la legge penale italiana chiunque commetta un reato nel territorio dello Stato, pone in evidenza il concetto dell’intima connessione fra giurisdizione e territorio nazionale. E non varrebbe obiettare che proprio in base all’articolo 6 suddetto dovrebbe essere punito secondo la legge italiana chi si è reso autore di un reato in un territorio che, al momento del fatto, apparteneva all’Italia.

Invero l’art. 6 c.p. va considerato nella sua entità razionale, nel senso che il concetto di territorio italiano va riferito al momento della repressione, non a quello della commissione del fatto illecito e pertanto, perché si renda applicabile la legge italiana, occorre che il territorio in cui è stato commesso il reato sia attualmente sotto la sovranità dello Stato.

Al contrario, la sentenza, di segno opposto, del 24.11.1956 (Sez. Un. pen., Salomone), così rileva: Il Salomone, avendo commesso un fatto previsto come reato dalla legge italiana, in un territorio su cui, all’epoca del fatto medesimo, si espandeva sicuramente la potestà di imperio dello Stato italiano, deve ritenersi soggetto alle conseguenze punitive previste dall’ordinamento giuridico penale di quest’ultimo (art. 3 cod. pen).

Il problema investe il punto se un reato, già punibile incondizionatamente all’epoca della sua commissione, resti tale nel caso che il territorio su cui fu consumato diventi estero; in altri termini, se il locus commissi delicti possa continuare a ritenersi tale nei confronti dell’ordinamento giuridico penale, nonostante l’avvenuto mutamento di sovranità sul territorio in cui l’illecito venne commesso. Fissato il quesito nei termini anzidetti, le Sezioni Unite ritengono che ai fini della assoggettabilità alle norme punitive italiane, giusto il disposto ex art. 3 c.p., bisogna tener conto del rapporto di sovranità vigente sul territorio all’epoca della commissione del reato. Eventuali spostamenti territoriali, in seguito verificatesi, non impediscono che la pretesa punitiva statale, sorta nel momento stesso in cui l’illecito venne commesso si spieghi nel modo più ampio ed incondizionato.

11. Un aspetto precedentemente evocato merita una più approfondita considerazione. Ci si riferisce alla incondizionata perseguibilità dei delitti contro l’umanità, senza limiti di tempo ne’ di spazio (imprescrittibilità dei reati, universalità dello jus puniendi, inefficacia del principio nullum crimen sine praevia lege, ecc.)[34]. E’ preliminare a ciò valutare se i fatti di cui al procedimento penale concluso con la sentenza del 20 marzo 2004 della I Sezione penale della Corte di Cassazione possono considerarsi delitti che, per il modo come sono stati commessi, per l’assenza di accettabili giustificazioni (in senso tecnico di scriminanti) per le atrocità documentate, per la vastità e natura del disegno criminoso, per l’elevatissimo numero delle vittime, calcolabili in centinaia,se non in migliaia,abbiano natura appunto di delitti contro l’umanità oggi comunque e dovunque perseguibili; e non solo da oggi ma già con la lex Gabinia del 64 a.C. che consentì l’esercizio dell’imperium senza limiti spaziali o temporali nei confronti dei pirati cilicii.

Questi tipi di reato, caratterizzati come sono da una perseguibilità senza limiti e condizioni, non hanno bisogno di alcuna previsione espressa negli ordinamenti interni degli Stati, bastando che consti della loro natura: significative a tal proposito le norme di diritto internazionale, tutte ispirate alla perseguibilità incondizionata, talmente senza eccezione per gli Stati e le loro organizzazioni, da doversi riconoscere che qui effettivamente ci si trova di fronte ad uno jus cogens secondo la precisa definizione dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. Il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (New York, 16.12.1966, legge italiana di ratifica del 25.10.1977, n. 881) stabilisce all’art. 5, secondo comma, che “Nessuna restrizione o deroga a diritti fondamentali dell’uomo vigenti in qualsiasi Stato parte del presente Patto in virtù di leggi, convenzioni, regolamenti o consuetudini, può essere ammessa col pretesto che il presente Patto non li riconosce o li riconosce in minor misura”. A sua volta l’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma, 4.11.1950, legge italiana di ratifica del 4.8.1955, n. 848) afferma che “Nessuno può essere condannato per un’azione od omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo la legge nazionale o internazionale. Parimenti non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato”; mentre, sintomaticamente, il secondo comma afferma che “Il presente articolo non vieterà il giudizio o la punizione di una persona colpevole di una azione od omissione che, al momento in cui è stata commessa, era ritenuta crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”. Tale norma è espressamente ribadita dall’art. 15 dell’atto internazionale di New York del 1977 succitato, che a sua volta così si esprime: “Nessuno può essere condannato per azioni od omissioni che, al momento in cui venivano commesse, non costituivano reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Così pure, non può essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso. Se posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne”.
Anche in questo caso il secondo comma contiene una riserva: “Nulla nel presente articolo preclude il deferimento a giudizio e la condanna di qualsiasi individuo per atti od omissioni che, al momento in cui furono commessi, costituivano reati secondo i principi generali del diritto riconosciuti dalla comunità delle Nazioni”.

