venerdì 13 marzo 2009
In A. Pisaneschi, L. Violini (a cura di), Poteri, garanzie e diritti a sessanta anni dalla Costituzione. Scritti per Giovanni Grottanelli De’ Santi, Giuffré, Milano, 2007.
La minoranza italiana in Slovenia e Croazia: rilevanza dell’autoctonia e riflessi sulla tutela giuridica
Valeria Piergigli*
Sommario: 1. Inquadramento storico-costituzionale ed evoluzione dei rapporti internazionali tra l’Italia e la ex Jugoslavia. – 2. La normativa slovena: l’“autoctonia” come criterio di differenziazione dei gruppi minoritari e presupposto per il riconoscimento di “diritti speciali”. – 3. La normativa croata: l’ “autoctonia” come requisito generico per la tutela delle minoranze nazionali. – 4. Dal piano formale a quello della effettività delle garanzie: un raffronto (dagli esiti ancora incerti e parziali) tra i due modelli di tutela. Conclusioni.
1. Inquadramento storico-costituzionale ed evoluzione dei rapporti internazionali tra l’Italia e la ex Jugoslavia
La dissoluzione della Jugoslavia e dell’Unione sovietica, sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, ha contribuito al riemergere delle questioni minoritarie e dei movimenti nazionalistici che il regime comunista aveva sopito e tenuto a freno, senza tuttavia riuscire a rimuovere in maniera efficace il sentimento diffuso, non soltanto nella sfera privata, di intolleranza e discriminazione verso i gruppi minoritari[1]. Il crollo della ideologia socialista, la ridefinizione dei confini nazionali e la nascita di nuove sovranità si accompagnavano in quegli anni, nell’area geografica dell’Europa centro-orientale, all’affermazione del modello di Stato liberale e dei principi del pluralismo e della democrazia. I processi avviati per l’adozione o la revisione delle Carte costituzionali testimoniavano – almeno in apparenza – l’accresciuta attenzione verso la tutela dei diritti fondamentali, compresi quelli degli appartenenti alle minoranze, variamente declinate come religiose, linguistiche, etniche, culturali, nazionali, autoctone.
D’altra parte, la consapevolezza che la protezione dei diritti delle minoranze è elemento essenziale per la salvaguardia dei valori della stabilità, della sicurezza e della pace in Europa[2] ha contribuito, specialmente nell’ultimo decennio, ad alimentare il rinnovato interesse verso i problemi minoritari, anche nella prospettiva dell’allargamento dell’Unione europea con la domanda di adesione di numerosi Stati appartenenti all’ex blocco socialista, ai quali veniva espressamente richiesto da parte delle istituzioni comunitarie l’adempimento di alcune condizioni fondamentali, tra cui la garanzia dei diritti umani e delle minoranze. In attuazione di quelle direttive – rilevanti esclusivamente sul piano politico – alcuni Stati ricevevano ingresso nell’Unione europea nel maggio 2004, tra cui la Slovenia, mentre per la Croazia, come per altri Paesi, il processo di adesione veniva rinviato al 2010, subordinatamente al conseguimento di maggiori garanzie di stabilizzazione democratica e della più soddisfacente realizzazione dei criteri stabiliti dal Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993[3].
Negli attuali ordinamenti sloveno e croato la disciplina delle situazioni minoritarie risulta da un complesso di atti legislativi, statali e locali, oltre che da precisi obblighi internazionali, analogamente, almeno sul piano della tipologia delle fonti normative, a quanto si era verificato durante il regime comunista.
Nella vigenza della Costituzione della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia del 1974, le “nazionalità” (o minoranze nazionali) erano riconosciute come “elementi costitutivi” delle Repubbliche federate[4]. Mancavano nella Costituzione federale disposizioni espresse a tutela della minoranza italiana, che deve le sue origini in Slovenia e Croazia alle vicende successive alla fine della seconda guerra mondiale, allorché – in virtù del Trattato di pace del 1947 – alcuni territori sotto sovranità italiana furono ceduti alla Jugoslavia[5], con conseguente acquisizione della cittadinanza jugoslava da parte delle persone di origine italiana che avessero deciso di rimanere nei territori ceduti, mentre il mantenimento della cittadinanza italiana venne subordinato all’obbligo di trasferirsi in Italia[6]. Come è noto, l’opzione offerta dalle previsioni del Trattato non bastò ad impedire il massiccio esodo degli appartenenti alla comunità italiana dai territori trasferiti alla sovranità jugoslava.
