L’età contemporanea

L’età contemporanea: dall’impero napoleonico alla seconda guerra mondiale (1797 – 1947)

Scritto da Lucio Toth
«Staccate il primo di luglio le venete bandiere nella cittadella e nella piazza delle Erbe in Zara, venivano portate sopra due bacili da due capitani con accompagnamento di due schiere di militi, e a tamburo battente, alla piazza dei Signori, ov’erano attese da tutta la milizia veneta, che ancora vi si trovava. Presentate al sergente generale Antonio Stratico, questi tenne un affettuoso discorso sul doloroso motivo che quel giorno li convocava, e consegnandole ai colonnelli…furono portate in processione lungo la via Longa, fra il fragore dell’artiglieria, fino alla cattedrale e deposte sull’altar maggiore. Dopo il Te Deum e la orazione pel nuovo imperatore, lo Stratico, avanzatosi all’altar, baciava con fervore quelle bandiere lagrimando di commozione e l’esempio era seguito dagli altri ufficiali… e da numero immenso di popolo, tanto che esse n’erano veramente bagnate, esempio non che mirabile, unico di affettuosa sudditanza». Così narra Samuele Romanin nella «Storia documentata di Venezia » del 1854. La data è il 1° luglio del 1797.
«Il 28 marzo 1810 fu tolta da tutta la Dalmazia la bandiera italiana (bianco-rosso-verde) e sostituita dalla tricolore francese». Così Tullio Erder in «Storia della Dalmazia dal 1797 al 1814”.
Due date che segnano due passaggi essenziali nella storia della Dalmazia contemporanea: il trattato di Campoformio del 1797, con il quale Bonaparte smembra la Repubblica di San Marco e consegna agli Asburgo il Veneto, il Friuli, l’Istria e al Dalmazia, e il trattato di Schönbrunn del 14 ottobre 1809, che istituisce le Province Illiriche, con capitale Lubiana.
Napoleone infatti assegnò l’Istria e la Dalmazia prima al Regno d’Italia (trattato di Presburgo del 26 dicembre 1805) con capitale Milano. “Dalmati! L’Imperatore Napoleone, Re d’Italia, vostro Re, vi rende alla vostra Patria… Egli ha riuniti i popoli d’Italia come membri di una sola famiglia…” Così iniziava, con la tipica retorica dei tempi nuovi, il proclama del generale Dumas del 19 febbraio 1806. Poi alle Province Illiriche, brillante costruzione illuminista che riuniva regioni diversissime: la Carniola, la Carinzia, la Croazia, l’Istria, il Litorale dall’Isonzo a Trieste, Fiume e la Dalmazia. L’assembramento non funzionò gran che e la Dalmazia napoleonica continuò a governarsi come prima sotto la protezione del maresciallo Marmont, “duca di Ragusa”.
Cominciarono allora i contrasti etnici tra italiani e croati e una prima presa di coscienza della loro diversità. Era l’idea di “nazione” portata dalle armate rivoluzionarie che stava ponendo le premesse del futuro conflitto che segnerà tutta l’età contemporanea. Ad approfittare di questo lievito fu paradossalmente proprio l’impero austriaco e i suoi generali croati che, giocando sulla nostalgia di Venezia e insieme sui violenti atteggiamenti anticattolici e anticlericali del governo napoleonico, aizzarono contro i francesi una parte del patriziato cittadino, ma soprattutto le campagne influenzate dal clero croato. I reggimenti dalmati venivano invitati a disertare per unirsi ai loro “fratelli” croati delle armate austriache.
Argomenti che sotto il dominio veneto non avrebbero avuto alcuna presa si rivelarono invece premianti. Come i reggimenti italiani inviati da Napoleone in Spagna si liquefacevano di fronte alla propaganda sanfedista dei ribelli realisti, così molti reggimenti dalmati, che combattevano con le stesse uniformi e sotto le insegne bianco-rosso-verdi dell’armata italiana, si disfecero sia nelle campagne contro l’Austria in Dalmazia sia durante la campagna di Russia. Solo il reggimento “Real Dalmata” si mantenne fedele fino alla fine meritando menzioni ed onori e un posto nelle bacheche del Musèe des Invalides, sulle rive della Senna. Se leggiamo i nomi dei suoi ufficiali e dei suoi graduati scopriamo che sono quasi tutti nomi di italiani della Dalmazia e dell’Istria e di veneto-greci delle Isole Ionie.
Si profila così una situazione tutta “moderna”, confermata dalle cronache della lunga guerra che si combatté sulle coste dalmate durante il blocco inglese al continente controllato da Napoleone, che contrapponeva sul campo ed in mare i franco-italiani da un lato agli austro-russo-inglesi dall’altro.