La conseguenza che se ne trae è che non esiste per questo tipo di reati il divieto della retroattività fondato sul canone del nullum crimen sine praevia lege riferito alla necessità di una previsione da parte dell’ordinamento statale della fattispecie penale, poiché i reati contro il genere umano sono tali da sempre. Da questo punto di vista si può anzi dire addirittura che il concetto della retroattività non tanto è mal posto, quanto che il principio non è violato, perché da sempre lo jus gentium, il diritto internazionale, previde e punì quelle condotte.

Lo sviluppo del diritto internazionale e nazionale degli ultimi decenni evidenzia, d’altronde, la tendenza a privilegiare la esigenza di repressione dei crimini contro l’umanità[35].
Il rilievo necessita, per esser valutato appieno, di un riscontro più completo che faccia riferimento alla connessione fra “controllo” del territorio ed esercizio della giurisdizione, per la quale l’orientamento consolidato conferma il superamento di tale legame quando il crimine internazionale commesso sia tale da violare lo jus cogens.

In proposito, è significativo che la norma internazionale “penale” che impone agli Stati il perseguimento dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità è norma sempre esistita -come si è detto- nella coscienza giuridica collettiva degli Stati[36].

A conferma di quanto ora esposto, è utile riportare quanto si legge nella sentenza n. 322 del 22 luglio 1997 del Tribunale militare di Roma resa nel processo a carico di Erich Priebke e Karl Hass: Deve constatarsi, così come risulta dalla Convenzione adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite con risoluzione 2391 (xxiii) del 26 novembre 1968, che in nessuna delle dichiarazioni solenni, atti e convenzioni volte a perseguire e a reprimere i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità sono stati previsti limiti di tempo e va altresì rilevato come nella medesima Convenzione si sia voluto affermare in diritto internazionale il principio dell’imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità, e di assicurarne l’applicazione universale.

L’art. 6, comma 2, lett. b) e c), dello Statuto del Tribunale militare internazionale per la punizione dei grandi criminali di guerra delle Potenze dell’Asse definiva crimini di guerra e crimini contro l’umanità, tra gli altri, l’omicidio volontario e ogni altro atto disumano commesso ai danni di una qualsiasi popolazione civile, prima o durante la guerra…. con la risoluzione n. 94 (i) dell’11 dicembre 1946 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite confermava formalmente i principi di diritto internazionale riconosciuti dallo Statuto del Tribunale di Norimberga e dalla sentenza di detto Tribunale; infine, nel giugno – luglio 1950 la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite adottava il testo dei “Principi di diritto internazionale riconosciuti dallo Statuto e dalla Sentenza del Tribunale di Norimberga” recependo, al Principio vi, le suindicate ipotesi di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità.

Tale essendo la regolamentazione di diritto internazionale, deve d’altra parte escludersi che nel caso di specie essa non possa comunque operare nel diritto interno in ragione dell’inammissibile retroattività di una norma che comporterebbe una sanzione penale.
E’ evidente che il costante processo di universalizzazione del diritto penale, fuori da ogni angusto criterio di territorialità, trova conferma nelle univoche evoluzioni dei pertinenti principi di diritto internazionale che hanno trovato riscontro nei ricordati, rilevanti e significativi precedenti giurisprudenziali[37].

