I maestri italiani in Istria missionari di cultura

Scritto da Marco Coslovich, «Il Piccolo», 08/06/14
domenica 08 giugno 2014

Il 21 giugno sulla facciata della scuola di Giurizzani verrà collocata una targa in ricordo dell’opera compiuta dai maestri italiani in Istria dal 1918 al 1952 e in particolare della maestra Giorgina Pellegrini che la istituì. L’iniziativa è promossa dalla Famiglia umaghese e conta sulla disponibilità e appoggio del sindaco di Umago, del presidente del consiglio direttivo della scuola italiana, della scuola croata e di varie altre personalità, tra le quali le maestre Marya Purisic e Marisa Kodijlia. Libero Coslovich terrà, in quella occasione, un breve intervento. Come esule istriano e come insegnante, devo dire che non ho mai nutrito un particolare sentimento verso queste manifestazioni. Le ho spesso trovate retoriche e ancor peggio a volte contigue ad un sentimento di amor di Patria vagamente nostalgico non solo del tempo che fu, ma anche del “regime” che fu. E come non ricordare che spesso i maestri italiani sui confini orientali non furono ritenuti semplici maestri, ma strumenti di una cultura nazionalistica che si riteneva superiore a quella slava.

Savina Rupel, ex deportata slovena di Ravensbruck, ricorda nel libro “storia di Savina” come il maestro italiano a Prosecco fosse durissimo con i ragazzi sloveni. In generale le vessazioni fasciste contro le componenti croate e slovene, non mi hanno mai permesso di guardare con occhi limpidi e benevoli l’operato dei maestri lungo i nostri ex-confini. Eppure come non ricordare il maestro Michele Pinnati di Petrovia dove mia madre (classe 1917) imparò a sillabare. Durante l’intervallo, ma che all’epoca si chiamava ricreazione, mia madre andava in soffitta a prendere una tazza di latte e una fette di pane raffermo per il maestro. Infatti, i maestri e le maestre spesso vivevano a scuola, nel senso che vi alloggiavano. In non pochi casi venivano da altre zone del paese, anche con l’intento di amalgamare la componente nazionale dei confini. Ora non è una dimensione crepuscolare e deamicisiana da libro “Cuore” quella che qui amo ricordare. Non si tratta di questo, ma piuttosto del senso alto di sentire un mestiere che all’epoca era una vera e propria missione. Si tratta quindi nettamente di distinguere l’uso stravolto della cultura italiana che il regime e alcuni zelanti maestri fascisti fecero, con l’amore vero e profondo per la cultura e la lingua italiana. Sì perché era la lingua italiana quella che veniva difesa e diffusa e lo si può fare, lecitamente, liberalmente, civilmente, solo con l’amore per l’insegnamento e l’assoluto rispetto dell’altro, di chi è culturalmente diverso ed ha una altra identità. Ora, al di la di questi maestri di frontiera, la cultura italiana è una cultura essenzialmente umanistica, volta all’uomo, alla sua centralità. Questo è il suo carattere saliente se non unico e prevalente.

È una cultura della pluralità, del senso laico del sentire accanto alla fede, della curiosità eclettica e nel contempo filologica, legata alla storia e alla filosofia e alla scienza sperimentale. In una parola alla cultura dell’apertura verso il mondo e non certo alla cultura del rigetto, del contrasto e dell’esercizio della propria superiorità. Se il fascismo ne fece un uso assolutamente distorto non è responsabilità storica dei nostri maestri. Se alcuni di essi ne interpretarono male i presupposti, tradendone le premesse, comunque non poterono, nemmeno volendo, vanificarne il senso del messaggio: pluralità e bellezza. Per questo finalmente mi sento di essere vicino al manipolo di quegli uomini e donne che ricorderanno i maestri italiani davanti alla scuola elementare di Giurizzani, la nostra piccola Eboli istriana.