Vinte le prime resistenze alla scomparsa della Serenissima, una parte dei ceti dirigenti cittadini si allineò su posizioni filo-austriache sia per convincimenti religiosi, sia per motivi di ordine economico e sociale di avversione al nuovo corso borghese. Filo-austriache finirono per diventare le popolazioni rurali croate; filo-russe quelle serbe e montenegrine. Un’altra parte cospicua della nobiltà cittadina e gran parte dei ceti popolari e borghesi delle città dalmate si sentirono solidali con le nuove idee della rivoluzione ed appoggiarono con convinzione le innovazioni introdotte con molto equilibrio dal provveditore generale veneziano Vincenzo Dandolo. E’ così che si spiega la fedeltà del reggimento ora nominato, come la fedeltà al governo napoleonico dei consigli comunali e dei podestà, nonché delle varie Guardie nazionali che si erano costituite nelle città, sul modello di quelle francesi e italiane. Sintomatico fu il comportamento degli zaratini durante l’assedio austro-inglese del 1813, quando si tennero saldamente al fianco delle truppe francesi e italiane che difendevano la città contribuendo efficacemente a reprimere un ammutinamento di soldati croati, che furono disarmati e accompagnati fuori della cinta fortificata per evitare di dover sfamare bocche inutili.
Era chiaramente l’inizio di quella contrapposizione che percorse tutto l’Ottocento: da un lato un fronte croato che, partendo dalle campagne e con il sostegno del clero, acquista sempre maggior coscienza nazionale, guadagna una parte della nascente borghesia croata di Ragusa e di Spalato e vede generalmente nell’Austria la sua alleata per scalzare l’egemonia culturale ed economica dell’elemento italiano; dall’altro un fronte liberale, nel quale si organizzano gli italiani delle città , più sensibili alle idee occidentali e ai progetti di unificazione degli stati italiani in un’unica realtà politica . Questo fronte verrà ad assumere inevitabilmente un carattere anti-austriaco oltre che apertamente anti-croato.
In questo quadro evolutivo – ovviamente non omogeneo – trova spiegazione il rapido sorgere in Dalmazia durante la Restaurazione delle società segrete di tipo carbonaro, come la misteriosa sigla dei “Greci del Silenzio”, la Società Esperia, la “Setta dei Guelfi”. L’impronta nazionale italiana del secondo nome non ha bisogno di commenti. La prima società è chiaramente collegata con le aspirazioni d’indipendenza del popolo greco, portate avanti proprio dagli ambienti dei patrioti veneziani e corfioti. Si pensi a Ugo Foscolo, nato a Zante ed educato a Spalato, e alla sua amicizia politica con i poeti greci Calvos e Solomòs. “Logge” di queste società segrete erano sorte nelle città dalmate in collegamento con il resto d’Europa, con il Lombardo-Veneto e con il Regno delle Due Sicilie. Ad esse non doveva essere estranea l’influenza massonica, come non mancavano di denunciare nelle relazioni che si scambiavano – ovviamente in italiano – le polizie austriache e quelle borboniche.
E’ il caso di osservare che fino al 1860 l’italiano continuò ad essere la lingua ufficiale della Dalmazia, della sua Dieta, dei suoi tribunali, dei suoi uffici pubblici. L’atteggiamento del governo austriaco fino a quell’epoca fu infatti ispirato ad un certo rispetto per la supremazia italiana nella regione, preoccupato di non smuovere equilibri consolidati e di non spingere apertamente gli italiani verso la causa liberale unitaria. Il patriziato dalmato ebbe il suo spazio nell’amministrazione, nella marina e nella giustizia, così in Dalmazia come nelle altre province italofone dell’impero (dalla Lombardia al Trentino, all’Istria), a Vienna e nelle missioni diplomatiche all’estero. Del resto l’Austria faceva leva sulla radicata presenza dei suoi sudditi italiani in tutto il Levante mediterraneo, da Smirne ad Alessandria d’Egitto (veneziani, triestini, istriani). E su di loro impostò la sua penetrazione commerciale con l’istituzione del Lloyd Austriaco e delle Assicurazioni Generali, mettendo a frutto la popolarità del leone alato. In questo modo riusciva per lo meno ad assicurarsi la collaborazione preziosa di una parte dei ceti dirigenti italiani del suo vasto impero.
Anche se le società segrete erano certamente frange minoritarie, eredi delle nostalgie napoleoniche o innamorati delle utopie mazziniane, sta di fatto che quando scoppiarono in Europa le rivoluzioni del 1848 la Dalmazia non rimase inerte. Il popolo e la borghesia delle città si unì alla richiesta della Costituzione e, pur senza ricorrere alla violenza, solidarizzò con le insurrezioni di Milano e soprattutto di Venezia.