Consegue ancor più l’evidente errore in cui è incorsa la Corte di legittimità italiana la quale, sotto diverso profilo, ha svolto argomentazioni non soltanto erronee ma anche inconferenti.
Le norme di jus cogens prima richiamate sono automaticamente operative nell’ordinamento giuridico italiano per effetto di quel “trasformatore permanente” rappresentato dall’art. 10 della Costituzione; e, per la loro natura confermata dai dati della prassi e dai precedenti giurisprudenziali internazionali, già presenti nell’ordinamento giuridico italiano ancor prima della entrata in vigore della Costituzione.
E i fatti genocidiali e i crimini contro l’umanità costituivano e costituiscono oggetto di corrispondenti norme di jus cogens già prima dell’entrata in vigore della Convenzione internazionale per la repressione del genocidio[38].

12. In conclusione, il testo dell’art. 6 c.p. (“chiunque commette un reato nel territorio dello Stato….”) non sembra lasciare margini a dubbi in ordine alla rilevanza ai fini della punibilità della pura e semplice appartenenza al territorio statuale del luogo del reato: è cioè il solo fatto della commissione nel territorio statuale che determina la punibilità, senza che sia lecito introdurre altri elementi di collegamento col territorio stesso, diversi da quello costituito dal locus commissi delicti.
In altri termini, la dizione della norma suggerisce immediatamente una lettura nel senso del significato decisivo della commissione del reato e del suo momento ai fini della punibilità, posto che ogni azione, come quella espressa dal verbo “commettere”, si caratterizza non solo per la sua collocazione spaziale ma, ineliminabilmente, anche per quella temporale.
Il dato testuale sembra, del resto, coerente espressione di consolidate e ricordate concezioni penalistiche e internazionalistiche.

Si deve, dunque, affermare che la ragione per cui il legislatore sanziona penalmente un certo comportamento risiede nell’offesa che esso arreca ad interessi collettivi di particolare rilievo e nel connesso allarme sociale che esso suscita: il comportamento, cioè, in quanto causa di offesa e allarme, deve essere sanzionato penalmente una volta che sia stato posto in essere (e conseguentemente si siano verificati offesa ed allarme), ed è ineludibile la sua persecuzione penale in quanto si sono realizzati tutti i presupposti per l’operatività della norma incriminatrice.
In tale ottica appare del tutto irrilevante il fatto che il locus commissi delicti, successivamente sia divenuto territorio estero, in quanto il comportamento è già stato realizzato, l’offesa agli interessi collettivi è già stata portata, l’allarme sociale si è già verificato: in altre parole, gli interessi tutelati ne sono rimasti già interamente lesi e tanto basta per l’operatività della sanzione e quindi per l’attivazione dell’attività statuale volta alla sua applicazione, vale a dire l’esercizio della giurisdizione.
Appare in definitiva incoerente con la ratio della politica incriminatrice e della persecuzione penale affidarne la realizzazione ad un elemento estemporaneo e temporalmente casuale quale è il momento di attivazione del processo, in relazione alla possibilità, verificatasi nella specie, che in quel momento il locus commissi delicti non apparteneva più al territorio dello Stato e, dunque, alla sua sovranità.

