Fu così che si costituì nelle principali città abitate da italiani la Guardia Nazionale di napoleonica memoria. I commissari austriaci ne approvarono gli statuti nel tentativo di tenere la situazione sotto controllo. Ma a Zara avvenne che i militi della Guardia cambiassero le coccarde bianco-rosse con quelle tricolori italiane e che in più occasioni finestre e balconi inalberassero il vessillo bianco-rosso-verde. La polizia lasciò correre per mesi per non inasprire gli animi, prendendo atto dell’esistenza di un sentimento popolare abbastanza diffuso e presumibilmente maggioritario, dato che all’iniziativa dei patrioti nessuno si oppose e per mesi le piazze risuonarono di marce e inni chiaramente allusivi alla causa delle rivoluzioni veneziana e romana.
In entrambe le rivoluzioni troviamo i dalmati in prima fila, sia a livello di vertice, che nelle truppe volontarie. Federico Seismit-Doda, patrizio raguseo di idee liberali e repubblicane (da vecchio sarà ministro nel governo Crispi) è a Roma, accanto a Garibaldi e ad Armellini. Niccolò Tommaseo, cattolico-liberale, neoguelfo, federalista, è a capo della Repubblica di Venezia insieme a Daniele Manin. E con lui sono numerosi ministri dalmati della neonata repubblica e centinaia di volontari raccolti nella Legione Dalmata. Altre centinaia di volontari, partiti da ogni angolo della Dalmazia, sono al servizio della Repubblica Romana e altri militano nell’armata piemontese. Di fronte a queste manifestazioni, così estese e convinte, non vi possono essere dubbi da che parte stiano gli italiani della Dalmazia.
C’è un episodio illuminante che riguarda il comune di Spalato. Nel processo di concessione delle costituzioni da parte del governo di Vienna la municipalità di Zagabria invia a quella di Spalato un messaggio di “fratellanza”, per sondare l’atteggiamento degli spalatini. La missiva è però redatta in lingua croata e dopo pochi giorni arriva a Zagabria la risposta del consiglio comunale di Spalato, che si dichiara spiacente di non poter dar corso al messaggio perché nessuno degli impiegati comunali era in grado di leggere la lingua croata! Risposta chiaramente provocatoria, che però dà un saggio dell’atmosfera che si respirava nel 1848-49 nella città dalmata. E un po’ di verità c’era anche in quella risposta se anni dopo il primo giornale “croato” della Dalmazia, “Il Nazionale”, veniva pubblicato in lingua italiana, dalla testata all’ultima riga, per poter essere letto dai cittadini della regione. Non ci sarebbe da gloriarsene se si riflette che era il sintomo del vasto analfabetismo delle popolazioni rurali! Ma era comunque un fatto.
L’interesse per l’indipendenza italiana si ripeterà durante la seconda guerra d’indipendenza (1859), per lo meno per quanto riguarda l’afflusso di volontari nell’esercito sardo e nelle file garibaldine. La vigilanza della polizia sulle città si farà più attenta e penetrante e gli arresti di persone sospette sarà il segno di inquietudini e di attese che tornano a serpeggiare nella popolazione di fronte ai primi successi della causa nazionale italiana.
Dopo la costituzione del regno d’Italia (1861) e ancor più dopo la III guerra d’indipendenza e la perdita del Veneto l’atteggiamento delle autorità e del governo austriaci cambia radicalmente. Non vi è più motivo di accattivarsi una minoranza nazionale, come quella italiana, nettamente minoritaria all’interno della monarchia. Tanto più che, da Trento a Cattaro, la parte più avanzata della cultura di questa minoranza guarda ormai all’Italia come punto di riferimento. Si profila a questo punto con chiarezza l’alleanza austro-croata per portare la Dalmazia e anche l’Istria nell’orbita del regno croato. Nascono i due partiti: quello “croato” degli annessionisti e quello “italiano” degli autonomisti. La battaglia sarà lunga e si protrarrà fino al primo conflitto mondiale, essendo comunque riusciti i dalmati italiani, quantunque minoritari, a difendere l’autonomia della regione, con la sua Dieta, e la sua diretta dipendenza da Vienna.
E’ una partita lunga ed estenuante che il partito autonomista deve giocare da solo, non potendo contare sull’appoggio del governo italiano, che non vuole grane con l’Austria, tanto più dopo la stipula della Triplice Alleanza nel 1882 fra Roma, Vienna e Berlino.