Marzo del 1848. Proclama del Governatore Turszky ai dalmati e agli zaratini
Marzo del 1848. Proclama del Governatore Turszky ai dalmati e agli zaratini

Fu così che si costituì nelle principali città abitate da italiani la Guardia Nazionale di napoleonica memoria. I commissari austriaci ne approvarono gli statuti nel tentativo di tenere la situazione sotto controllo. Ma a Zara avvenne che i militi della Guardia cambiassero le coccarde bianco-rosse con quelle tricolori italiane e che in più occasioni finestre e balconi inalberassero il vessillo bianco-rosso-verde. La polizia lasciò correre per mesi per non inasprire gli animi, prendendo atto dell’esistenza di un sentimento popolare abbastanza diffuso e presumibilmente maggioritario, dato che all’iniziativa dei patrioti nessuno si oppose e per mesi le piazze risuonarono di marce e inni chiaramente allusivi alla causa delle rivoluzioni veneziana e romana.
In entrambe le rivoluzioni troviamo i dalmati in prima fila, sia a livello di vertice, che nelle truppe volontarie. Federico Seismit-Doda, patrizio raguseo di idee liberali e repubblicane (da vecchio sarà ministro nel governo Crispi) è a Roma, accanto a Garibaldi e ad Armellini. Niccolò Tommaseo, cattolico-liberale, neoguelfo, federalista, è a capo della Repubblica di Venezia insieme a Daniele Manin. E con lui sono numerosi ministri dalmati della neonata repubblica e centinaia di volontari raccolti nella Legione Dalmata. Altre centinaia di volontari, partiti da ogni angolo della Dalmazia, sono al servizio della Repubblica Romana e altri militano nell’armata piemontese. Di fronte a queste manifestazioni, così estese e convinte, non vi possono essere dubbi da che parte stiano gli italiani della Dalmazia.
C’è un episodio illuminante che riguarda il comune di Spalato. Nel processo di concessione delle costituzioni da parte del governo di Vienna la municipalità di Zagabria invia a quella di Spalato un messaggio di “fratellanza”, per sondare l’atteggiamento degli spalatini. La missiva è però redatta in lingua croata e dopo pochi giorni arriva a Zagabria la risposta del consiglio comunale di Spalato, che si dichiara spiacente di non poter dar corso al messaggio perché nessuno degli impiegati comunali era in grado di leggere la lingua croata! Risposta chiaramente provocatoria, che però dà un saggio dell’atmosfera che si respirava nel 1848-49 nella città dalmata. E un po’ di verità c’era anche in quella risposta se anni dopo il primo giornale “croato” della Dalmazia, “Il Nazionale”, veniva pubblicato in lingua italiana, dalla testata all’ultima riga, per poter essere letto dai cittadini della regione. Non ci sarebbe da gloriarsene se si riflette che era il sintomo del vasto analfabetismo delle popolazioni rurali! Ma era comunque un fatto.
L’interesse per l’indipendenza italiana si ripeterà durante la seconda guerra d’indipendenza (1859), per lo meno per quanto riguarda l’afflusso di volontari nell’esercito sardo e nelle file garibaldine. La vigilanza della polizia sulle città si farà più attenta e penetrante e gli arresti di persone sospette sarà il segno di inquietudini e di attese che tornano a serpeggiare nella popolazione di fronte ai primi successi della causa nazionale italiana.
Dopo la costituzione del regno d’Italia (1861) e ancor più dopo la III guerra d’indipendenza e la perdita del Veneto l’atteggiamento delle autorità e del governo austriaci cambia radicalmente. Non vi è più motivo di accattivarsi una minoranza nazionale, come quella italiana, nettamente minoritaria all’interno della monarchia. Tanto più che, da Trento a Cattaro, la parte più avanzata della cultura di questa minoranza guarda ormai all’Italia come punto di riferimento. Si profila a questo punto con chiarezza l’alleanza austro-croata per portare la Dalmazia e anche l’Istria nell’orbita del regno croato. Nascono i due partiti: quello “croato” degli annessionisti e quello “italiano” degli autonomisti. La battaglia sarà lunga e si protrarrà fino al primo conflitto mondiale, essendo comunque riusciti i dalmati italiani, quantunque minoritari, a difendere l’autonomia della regione, con la sua Dieta, e la sua diretta dipendenza da Vienna.
E’ una partita lunga ed estenuante che il partito autonomista deve giocare da solo, non potendo contare sull’appoggio del governo italiano, che non vuole grane con l’Austria, tanto più dopo la stipula della Triplice Alleanza nel 1882 fra Roma, Vienna e Berlino.