* Professore Ordinario di Diritto dell’Unione europea nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma.
[1] Si vedano, in proposito, Migliazza, L’occupazione bellica, Milano, 1949, e Capotorti, L’occupazione nel diritto di guerra, Napoli, 1949 (e bibliografie citate dagli AA.).
[2] Si indicano i diversi provvedimenti di clemenza succedutisi nel tempo: r.d. 5 aprile 1944, n. 96 (c.d. amnistia Togliatti); d.p.r. 19 dicembre 1953, n. 922; d.p.r. 11 luglio 1959, n. 460; d.p.r. 4 giugno 1966, n. 332.
[3] Per un utile inquadramento generale, cfr. Pannain, Nozione di reato commesso nel territorio dello Stato, in Riv. it. dir. pen., 1935, p. 203 ss.
[4] In senso critico, rispetto alle riportate pronunce giurisprudenziali, si veda l’importante studio di Trapani, Legge penale, ii, Limiti spaziali, “Voce” dell’Enciclopedia Giuridica Treccani, 1990, xviii, i ss. (e bibliografia ivi citata).
Si veda anche, in epoca ormai remota, Miglioli, Carenza di giurisdizione dello Stato e difetto di procedibilità, in Foro it., 1953, ii, 177.
[5] Curiosamente il Presidente del Tribunale, in sede di riesame, era lo stesso che poi presiedette la I Sezione penale della Corte di Cassazione che, con la ricordata sentenza, dichiarò cessata (per le indicate ragioni) la giurisdizione penale italiana. Quando si dice la certezza del diritto!….
[6] Cfr., in argomento, Sinagra, I fatti, la legge, la giustizia, in Ballarini, Micich, Sinagra, La rivoluzione mancata. Terrore e cospirazione del partito comunista in Italia dalle stragi del 1945 alla abiura di Tito del 1948, Koinè, Roma, 2006, p. 117 ss.
[7] Cfr., sul punto, Carbone, Legge della bandiera e ordinamento italiano, Milano, 1970. Già prima e con riguardo agli aspetti e alla disciplina internazionalistica, si era pronunciato R. Quadri con la sua fondamentale monografia, Le navi private nel diritto internazionale, Milano, 1939, soprattutto p. 40 ss., a proposito della nazionalità della nave; e poi con il suo insuperabile e insuperato Manuale di Diritto internazionale pubblico, Napoli, 1968. Affrontando il problema del regime della nave nella duplice ipotesi della sua presenza in acque internazionali o in acque territoriali di uno Stato diverso da quello della bandiera della nave, l’illustre Autore espone, con la sua consueta e straordinaria capacità argomentativa, una tesi che francamente non appare coincidente con quella poi esposta nella nota alla sentenza Schewend (di cui si dirà specificamente in prosieguo), a proposito delle condizioni e dei limiti spaziali e temporali di legittimo esercizio e svolgimento della giurisdizione penale dello Stato. L’illustre Autore considera la nave “non già come oggetto, ma come comunità” e con riguardo a tale prospettazione della nave intesa come “comunità viaggiante”, il comune Maestro non esita ad evidenziare come questa ricada “sotto il controllo esclusivo dello Stato della bandiera”. E a tale riguardo l’illustre Autore giustamente segnala come tale sua prospettazione abbia ottenuto “il suffragio di tutta la dottrina”. Egli sottolinea il “diritto esclusivo dello Stato della bandiera” come “necessario all’ordine della comunità navale, affidata al potere, ma anche alla responsabilità di un solo Stato”. Premesso che l’incondizionato potere dello Stato della bandiera sulle navi militari o sulle navi svolgenti una funzione pubblica dello Stato della bandiera, non trova né difficoltà esplicative e né opinioni dissonanti nella dottrina e nella giurisprudenza internazionale, l’illustre studioso afferma tale incondizionato potere anche con riguardo alle cosiddette navi private indipendentemente, per altro, dal soggetto titolare del relativo diritto, se cioè ancora lo Stato o, diversamente, un qualsiasi privato.