La principale trincea di questa lotta sarà la difesa della lingua italiana come lingua ufficiale. L’altra trincea la difesa della maggioranza elettiva nella Dieta e nelle amministrazioni comunali. La prima battaglia vedrà una progressiva recessione dell’italiano dalla maggior parte dei comuni minori, dove verrà affiancato dal serbo-croato o sostituito del tutto. Al termine di questo processo la lingua italiana resterà come lingua unica solo nel territorio del comune di Zara, mentre negli altri comuni maggiori, come Spalato, Sebenico, Ragusa, Cattaro, Curzola, Lesina, Traù, verrà progressivamente affiancata dal serbo-croato, così come negli atti ufficiali del governo regionale e dei tribunali.
Se nel 1861 la Dieta dalmata aveva trenta deputati italiani e undici croati, nel 1870 veniva persa la maggioranza e alla vigilia del 1915 la rappresentanza italiana rischiava di scomparire. Così venne progressivamente persa la maggioranza in tutti i comuni, tranne quello di Zara. Nemmeno l’opera illuminata e imparziale, il valore politico e l’universale stima di un Antonio Baiamonti, il “potestà mirabile”, amico del Tommaseo, riuscì a conservare Spalato al partito autonomista.
Alla perdita dei comuni corrispose inevitabilmente l’abolizione delle scuole italiane, sia di quelle primarie che dei ginnasi, dei licei e delle scuole tecniche. Privi dell’appoggio statale gli autonomisti dovettero ricorrere, nelle città dalmate al di fuori di Zara, alle scuole private, mantenute con le sovvenzioni del partito autonomista, della “Pro Patria”, della “Dante Alighieri” e della Lega Nazionale.
Il processo di slavizzazione culturale rispondeva del resto alla proporzione numerica tra italiani e slavofoni, che rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione. Man mano che venivano modificate le leggi elettorali e le circoscrizioni amministrative, con il disegno evidente di mettere la minoranza italiana in difficoltà, le conseguenze non si facevano attendere. L’azione del governo austriaco era validamente sostenuta dalla maggioranza del clero croato, cui era facile gioco descrivere l’Italia e gli italiani come nemici della Chiesa, a causa della vessatissima “questione romana”. Ardua fu quindi l’azione dei sacerdoti e dei religiosi dalmati di lingua italiana per fronteggiare questa subdola offensiva nazionalistica. Si riuscì ad ottenere che ove il vescovo fosse croato, il suo vicario fosse di nazionalità italiana. E agli stessi equilibri si dovette ricorrere per gli ordini religiosi. Specie i francescani erano molto amati dalla popolazione delle città, ancora prevalentemente o largamente italiana. Occorreva quindi evitare che i conventi cittadini venissero invasi da religiosi o religiose di sentimenti anti-italiani.
Né mancarono purtroppo in questo clima di continuo confronto gli episodi di violenza e di intolleranza, come in occasione della visita a Sebenico della nave militare italiana “Monzambano” nel 1869. Nel corso della festa in Piazza dei Signori offerta all’equipaggio dal Comune, amministrato ancora dal partito italiano, avvennero incidenti provocati da agitatori del partito croato. Rimasero feriti 14 marinai italiani. Tommaseo da Firenze ne scrisse con profonda tristezza, attribuendone la responsabilità alle autorità austriache che non avevano saputo assicurare l’incolumità di marinai inermi. Nel 1870 vi fu l’incendio doloso del Teatro comunale di Zara, luogo-simbolo dell’italianità cittadina. Seguirono nei decenni successivi scontri cruenti in occasione di ogni campagna elettorale, alimentando la diffidenza e l’ostilità reciproca delle due etnie.
Fu inevitabile che verso la fine dell’Ottocento il partito degli italiani si trasformasse da autonomista in irredentista, come stava avvenendo a Trieste, a Fiume, nel Trentino e in Istria. La morsa contro la componente italiana autoctona della popolazione si faceva troppo stretta, la sfiducia verso l’equidistanza del governo di Vienna sempre più radicata e giustificata perché si proseguisse sulla linea moderata dell’autonomismo. I circoli irredentisti, animati dagli intellettuali del luogo, come il giornalista zaratino Arturo Colautti – che scriveva sui principali giornali italiani – fecero sempre più proseliti specie fra i giovani e fra i borghesi e i popolani animati da sentimenti repubblicani ed anarchici.