La principale trincea di questa lotta sarà la difesa della lingua italiana come lingua ufficiale. L’altra trincea la difesa della maggioranza elettiva nella Dieta e nelle amministrazioni comunali. La prima battaglia vedrà una progressiva recessione dell’italiano dalla maggior parte dei comuni minori, dove verrà affiancato dal serbo-croato o sostituito del tutto. Al termine di questo processo la lingua italiana resterà come lingua unica solo nel territorio del comune di Zara, mentre negli altri comuni maggiori, come Spalato, Sebenico, Ragusa, Cattaro, Curzola, Lesina, Traù, verrà progressivamente affiancata dal serbo-croato, così come negli atti ufficiali del governo regionale e dei tribunali.
Se nel 1861 la Dieta dalmata aveva trenta deputati italiani e undici croati, nel 1870 veniva persa la maggioranza e alla vigilia del 1915 la rappresentanza italiana rischiava di scomparire. Così venne progressivamente persa la maggioranza in tutti i comuni, tranne quello di Zara. Nemmeno l’opera illuminata e imparziale, il valore politico e l’universale stima di un Antonio Baiamonti, il “potestà mirabile”, amico del Tommaseo, riuscì a conservare Spalato al partito autonomista.
Alla perdita dei comuni corrispose inevitabilmente l’abolizione delle scuole italiane, sia di quelle primarie che dei ginnasi, dei licei e delle scuole tecniche. Privi dell’appoggio statale gli autonomisti dovettero ricorrere, nelle città dalmate al di fuori di Zara, alle scuole private, mantenute con le sovvenzioni del partito autonomista, della “Pro Patria”, della “Dante Alighieri” e della Lega Nazionale.
Il processo di slavizzazione culturale rispondeva del resto alla proporzione numerica tra italiani e slavofoni, che rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione. Man mano che venivano modificate le leggi elettorali e le circoscrizioni amministrative, con il disegno evidente di mettere la minoranza italiana in difficoltà, le conseguenze non si facevano attendere. L’azione del governo austriaco era validamente sostenuta dalla maggioranza del clero croato, cui era facile gioco descrivere l’Italia e gli italiani come nemici della Chiesa, a causa della vessatissima “questione romana”. Ardua fu quindi l’azione dei sacerdoti e dei religiosi dalmati di lingua italiana per fronteggiare questa subdola offensiva nazionalistica. Si riuscì ad ottenere che ove il vescovo fosse croato, il suo vicario fosse di nazionalità italiana. E agli stessi equilibri si dovette ricorrere per gli ordini religiosi. Specie i francescani erano molto amati dalla popolazione delle città, ancora prevalentemente o largamente italiana. Occorreva quindi evitare che i conventi cittadini venissero invasi da religiosi o religiose di sentimenti anti-italiani.
Né mancarono purtroppo in questo clima di continuo confronto gli episodi di violenza e di intolleranza, come in occasione della visita a Sebenico della nave militare italiana “Monzambano” nel 1869. Nel corso della festa in Piazza dei Signori offerta all’equipaggio dal Comune, amministrato ancora dal partito italiano, avvennero incidenti provocati da agitatori del partito croato. Rimasero feriti 14 marinai italiani. Tommaseo da Firenze ne scrisse con profonda tristezza, attribuendone la responsabilità alle autorità austriache che non avevano saputo assicurare l’incolumità di marinai inermi. Nel 1870 vi fu l’incendio doloso del Teatro comunale di Zara, luogo-simbolo dell’italianità cittadina. Seguirono nei decenni successivi scontri cruenti in occasione di ogni campagna elettorale, alimentando la diffidenza e l’ostilità reciproca delle due etnie.
Fu inevitabile che verso la fine dell’Ottocento il partito degli italiani si trasformasse da autonomista in irredentista, come stava avvenendo a Trieste, a Fiume, nel Trentino e in Istria. La morsa contro la componente italiana autoctona della popolazione si faceva troppo stretta, la sfiducia verso l’equidistanza del governo di Vienna sempre più radicata e giustificata perché si proseguisse sulla linea moderata dell’autonomismo. I circoli irredentisti, animati dagli intellettuali del luogo, come il giornalista zaratino Arturo Colautti – che scriveva sui principali giornali italiani – fecero sempre più proseliti specie fra i giovani e fra i borghesi e i popolani animati da sentimenti repubblicani ed anarchici.