E’ evidente che l’incondizionato potere dello Stato della bandiera ricomprende anche e soprattutto, come non manca di rilevare il Quadri, anche l’esercizio della giurisdizione penale negli ambiti spaziali della nave (e cioè entro il cosiddetto “bordo”) nei confronti di tutti i soggetti costituenti quella che efficacemente viene definita come “comunità viaggiante”. Ad analoghe conclusioni l’illustre Autore giunge anche con riguardo alle navi private presenti in acque territoriali di uno Stato terzo o anche ormeggiate nel porto di uno Stato terzo, approfondendo il profilo della cosiddetta “potestà navale” e “potestà territoriale”. Specificamente, l’illustre Autore osserva al riguardo che addirittura lo Stato della bandiera, pur in acque territoriali straniere, “può custodire detenuti a bordo … anche in porti stranieri senza con ciò commettere violazioni della sovranità locale” territoriale; “che alcuni Stati riguardano i fatti non solo degli equipaggi, ma anche dei passeggeri e visitatori a bordo di proprie navi privati in porti stranieri come fatti commessi sul proprio territorio”; “che, in base ad una norma del diritto internazionale generale, è consentito ai Consoli di esplicare attività di polizia giudiziaria a bordo delle loro navi nazionali”; infine “che i vari obblighi che si connettono all’esercizio della sovranità territoriale sono imposti allo Stato della bandiera e non allo Stato costiero”. Conclude il comune Maestro nel senso (pp. 745 e 746 del Manuale Diritto internazionale pubblico, cit.) “dell’esclusività del potere dello Stato della bandiera sulle navi in passaggio per le acque territoriali straniere”. Ovviamente, ancor più per le navi in navigazione in acque internazionali. E per la prima ipotesi limitando la potestà dello Stato della costa in materia penale “solo in ordine ai fatti che abbiano effettivamente turbato la pace del porto” e, più in generale l’ “ordine sociale e territoriale”.
[8] Cfr., sul punto, Vassalli, I crimini di guerra, in La giustizia internazionale penale, Milano, 1995, p. 87 ss.; id. I delitti contro l’umanità e il problema della loro punizione, in La giustizia internazionale penale, Milano, 1995, p. 9 ss. In precedenza, e in generale, cfr. Sperduti, Crimini internazionali, “Voce” dell’Enc. dir., xi, p. 339 ss.
[9] Cfr., in proposito, Ronzitti, Genocidio, “Voce” dell’Enc. dir., xviii, p. 578 ss. (e Autori ivi citati).
[10] Corte Suprema di Israele, sentenza del 29 maggio 1962, in International Law Reports, 36, 1968,specificamente, p. 303 – 304.
[11] In Rivista di diritto internazionale, 1995, p. 707 ss.
[12] In questo senso, tra l’unanime dottrina in argomento, si veda per tutti Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, a cura di Conti, Milano, 1995, p. 46 ss., oltre che p. 104 ss.
[13] Salomone, in Giust. pen., 1957, ii, 795, e in Foro it., 1957, ii, 108: Il problema si sposta ed investe il punto se un reato, già punibile incondizionatamente all’epoca della sua commissione, resti tale nel caso che il territorio, su cui fu consumato, diventi estero, in altri termini se il locus commissi delicti possa continuare a ritenersi tale nei confronti dell’ordinamento giuridico penale, nonostante l’avvenuto mutamento di sovranità sul territorio in cui l’illecito venne commesso.
Fissato il quesito nei termini anzidetti, le Sezioni Unite ritengono che, ai fini dell’assoggettabilità alle norme punitive italiane giusta il disposto ex art. 3 cod. pen., bisogna tener conto del rapporto di sovranità vigente sul territorio all’epoca della commissione del reato.
Eventuali spostamenti territoriali, in seguito verificatisi, non impediscono che la pretesa punitiva statale, sorta nel momento stesso in cui l’illecito venne commesso, si spieghi nel modo più ampio e incondizionato.
Tale principio non può essere confutato per il fatto che la sentenza in cui viene enunciato sarebbe di confine per l’epoca, la specie e le peculiarità che avevano contraddistinto le vicissitudini territoriali di quegli anni e per di più ricondotta ad un parametro normativo, quale è quello delineato dall’art. 3, c.p., concettualmente non del tutto sovrapponibile alla disciplina dettata dall’art. 6 c.p.
Quanto al primo ordine argomentativo sarà sufficiente rilevarne la ovvietà, posto che ogni sentenza è datata e attiene a un caso particolare, e la assoluta inidoneità a sminuire la portata generale del chiaro principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione.
Sopravvalutare, poi, il richiamo all’art. 3, c.p., invece che all’art. 6 c.p., significa, da un lato, non cogliere la sostanza del problema che, in termini estremamente chiari, le Sezioni Unite pongono e risolvono e, dall’altro, non valutare che il richiamo quale effettuato è semplicemente funzionale alla soluzione di quel problema.
[14] Cass. Sez. Un. pen. 2 luglio 1949 (Schwend); ii Sez. pen. 15 febbraio 1950 (Albers); Sez. Un. pen. 23 febbraio 1963 (Belisari); Sez. Un.pen. 17 giugno 1950 (Pelarin).