In verità, il citato Trattato non si rivolgeva alla tutela delle minoranze, limitandosi a porre a carico dello Stato cessionario – la Jugoslavia – il dovere di assicurare ai cittadini residenti nei territori ceduti il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali senza distinzione di sesso, razza, lingua o religione (art. 19).
Diversamente, il Memorandum di intesa di Londra del 1954[7] ripartiva formalmente Trieste e i territori limitrofi collocati al di là del confine italiano in due zone, delle quali una veniva posta sotto l’amministrazione italiana (Zona A) e l’altra sotto l’amministrazione jugoslava (Zona B), così determinandosi la fine del governo militare alleato. Lo statuto speciale annesso al Memorandum disponeva che l’Italia e la Jugoslavia si impegnavano ad assicurare agli appartenenti ai gruppi etnici jugoslavo e italiano – rispettivamente stanziati nei territori della Zona A e della Zona B – parità di diritti e di trattamento con gli altri cittadini, a garantirne lo sviluppo economico senza discriminazioni, nonché i diritti linguistici nei rapporti con l’autorità amministrativa e giudiziaria, nella toponomastica, nei settori scolastico e culturale.
Il successivo Trattato di Osimo stipulato tra l’Italia e la Jugoslavia nel 1975 (ratificato dall’Italia con legge n. 73/1977) risolveva la “questione di Trieste” e riconduceva definitivamente la Zona A alla sovranità italiana e la Zona B alla sovranità jugoslava; veniva, altresì, disposta l’abrogazione del Memorandum di Londra e dello statuto speciale, fermo restando l’impegno delle parti contraenti a mantenere in vigore le misure interne già adottate in attuazione dello statuto e ad assicurare nei propri ordinamenti lo stesso livello di protezione accordato ai due gruppi etnici, conformemente allo statuto speciale decaduto (art. 8).
A seguito della dissoluzione della Jugoslavia e della proclamazione di indipendenza della Slovenia e della Croazia nel 1991, la minoranza italiana – la cui presenza si era fortemente ridotta nella ex Zona B e comunque era rimasta concentrata soprattutto nei comuni costieri dell’Istria e a Pola – si è trovata artificialmente divisa dalla linea di confine eretta tra le due nuove Repubbliche, con ciò determinandosi, oltre alla necessità di riconsiderare la questione dei rapporti internazionali, una serie di conseguenze, sia sul piano normativo che su quello psicologico e sociale, sullo statuto giuridico della comunità di lingua e cultura italiana, ancora una volta afflitta da mutamenti di sovranità nei territori di insediamento storico.
Il riconoscimento della Slovenia e della Croazia come Stati indipendenti poneva, infatti, il problema della loro successione nei trattati precedentemente conclusi con l’Italia, con particolare riguardo ai contenuti del citato art. 8 del Trattato di Osimo. Nella prassi si è verificato che gli Stati successori della Jugoslavia hanno dichiarato di voler subentrare nei trattati stipulati dallo Stato predecessore; l’Italia, per parte sua, ha preso atto di tale volontà, precisando, tuttavia, che quei trattati meritavano un riesame alla luce delle nuove circostanze di fatto[8]. Contestualmente, la preoccupazione del governo italiano per le sorti della propria minoranza, divisa da un confine di Stato, suggeriva la conclusione nel 1992 di un Memorandum di intesa con la Slovenia e la Croazia[9]. Tra i principi elencati nel Memorandum, sui quali avrebbero dovuto fondarsi successivi trattati bilaterali, vi erano la conferma dell’autoctonia, unitarietà e specificità della minoranza italiana – caratteri da cui sarebbe dovuta discendere l’uniformità di trattamento in Slovenia e Croazia – ed il riconoscimento della personalità giuridica dell’Unione italiana come unica organizzazione rappresentativa della minoranza all’interno dei due Stati. Venivano, inoltre, sancite la libertà di movimento tra Slovenia e Croazia per i cittadini sloveni e croati appartenenti alla minoranza italiana, la libertà di lavoro per i cittadini dei due Stati, membri della minoranza, che svolgessero attività ad essa connesse, la tutela contro forme di discriminazione basate sulla cittadinanza degli appartenenti alla minoranza impiegati in uno dei due Stati.