Le componenti dell’irredentismo, a cavallo tra i due secoli, furono quindi diverse. In esso convivevano esperienze socialiste, liberali-moderate, cattolico-liberali, nazionaliste e anarchiche. Un unico cemento le teneva strette: la difesa dell’italianità e il desiderio di unire la loro terra all’Italia, a completamento del processo di unificazione nazionale. Punto di riferimento del movimento irredentista era Trieste, con i suoi scrittori che collaboravano alla rivista fiorentina “La Voce” (Carlo e Giani Stuparich, Scipio Slataper, Umberto Saba, Ruggero Timeus e altri).
Un ruolo importante nell’irredentismo dalmato, come in quello istriano e triestino, ebbero gli esponenti delle comunità ebraiche delle città costiere, aperte ai sentimenti liberali e quindi di atteggiamento culturale anti-austriaco e filo-italiano, essendo peraltro l’italiano la lingua parlata preferibilmente nelle loro case e molto forti i loro legami con le comunità di Venezia e di altre città della penisola.
Fu in questa situazione che maturò nel 1914-1915 la pressione degli irredentisti dalmati per l’entrata in guerra dell’Italia accanto all’Intesa e per la firma del Patto segreto di Londra, che assegnava all’Italia, in caso di vittoria alleata, metà della Dalmazia, con Zara e Sebenico e un cospicuo entroterra. Il sogno degli irredentisti era di ottenere tutta la Dalmazia, fino alle Bocche di Cattaro e tale fu la loro attiva propaganda durante tutta la prima guerra mondiale.
Occorre valutare il pensiero di un uomo preparato e prudente, come il leader del partito irredentista dalmato di quegli anni, Roberto Ghiglianovich, per comprendere oggi la ragionevolezza di quel disegno e non tacciarlo di follia, di fronte alla realtà di una composizione etnica della popolazione così sbilanciata a favore dell’elemento slavo. La tesi annessionista al regno d’Italia si fondava sulla considerazione della profonda differenza tra gli slavi della costa e quelli dell’interno, sulla divisione degli stessi slavi tra serbi e croati e dell’avversione dei primi per i secondi e viceversa, sull’aspettativa che solo un paese di grande civiltà giuridica e di notevoli risorse economiche come l’Italia avrebbe potuto assicurare alla regione un avvenire di convivenza inter-etnica e di prosperità, con un regime speciale di autonomia che salvaguardasse le peculiarità linguistiche del territorio tutelando allo stesso modo il patrimonio linguistico e di costume di croati, serbi e italiani. Leggendo le pagine di quest’uomo appassionato e preparato ci si rende conto della buona fede di questa posizione e dell’assoluto rispetto per la cultura e le lingue slave della maggioranza dei dalmati italiani. A chi gli faceva obiezioni rispondeva che i diritti storici dell’Italia sulla Dalmazia e la situazione etnica e culturale della regione erano ben più forti delle ragioni francesi sull’ Alsazia-Lorena, la cui riconquista costituiva il principale obiettivo dichiarato dell’intervento francese.
Il movimento irredentista degli istriani e dei dalmati trovava un’eco profonda in una parte considerevole della cultura italiana, specie in campo letterario e artistico, mentre molti storici ed economisti erano assi più tiepidi se non apertamente ostili.
Le vicende della prima guerra mondiale trovarono numerosi dalmati fra i volontari dell’esercito e della marina italiani. Molti esponenti politici irredentisti, che non erano riusciti a riparare in Italia, furono arrestati e ristretti nelle prigioni austriache. Così i membri del consiglio comunale di Zara, composto totalmente da italiani, furono internati nelle regioni più lontane dell’impero, ove rimasero fino agli ultimi giorni dell’ottobre 1918.
Se questo era lo spirito dei dalmati italiani si può comprendere come essi trepidarono dopo il disastro di Caporetto e quale fu il loro entusiasmo alla notizia di Vittorio Veneto. Zara insorse, disarmò la guarnigione austriaca, allontanò dalle caserme ufficiali e soldati delle altre nazionalità dell’impero e costituì per la terza volta la Guardia Nazionale, composta da militari di nazionalità italiana e da civili, sovrapponendo alle uniformi austriache le coccarde tricolori. La città si coprì di bandiere italiane, cucite in segreto nelle case, in attesa della “Redenzione”, che avvenne nella giornata del 3 novembre con lo sbarco sulla Riva Nuova della torpediniera S 55.
Seguirono le trattative di pace, i timori per le contestazioni alleate sulla Dalmazia, la questione fiumana. Furono anni di intensa passione civile. Con il patto di Corfù del 1917, stipulato dagli esponenti politici croati, serbi e sloveni e sostenuto da Francia e Gran Bretagna, veniva prevista la costituzione di un regno unico che raccogliesse i tre popoli. Era evidente che il patto segreto di Londra, che era condiviso anche dalla Russia e dalla Serbia nella situazione prebellica (bisognava far entrare in guerra l’Italia) era completamente superato. Dal canto suo il Consiglio Nazionale di Fiume, che rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione della città, aveva chiesto l’annessione all’Italia, malgrado il patto di Londra non lo prevedesse.