Le componenti dell’irredentismo, a cavallo tra i due secoli, furono quindi diverse. In esso convivevano esperienze socialiste, liberali-moderate, cattolico-liberali, nazionaliste e anarchiche. Un unico cemento le teneva strette: la difesa dell’italianità e il desiderio di unire la loro terra all’Italia, a completamento del processo di unificazione nazionale. Punto di riferimento del movimento irredentista era Trieste, con i suoi scrittori che collaboravano alla rivista fiorentina “La Voce” (Carlo e Giani Stuparich, Scipio Slataper, Umberto Saba, Ruggero Timeus e altri).
Un ruolo importante nell’irredentismo dalmato, come in quello istriano e triestino, ebbero gli esponenti delle comunità ebraiche delle città costiere, aperte ai sentimenti liberali e quindi di atteggiamento culturale anti-austriaco e filo-italiano, essendo peraltro l’italiano la lingua parlata preferibilmente nelle loro case e molto forti i loro legami con le comunità di Venezia e di altre città della penisola.
Fu in questa situazione che maturò nel 1914-1915 la pressione degli irredentisti dalmati per l’entrata in guerra dell’Italia accanto all’Intesa e per la firma del Patto segreto di Londra, che assegnava all’Italia, in caso di vittoria alleata, metà della Dalmazia, con Zara e Sebenico e un cospicuo entroterra. Il sogno degli irredentisti era di ottenere tutta la Dalmazia, fino alle Bocche di Cattaro e tale fu la loro attiva propaganda durante tutta la prima guerra mondiale.
Occorre valutare il pensiero di un uomo preparato e prudente, come il leader del partito irredentista dalmato di quegli anni, Roberto Ghiglianovich, per comprendere oggi la ragionevolezza di quel disegno e non tacciarlo di follia, di fronte alla realtà di una composizione etnica della popolazione così sbilanciata a favore dell’elemento slavo. La tesi annessionista al regno d’Italia si fondava sulla considerazione della profonda differenza tra gli slavi della costa e quelli dell’interno, sulla divisione degli stessi slavi tra serbi e croati e dell’avversione dei primi per i secondi e viceversa, sull’aspettativa che solo un paese di grande civiltà giuridica e di notevoli risorse economiche come l’Italia avrebbe potuto assicurare alla regione un avvenire di convivenza inter-etnica e di prosperità, con un regime speciale di autonomia che salvaguardasse le peculiarità linguistiche del territorio tutelando allo stesso modo il patrimonio linguistico e di costume di croati, serbi e italiani. Leggendo le pagine di quest’uomo appassionato e preparato ci si rende conto della buona fede di questa posizione e dell’assoluto rispetto per la cultura e le lingue slave della maggioranza dei dalmati italiani. A chi gli faceva obiezioni rispondeva che i diritti storici dell’Italia sulla Dalmazia e la situazione etnica e culturale della regione erano ben più forti delle ragioni francesi sull’ Alsazia-Lorena, la cui riconquista costituiva il principale obiettivo dichiarato dell’intervento francese.
Il movimento irredentista degli istriani e dei dalmati trovava un’eco profonda in una parte considerevole della cultura italiana, specie in campo letterario e artistico, mentre molti storici ed economisti erano assi più tiepidi se non apertamente ostili.
Le vicende della prima guerra mondiale trovarono numerosi dalmati fra i volontari dell’esercito e della marina italiani. Molti esponenti politici irredentisti, che non erano riusciti a riparare in Italia, furono arrestati e ristretti nelle prigioni austriache. Così i membri del consiglio comunale di Zara, composto totalmente da italiani, furono internati nelle regioni più lontane dell’impero, ove rimasero fino agli ultimi giorni dell’ottobre 1918.
Se questo era lo spirito dei dalmati italiani si può comprendere come essi trepidarono dopo il disastro di Caporetto e quale fu il loro entusiasmo alla notizia di Vittorio Veneto. Zara insorse, disarmò la guarnigione austriaca, allontanò dalle caserme ufficiali e soldati delle altre nazionalità dell’impero e costituì per la terza volta la Guardia Nazionale, composta da militari di nazionalità italiana e da civili, sovrapponendo alle uniformi austriache le coccarde tricolori. La città si coprì di bandiere italiane, cucite in segreto nelle case, in attesa della “Redenzione”, che avvenne nella giornata del 3 novembre con lo sbarco sulla Riva Nuova della torpediniera S 55.