[15] Nella pressocchè unanime dottrina in argomento, si vedano soprattutto, tra i tanti, Morelli, Trasferimenti di territorio e giurisdizione penale, in Giust. pen., iii, 98-112; Cansacchi, Cessione di territorio e giurisdizione penale, in Arch. pen., 1949, II, 529 ss.; Santoro, Legge penale italiana, giurisdizione e cessione di parti del territorio nazionale in Foro it., 1950, ii, 74 ss.: tutti drasticamente critici nei confronti della sentenza Schwend (Cass. Sez. Un.pen. del 2 luglio 1949, in Foro it.,1950, ii, 74).
[16] Per utili riflessioni, cfr. Ziccardi, Intorno ai limiti della legge e della giurisdizione penale italiana, in Riv. it. dir. pen, 1950, p. 462 ss., il quale tiene rigorosamente distinti i limiti della legge dai limiti della giurisdizione; oltre che la sovranità internazionale dello Stato dalla sovranità del medesimo definita alla stregua del proprio ordinamento interno.
[17] Morelli, Trasferimenti di territorio, cit., p. 97 ss. (in nota alla sentenza delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione, del 2 luglio 1949 – ric. Schwend in Giust. pen., parte iii, pp. 98-112).
[18] Con specifico riguardo a tali ipotesi, cfr. Caraccioli, L’incriminazione da parte dello Stato straniero dei delitti commessi all’estero e il principio di stretta legalità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1962, p. 973 ss. (e bibliografia ivi citata).
[19] Si vedano, in generale,in argomento, Dalia-Pierro, Giurisdizione penale, in Enciclopedia Giuridica Treccani, p. 1 ss. (e bibliografia citata), e Cristiani, Legge processuale penale, in Enciclopedia Giuridica Treccani, p. 7 ss. (e bibliografia citata).
[20] Si vedano, sul punto, specificamente, le importanti considerazioni di Santoro, Giurisdizione penale, in Noviss. Dig.it., vii, Torino, 1961, p. 1067 ss. (e bibliografia ivi citata).
[21] Da ultimo, in letteratura, conformemente al nostro punto di vista, cfr. Dell’Isola, Cessioni di sovranità territoriale ed esercizio della giurisdizione penale italiana, in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, n. 30, 2008, p. 179 ss. (e bibliografia ivi citata).
[22] Al riguardo, si vedano Levi, Diritto penale internazionale, Milano, 1949; Dean, Norma penale e territorio, Milano, 1963; Pagliaro, Legge penale. b) Legge penale nello spazio, in Enc. Giuridica Treccani, xxiii, 1973, 1054 ss.; Frosali, Territorialità della legge penale, in Noviss. Dig.it., xix, Torino, 1973; Mantovani, Diritto penale, Parte generale, ii ed., Padova, 1988, in particolare p. 872 ss. (e bibliografia citata da tali Autori). Di Pagliaro si veda anche Principi di diritto penale, Parte generale, iii ed., Milano, 1987, p. 146 ss.
[23] Esattamente nei termini riportati si esprime Morelli, Trasferimenti di territorio, cit., p. 97 ss.
[24] Per la generale problematica relativa al locus commissi delicti, cfr., in generale, Siniscalco, Locus commissi delicti, in Enc. dir., xxiv, 1974, 1051 ss. (e bibliografia ivi citata).
[25] In questo senso, Quadri, Sulla punibilità in Italia dei delitti commessi nei territori ceduti, in Studi critici di diritto internazionale, 1, Diritto internazionale privato, vol. i, Napoli, 1958, p. 425 ss.. Non a caso l’illustre Autore intitola il suo studio sulla punibilità e non alla giurisdizione).
[26] La sentenza Zeiner, Cass. Sez. Un. pen., del 27 maggio 1961, la si veda in Foro it., Rep. 1962, “voce” competenza penale, n. 27, oltre che in Cass. pen. Mass. amm., 1962, 66, n. 97; la sentenza Belisari del 23 febbraio 1963, la si veda in Foro it, Rep. 1964, ii, 310, “voce” competenza penale.
[27] Oltre a Morelli, Trasferimenti di territorio, cit., p. 97 ss., giova riportare le chiare riflessioni di Cansacchi, Cessioni di territorio, cit., p. 527: “… la sovranità territoriale dello Stato non coincide con la sua potestà di imperio (altrimenti detta sovranità personale), ragion per cui la soluzione del problema deve fondarsi sul piano del diritto positivo, e precisamente sulla base dell’art. 6 c.p., alla stregua del quale il territorio dello Stato italiano viene in considerazione solo nel tempo in cui il reato è commesso (corsivo nostro).