La posizione del governo italiano era difficilissima. Ritirò le sue truppe da Fiume per evitare incidenti con i contingenti alleati. La risposta a quest’atto, prudente ma rinunciatario, fu l’impresa di D’Annunzio che nel settembre del 1919 accorse da Ronchi in aiuto della città con migliaia di volontari. Interi reparti dell’esercito italiano si unirono a lui disobbedendo al governo di Roma.
Non è qui il luogo di valutare la portata e il significato della Reggenza Italiana del Carnaro. Occorre dire che a quella vicenda la Dalmazia partecipò ancora una volta con l’entusiasmo dei suoi volontari che accorsero a Fiume da ogni angolo della costa formando un’intera legione. Anche a Zara si costituì un reparto di legionari, formato interamente da giovani della città e di altre località della Dalmazia.
L’epilogo è noto. Bombardata Fiume dalla flotta italiana nel “Natale di sangue” del 1920, con numerosi morti e feriti tra i legionari e la popolazione, D’Annunzio fu costretto alla resa per non versare altro sangue in una lotta fratricida.
Con i successivi trattati di Rapallo (1920) e di Roma (1924) furono assegnate all’Italia, rispettivamente, in Dalmazia la sola città di Zara con una minuscola enclave e l’isola di Lagosta e la città di Fiume fino all’Eneo, lasciando alla neonata Iugoslavia il sobborgo di Sussak.
Le clausole del trattato di Rapallo avrebbero dovuto assicurare la sopravvivenza della minoranza italiana, ancora consistente in qualche decina di migliaia di persone concentrate a Spalato e nelle altre città maggiori. Ma i fatti furono diversi. Alcune migliaia di italiani furono costretti all’esodo dal clima di violenze che si era instaurato (aggressioni, pestaggi, devastazioni dei circoli di cultura italiani e dei caffè frequentati dalla minoranza, dei negozi di proprietà dei più noti irredentisti, incendi dei raccolti e delle case di campagna, taglio dei vigneti, ecc.). Gli altri cercarono di sopravvivere e di evitare l’assorbimento, mandando i loro figli a studiare a Zara, a Trieste o in altre città italiane.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale la comunità di Spalato contava ancora alcune migliaia di persone. Con l’invasione della Iugoslavia da parte delle truppe dell’Asse nell’aprile del 1941 sembrò agli italiani della Dalmazia che si compisse finalmente il loro sogno. Con il consenso del governo ustascia di Ante Pavelic, che aveva costituito il primo stato indipendente croato dell’età moderna (il secondo nascerà nel 1991), furono annessi all’Italia i territori di Sebenico, Traù, Spalato, le Bocche di Cattaro e le isole maggiori. Solo Ragusa (Dubrovnik) fu lasciata al nuovo Regno di Croazia.
Ma non era che un sogno, che si trasformò ben presto in un incubo. Malgrado le originarie intenzioni di guadagnarsi la simpatia della popolazione croata del governatore Bastianini e delle autorità militari, conservando al suo posto il personale iugoslavo dei pubblici uffici, mantenendo le scuole esistenti ed equiparando il serbo-croato all’italiano come lingue ufficiali delle tre nuove province (Zara, Spalato e Cattaro), già nel 1942 prese corpo nelle zone montuose dell’interno una duplice guerriglia: quella dei nazionalisti serbi filo-monarchici, i Cetnici, e quella dei partigiani controllati dal partito comunista iugoslavo di Josip Broz Tito.
Iniziò una tormentata azione di repressione e di contenimento delle forze armate italiane. In molte occasioni, a seguito delle stragi di serbi ortodossi (i morlacchi di veneta memoria) compiute dai miliziani ustascia, si determinò una vera e propria alleanza di fatto tra l’esercito italiano e i guerriglieri cetnici. Ricerche recenti, basate su documenti dell’epoca, dimostrano come le truppe italiane riuscirono a proteggere le popolazioni serbe dalle violenze degli ustascia di Pavelic, così come protessero dalle persecuzioni razziali gli ebrei croati che si rifugiarono in Dalmazia.
In quel drammatico periodo (aprile 1941-settembre 1943) tornarono nelle città natali numerosi esuli dalmati per svolgere le loro funzioni di funzionari, impiegati, giudici, ufficiali delle varie armi, con la volontà di contribuire con la loro conoscenza delle lingue e delle mentalità locali alla buona riuscita dell’amministrazione italiana e alla sua accettazione da parte della popolazione croata e serba.