Seguirono le trattative di pace, i timori per le contestazioni alleate sulla Dalmazia, la questione fiumana. Furono anni di intensa passione civile. Con il patto di Corfù del 1917, stipulato dagli esponenti politici croati, serbi e sloveni e sostenuto da Francia e Gran Bretagna, veniva prevista la costituzione di un regno unico che raccogliesse i tre popoli. Era evidente che il patto segreto di Londra, che era condiviso anche dalla Russia e dalla Serbia nella situazione prebellica (bisognava far entrare in guerra l’Italia) era completamente superato. Dal canto suo il Consiglio Nazionale di Fiume, che rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione della città, aveva chiesto l’annessione all’Italia, malgrado il patto di Londra non lo prevedesse.
La posizione del governo italiano era difficilissima. Ritirò le sue truppe da Fiume per evitare incidenti con i contingenti alleati. La risposta a quest’atto, prudente ma rinunciatario, fu l’impresa di D’Annunzio che nel settembre del 1919 accorse da Ronchi in aiuto della città con migliaia di volontari. Interi reparti dell’esercito italiano si unirono a lui disobbedendo al governo di Roma.
Non è qui il luogo di valutare la portata e il significato della Reggenza Italiana del Carnaro. Occorre dire che a quella vicenda la Dalmazia partecipò ancora una volta con l’entusiasmo dei suoi volontari che accorsero a Fiume da ogni angolo della costa formando un’intera legione. Anche a Zara si costituì un reparto di legionari, formato interamente da giovani della città e di altre località della Dalmazia.
L’epilogo è noto. Bombardata Fiume dalla flotta italiana nel “Natale di sangue” del 1920, con numerosi morti e feriti tra i legionari e la popolazione, D’Annunzio fu costretto alla resa per non versare altro sangue in una lotta fratricida.
Con i successivi trattati di Rapallo (1920) e di Roma (1924) furono assegnate all’Italia, rispettivamente, in Dalmazia la sola città di Zara con una minuscola enclave e l’isola di Lagosta e la città di Fiume fino all’Eneo, lasciando alla neonata Iugoslavia il sobborgo di Sussak.
Le clausole del trattato di Rapallo avrebbero dovuto assicurare la sopravvivenza della minoranza italiana, ancora consistente in qualche decina di migliaia di persone concentrate a Spalato e nelle altre città maggiori. Ma i fatti furono diversi. Alcune migliaia di italiani furono costretti all’esodo dal clima di violenze che si era instaurato (aggressioni, pestaggi, devastazioni dei circoli di cultura italiani e dei caffè frequentati dalla minoranza, dei negozi di proprietà dei più noti irredentisti, incendi dei raccolti e delle case di campagna, taglio dei vigneti, ecc.). Gli altri cercarono di sopravvivere e di evitare l’assorbimento, mandando i loro figli a studiare a Zara, a Trieste o in altre città italiane.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale la comunità di Spalato contava ancora alcune migliaia di persone. Con l’invasione della Iugoslavia da parte delle truppe dell’Asse nell’aprile del 1941 sembrò agli italiani della Dalmazia che si compisse finalmente il loro sogno. Con il consenso del governo ustascia di Ante Pavelic, che aveva costituito il primo stato indipendente croato dell’età moderna (il secondo nascerà nel 1991), furono annessi all’Italia i territori di Sebenico, Traù, Spalato, le Bocche di Cattaro e le isole maggiori. Solo Ragusa (Dubrovnik) fu lasciata al nuovo Regno di Croazia.
Ma non era che un sogno, che si trasformò ben presto in un incubo. Malgrado le originarie intenzioni di guadagnarsi la simpatia della popolazione croata del governatore Bastianini e delle autorità militari, conservando al suo posto il personale iugoslavo dei pubblici uffici, mantenendo le scuole esistenti ed equiparando il serbo-croato all’italiano come lingue ufficiali delle tre nuove province (Zara, Spalato e Cattaro), già nel 1942 prese corpo nelle zone montuose dell’interno una duplice guerriglia: quella dei nazionalisti serbi filo-monarchici, i Cetnici, e quella dei partigiani controllati dal partito comunista iugoslavo di Josip Broz Tito.
