Scritto da FederEsuli, 09/02/15
lunedì 09 febbraio 2015
A settanta anni dall’eccidio nelle malghe di Porzus (7 febbraio 1945) la documentazione storica consente di misurare l’orrore di quella strage di partigiani italiani da parte di altri partigiani italiani. É poco noto, quando si parla di Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, il contributo della Resistenza italiana nella Venezia Giulia alla guerra di liberazione.
Quell’evento del 7 febbraio 1945 è la chiave di comprensione dell’intera tragedia del confine orientale al termine della seconda guerra mondiale e del silenzio con cui si volle nasconderla. Se nel resto d’Italia la Resistenza aveva uno scopo comune: liberare l’Italia dall’occupazione nazista e dal suo disperato alleato, la RSI, nella Venezia Giulia si scontravano due obiettivi. Da un lato chi combatteva il tedesco per assicurare protezione alle popolazioni italiane della regione, rispettando quelle che sarebbero state le decisioni finali nella definizione di quel tormentato confine. Dall’altro c’era chi, obbedendo – purtroppo – agli ordini arrivati dal PCI di Roma, era costretto a lottare per strappare all’Italia l’intera regione, nel quadro di una strategia sovietica di conquista territoriale. Non solo quindi le aree abitate da sloveni e croati (un terzo della popolazione, di cui non tutti anelavano all’instaurazione di un regime comunista), ma anche le aree costiere e cittadine abitate da secoli da italiani autoctoni.
Gli stessi comunisti giuliani si trovarono così di fronte a una scelta angosciosa: obbedire al partito o al loro cuore di italiani. Quelle formazioni, come le Brigate Osoppo, che non volevano cedere alla pretese iugoslave, furono considerate nemici mortali, più dei nazi-fascisti, sotto il pretesto strumentale di collusione con essi, fino ad ordinarne lo sterminio. Le altre formazioni partigiane italiane dell’Istria furono smembrate e allontanate dal territorio conteso. La Brigata Triestina fu disarmata il giorno dopo aver liberato Trieste. I CLN giuliani furono così privati di ogni supporto militare e fu facile per Tito sottoporre l’intera regione, fin oltre l’Isonzo, ad una “liberazione coatta”, di cui gli italiani pagarono le conseguenze. I morti di Porzus furono la primizia dei massacri delle Foibe.