Lo sviluppo negativo del conflitto, l’appoggio inglese alla guerriglia di Tito, il clima di ritorsioni innescato dagli attentati dei partigiani e dalle rappresaglie delle truppe di occupazione, distrussero ogni illusione.
Il crollo militare italiano del settembre 1943 lasciò inerme la popolazione civile italiana di fronte all’ostilità dei tedeschi e degli ustascia, che approfittarono della situazione per rivalersi sugli italiani ”traditori”, militari e civili, e alle prime pulizie etniche dei partigiani di Tito. A Spalato e nella vicina Riviera dei Sette Castelli si svolsero gli episodi più tragici e sanguinosi di quel settembre. In un primo momento i partigiani si impadronirono della città, disarmarono il pur numeroso presidio italiano, diedero avvio alle esecuzioni sommarie di oltre un centinaio di civili italiani (impiegati, insegnanti e i loro familiari), cominciando dagli italiani autoctoni come il provveditore agli studi Giovanni Soglian, il preside Luginbuhl e altri spalatini e sebenzani, senza trascurare qualche avversario politico, come il pope della chiesa ortodossa di Spalato.
Dopo pochi giorni e dopo violenti combattimenti nei dintorni della città tra tedeschi e partigiani, ai quali presero parte – dall’una e dall’altra parte anche reparti italiani – Spalato e la Riviera furono occupate dalle truppe germaniche, che prima bombardarono e mitragliarono migliaia di militari italiani che i partigiani avevano concentrato sulle banchine del porto, poi fucilarono numerosi ufficiali, compresi cinque generali, che si erano dichiarati fedeli al governo del Re.
Così cominciava il calvario degli italiani in Dalmazia. Anche Zara fu occupata dalle truppe tedesche malgrado un successivo tentativo di resistenza dei reparti di alpini e bersaglieri dislocati tra Diclo e Punta Amica. Dopo la costituzione della RSI, Mussolini riuscì ad ottenere da Hitler che gli ustascia si ritirassero dalla città e che venisse mantenuta l’autorità di un prefetto italiano e che l’ordine pubblico fosse assicurato da un reparto di carabinieri armato. Si costituì anche un reparto di giovani fascisti repubblicani che prese il nome dalla medaglia d’oro zaratina Antonio Vukassina, caduto in uno scontro contro i partigiani titini nel giugno del 1943. Ma questo reparto fu presto allontanato ed inviato nella pianura padana a seguito di pressioni tedesche e del governo di Zagabria, per gli incidenti avvenuti con reparti tedeschi ed ustascia in difesa dell’italianità della città.
Ai primi di novembre del 1943 iniziarono i bombardamenti di Zara. Con 54 incursioni le fortezze volanti americane e i bombardieri inglesi distrussero l’80% degli edifici, compresa la chiesa rinascimentale di S. Maria, la Madonna della Salute, il teatro Verdi e alcuni palazzi gotici veneziani. Rimasero miracolosamente illese tra i cumuli di rovine il Duomo e le chiese di S. Grisogono, di S. Francesco, di S. Simeone, di S. Michele.

Zara - La distruzione di Calle Larga vista dal campanile della Cattedrale
Zara - La distruzione di Calle Larga vista dal campanile della Cattedrale

La popolazione, dopo aver subito migliaia di morti, dovette rassegnarsi ad abbandonare la città ormai inabitabile. Gli abitanti si rifugiarono nei paesi del contado, che li ospitarono amichevolmente, dimostrando così quanto poco fosse radicato nel popolo vero, croato o serbo, l’odio verso i conterranei italiani. Altri trovarono riparo nei fortini intorno alla città. Il capodanno del 1944 trovò Zara che ardeva in un immenso rogo durato tre giorni e tre notti a seguito dei bombardamenti al fosforo degli aerei alleati. Complessivamente furono riversate su una città di 22.000 abitanti, con un centro urbano di due chilometri quadrati ereditato dall’antica Jadera liburnica e romana, più tonnellate di esplosivo di quelle impiegate per la distruzione della città di Cassino e della vicina abbazia. Resta ancora da dimostrare sul piano storico quale obiettivo militare potesse costituire Zara per tanto impegno distruttivo, quando era noto che nel vecchio porto c’erano soltanto due o tre pontoni armati tedeschi e gli effettivi di una compagnia della Wehrmacht in una caserma di Cereria. Perché infierire allora sul centro storico e il suo reticolato romano di calli e campielli?