Iniziò una tormentata azione di repressione e di contenimento delle forze armate italiane. In molte occasioni, a seguito delle stragi di serbi ortodossi (i morlacchi di veneta memoria) compiute dai miliziani ustascia, si determinò una vera e propria alleanza di fatto tra l’esercito italiano e i guerriglieri cetnici. Ricerche recenti, basate su documenti dell’epoca, dimostrano come le truppe italiane riuscirono a proteggere le popolazioni serbe dalle violenze degli ustascia di Pavelic, così come protessero dalle persecuzioni razziali gli ebrei croati che si rifugiarono in Dalmazia.
In quel drammatico periodo (aprile 1941-settembre 1943) tornarono nelle città natali numerosi esuli dalmati per svolgere le loro funzioni di funzionari, impiegati, giudici, ufficiali delle varie armi, con la volontà di contribuire con la loro conoscenza delle lingue e delle mentalità locali alla buona riuscita dell’amministrazione italiana e alla sua accettazione da parte della popolazione croata e serba.
Lo sviluppo negativo del conflitto, l’appoggio inglese alla guerriglia di Tito, il clima di ritorsioni innescato dagli attentati dei partigiani e dalle rappresaglie delle truppe di occupazione, distrussero ogni illusione.
Il crollo militare italiano del settembre 1943 lasciò inerme la popolazione civile italiana di fronte all’ostilità dei tedeschi e degli ustascia, che approfittarono della situazione per rivalersi sugli italiani ”traditori”, militari e civili, e alle prime pulizie etniche dei partigiani di Tito. A Spalato e nella vicina Riviera dei Sette Castelli si svolsero gli episodi più tragici e sanguinosi di quel settembre. In un primo momento i partigiani si impadronirono della città, disarmarono il pur numeroso presidio italiano, diedero avvio alle esecuzioni sommarie di oltre un centinaio di civili italiani (impiegati, insegnanti e i loro familiari), cominciando dagli italiani autoctoni come il provveditore agli studi Giovanni Soglian, il preside Luginbuhl e altri spalatini e sebenzani, senza trascurare qualche avversario politico, come il pope della chiesa ortodossa di Spalato.
Dopo pochi giorni e dopo violenti combattimenti nei dintorni della città tra tedeschi e partigiani, ai quali presero parte – dall’una e dall’altra parte anche reparti italiani – Spalato e la Riviera furono occupate dalle truppe germaniche, che prima bombardarono e mitragliarono migliaia di militari italiani che i partigiani avevano concentrato sulle banchine del porto, poi fucilarono numerosi ufficiali, compresi cinque generali, che si erano dichiarati fedeli al governo del Re.
Così cominciava il calvario degli italiani in Dalmazia. Anche Zara fu occupata dalle truppe tedesche malgrado un successivo tentativo di resistenza dei reparti di alpini e bersaglieri dislocati tra Diclo e Punta Amica. Dopo la costituzione della RSI, Mussolini riuscì ad ottenere da Hitler che gli ustascia si ritirassero dalla città e che venisse mantenuta l’autorità di un prefetto italiano e che l’ordine pubblico fosse assicurato da un reparto di carabinieri armato. Si costituì anche un reparto di giovani fascisti repubblicani che prese il nome dalla medaglia d’oro zaratina Antonio Vukassina, caduto in uno scontro contro i partigiani titini nel giugno del 1943. Ma questo reparto fu presto allontanato ed inviato nella pianura padana a seguito di pressioni tedesche e del governo di Zagabria, per gli incidenti avvenuti con reparti tedeschi ed ustascia in difesa dell’italianità della città.
Ai primi di novembre del 1943 iniziarono i bombardamenti di Zara. Con 54 incursioni le fortezze volanti americane e i bombardieri inglesi distrussero l’80% degli edifici, compresa la chiesa rinascimentale di S. Maria, la Madonna della Salute, il teatro Verdi e alcuni palazzi gotici veneziani. Rimasero miracolosamente illese tra i cumuli di rovine il Duomo e le chiese di S. Grisogono, di S. Francesco, di S. Simeone, di S. Michele.