Per parte sua, Santoro, in Foro it., 1950, lxxiii, ii, p. 76, a proposito della sentenza Schwend del 1949, osserva che “la impossibilità di compiere atti di coercizione (esercizio del ‘jus gladii’) sul territorio avulso non implica necessariamente la cessazione del potere giurisdizionale relativamente ai reati commessi in periodo anteriore al trasferimento territoriale” perchè, “gli atti di coercizione (arresto, notificazione di atti processuali, ecc.), se impossibili sul territorio avulso, non determinano carenza di giurisdizione poichè la giurisdizione si fonda sull’applicabilità della legge penale italiana, per essere stato il reato commesso in territorio nazionale al tempo della sua consumazione, e discende da essa”. Dello stesso A. si vedano le sue riflessioni in Legge penale italiana, cit., in Giur. pen., 1949, ii, p. 74 ss. Nel senso da noi sostenuto e contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Cassazione, si veda anche Maltese, Eccidi delle Foibe e crimini contro l’umanità (nota a Cass., Sez. i pen., sentenza del 22 aprile 1998), in Foro it., p. ii, n. 10, ottobre 1998.
[28] Nota a sentenza Cass. Sez. Un. pen. del 2 luglio 1949 (Schwend), in Giur. Compl. C. Cass., 1949, 1306, n. 1158.
[29] Oltre alle sentenze citate nella sentenza dalla Corte di Cassazione ora in esame, e prima indicate, si fa riferimento alla sentenza del 10 ottobre 1953, Cass. Sez. iii pen. (Pilolli); del 27 maggio 1961, n. 2, delle Sezioni Unite pen. (Zeiner); del 23 febbraio 1963, n. 2, delle Sezioni Unite pen. (Belisari), del 3 novembre 1954, Sez. i pen. (Soppelsa), quest’ultima in Giust. pen., 1956, 117 ss.
[30] Così Quadri, nota a sentenza delle Sezioni Unite pen. della Corte di Cassazione, n. 2 del 2 luglio 1949 (Schwend), cit., in Giur. Compl. C. Cass., 1949, 1306, n. 1160.
[31] Entrata in vigore per l’Italia il 4 novembre 1963 (legge di ratifica del 30 gennaio 1963, n. 300).
[32] Memoria del 5 gennaio 1998 del Vice Avvocato Generale dello Stato Paolo Di Tarsia di Belmonte (presentata nell’ambito del procedimento penale poi conclusosi con la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. i pen., del 20 marzo 2004, n. 175).
[33] Al contrario, vanno ricordate sentenze di segno contrario e confermative del punto di vista qui da noi sostenuto: così, ad esempio, Cass., Sez. I pen., del 27 marzo 1963, n. 754 (in Riv. dir. internaz., 1964: “Il concetto di sovranità va riferito al singolo Stato. Se è vero, infatti, che per lo Stato successore sia il territorio che la popolazione che vi insiste si inseriscono nel nuovo gruppo come se ne avessero fatto sempre parte integrante, è altrettanto vero che lo Stato cedente non può riconoscere alla perdita della sovranità effetto retroattivo, con il conseguente ripudio dei valori morali e civili dei quali è stato promotore. La cessione territoriale, pertanto, in quanto rinuncia politica, incide sulla sovranità con effetto ex nunc” (tale sentenza è cronologicamente l’ultima in argomento, prima di quella -qui censurata- del 20 marzo 2004, n. 175 (Cass., Sez. i pen.).
[34] Si veda, in proposito, Vassalli, I delitti contro l’umanità e il problema della loro punizione, in La giustizia internazionale penale, Milano, 1995, p. 9 ss.; id., La definizione dei delitti contro l’umanità, in La giustizia internazionale penale, Milano, 1994, p. 61 ss.
[35] Cfr., in generale, Sperduti, Crimini internazionali, “Voce” in Enc. dir., xi, p. 339 ss. (e bibliografia ivi citata).
[36] Si vedano, al riguardo, gli scritti di Vassalli, I crimini di guerra, in La giustizia internazionale penale, Milano, 1995, p. 87 ss.; Nunziata, Il Tribunale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia. Un modello per una generale giurisdizione internazionale penale, in Giust. pen., 1995, iii, 232 ss. (e bibliografia ivi citata).
[37] Ai quali va aggiunta l’Ordinanza del 6 maggio 1994 del giudice istruttore del Tribunale di Grande Istanza di Parigi (in Rivista di diritto internazionale, 1995, p. 707 ss.), con la quale si è affermata la perseguibilità di analoghi delitti contro l’umanità commessi nella ex Jugoslavia da soggetti non presenti sul territorio francese; e ciò indipendentemente da ogni atto politico di autorizzazione o di richiesta da parte del Ministro della Giustizia.
[38] Senza di che nessuna base giuridica potrebbe rinvenirsi per l’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945, che approva lo Statuto e istituisce il Tribunale di Norimberga. La Convenzione sulla repressione del genocidio è stata ratificata in Italia con legge dell’11 marzo 1952, n. 153: si veda, al riguardo, Ronzitti, Genocidio, cit., p. 578 ss.