L’interpretazione più naturale, che fu data fin da allora da ambienti informati non sospetti, come i comandi italiani del governo di Salerno, è che i bombardamenti furono causati da false informazioni fornite da Tito agli alleati con lo scopo evidente di liberarsi definitivamente dell’ultima città italiana – di diritto e di fatto – della Dalmazia. Non per nulla Enzo Bettiza ha chiamato Zara la “Dresda dell’Adriatico”
Quando i partigiani di Tito entrarono a Zara, nell’ottobre del 1944 – a seguito della ritirata tedesca da tutta la penisola balcanica – entrarono in una città morta. Centinaia di cittadini furono arrestati e fucilati nei giorni e nei mesi successivi. Li cercarono nei sobborghi e nei villaggi del contado. Alcuni furono annegati in mare, con le pietre legate al collo. Altre centinaia periranno anni dopo nel gulag titino dopo processi sommari per “collaborazionismo” con il governo e le forze armate italiane.
Come in tutta la Venezia Giulia, da Gorizia a Fiume, anche a Zara e a Lagosta i comandi partigiani iugoslavi si comportarono come se quel territorio non facesse legittimamente parte dello Stato italiano in forza di regolari trattati internazionali – come quello italo-iugoslavo di Rapallo del 1920 – e trattarono quindi la popolazione civile come se non fossero di diritto cittadini italiani. Questo consentì loro di applicare nel territorio occupato non tanto la legislazione iugoslava del 1941, quanto un sistema giuridico rivoluzionario privo di ogni legittimità, con sequestri, confische, processi sommari o comunque privi di ogni garanzia per la difesa, leve forzate di cittadini stranieri costretti a combattere nelle brigate partigiane sotto la minaccia delle mitragliatrici. Atti tutti che configurano apertamente violazioni del diritto internazionale di guerra.
L’ultimo tricolore italiano che sventolò su terra dalmata, dopo la prima volta del 1806, fu nell’ottobre del 1944. «Alle prime luci del 31 ottobre, in mezzo ai cumuli di macerie in una città distrutta, il tenente (dei carabinieri ndr) Ignazio Terranova con alcuni zaratini saliva sul campanile del Duomo e stendeva una bandiera tricolore lungo la balaustra del terrazzino sottostante alla cuspide.» (in Oddode Talpo- Sergio Brcic «…Vennero dal cielo», Palladino Editore, Campobasso 2006).
Con il Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, entrato in vigore il 15 settembre successivo, i due comuni della provincia di Zara, insieme alle province di Pola e di Fiume e a gran parte di quelle di Trieste e di Gorizia, venivano ceduti alla ex-Iugoslavia.

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Durante la conferenza della pace Alcide De Gasperi e la diplomazia italiana tentarono per Zara un’ultima carta: un regime speciale di autonomia sotto tutela internazionale che ne preservasse il carattere italiano e fermasse o facesse rientrare l’esodo già iniziato della popolazione. Ovviamente l’ipotesi non fu presa in considerazione. Gli alleati occidentali, per non urtare l’URSS e acquisire meriti con Tito, non vollero nemmeno salvare Pola, che pure occupavano militarmente dal 12 giugno 1945, e si inventarono il Territorio Libero di Trieste lasciando mano libera al regime iugoslavo per snazionalizzare anche la Zona B, cioè l’Istria settentrionale.
Da Zara esodò oltre il 90% della popolazione, in gran parte autoctona, optando per conservare la cittadinanza italiana e perdendo così tutte le proprietà che furono a vario titolo espropriate. L’ultimo flusso di profughi si verificò dopo il Memorandum di Londra del 1954, quando la ex-Iugoslavia chiuse le ultime scuole italiane e proibì l’uso della nostra lingua.
Antonio Baiamonti, ultimo podestà italiano di Spalato, aveva ben capito come sarebbero andate le cose. Nel suo ultimo discorso, ovviamente in italiano, alla Dieta Dalmata nel 1887, così si espresse: «Noi fin dai primi tempi vi abbiamo accolto sui nostri lidi con affetto e sincerità e voi ce ne discacciate, con poco patriottismo e ci assegnate come unica dimora il mare : u more – che è il vostro programma… »
Il poeta croato Vladimir Nazor, già sostenitore del regime fascista di Ante Paveli? e poi di quello comunista di Tito, lo confermerà in un comizio a Zara del novembre 1944: «Spazzeremo dal nostro territorio le pietre della torre nemica distrutta, e le getteremo nel mare profondo dell’oblio.”
Zara e la Dalmazia avevano tanti santi patroni. Evidentemente la loro protezione non bastò a salvare Zara e i suoi abitanti dalla barbarie dell’età contemporanea.