In attuazione del Memorandum del 1992, veniva concluso nel 1996 il Trattato tra Italia e Croazia sui diritti delle minoranze (ratificato dall’Italia con l. 23 aprile 1998, n. 129 e dalla Croazia con l. 19 settembre 1997), specificamente promosso “per porre rimedio alle conseguenze della separazione della minoranza italiana in due Stati distinti” (ultimo considerando del preambolo). Il Trattato stabilisce l’impegno della Croazia a riconoscere i caratteri della autoctonia, della unitarietà e della specificità della minoranza italiana (art. 1), a garantire i “diritti acquisiti”, cioè quelli riconosciuti alla minoranza italiana dai trattati internazionali ratificati dallo Stato predecessore[10] e quelli disciplinati dalla previgente normativa sia di rango federale che locale, nonché i “nuovi diritti”, regolati dalla sopraggiunta legislazione croata (art. 2)[11], ad assicurare la tutela della minoranza italiana al più alto livello raggiunto (art. 3), a riconoscere la personalità giuridica dell’Unione italiana (art. 4), a rendere effettiva la libertà di circolazione ai componenti della minoranza italiana tra Croazia e Slovenia e viceversa (art. 5), nonché la libertà di lavoro in territorio croato ai cittadini sloveni appartenenti alla minoranza italiana per attività connesse alla minoranza stessa (art. 6), a far rispettare il divieto di discriminazione nei luoghi di lavoro per ragioni legate alla nazionalità (art. 7). Per parte sua, l’Italia si impegna a tutelare la minoranza croata di antico insediamento in Molise, cui viene riconosciuto il diritto di conservare ed esprimere la propria identità ed il proprio patrimonio culturale, di usare la propria lingua in pubblico ed in privato, di stabilire e mantenere proprie istituzioni ed associazioni culturali (art. 8). E’ peraltro da escludere l’esistenza di un nesso sinallagmatico tra gli obblighi assunti dal governo di Zagabria e dal governo di Roma, rispettivamente verso la minoranza italiana e quella croata, dal momento che è lo stesso disposto dell’art. 8 a sancire espressamente la sua applicabilità senza pregiudizio per l’adempimento delle clausole precedenti[12].
Se quella sinteticamente richiamata è la normativa pattizia in vigore tra l’Italia e la Croazia – salvo verificarne lo stato di attuazione – a ben diversi esiti conduce l’esame dei rapporti bilaterali con la Slovenia. Quest’ultima, infatti, non ha mai dato seguito alla intenzione, palesata in occasione della mancata firma del Memorandum del 1992, di addivenire ad un accordo con il governo italiano, a causa del rifiuto dell’Italia di assicurare la reciprocità di trattamento ai membri della minoranza slovena stanziata nel territorio della regione Friuli-Venezia Giulia[13]. Non sembrano peraltro applicabili alla Slovenia, né sul piano attivo né su quello passivo, le disposizioni del Trattato italo-croato concernenti la libertà di movimento, la libertà di lavoro ed il divieto di discriminazioni dei cittadini sloveni appartenenti alla minoranza italiana (artt. 5, 6 e 7), poiché nella fattispecie non ricorrono le condizioni cui la Convenzione di Vienna subordina il sorgere di diritti ed obblighi per uno Stato diverso dalle parti contraenti[14]. Nei rapporti con l’Italia, invece, la Slovenia è vincolata al rispetto del Trattato di Osimo, avendo essa stessa dichiarato di voler subentrare alla ex Jugoslavia nei trattati bilaterali conclusi dallo Stato predecessore[15]. In virtù dell’art. 8 del Trattato, pertanto, la Slovenia si impegna ad osservare le misure già adottate dalla Repubblica socialista federativa di Jugoslavia in attuazione del Memorandum di Londra del 1954.
Sul versante degli impegni internazionali recentemente assunti sia dalla Slovenia che dalla Croazia a garanzia delle rispettive situazioni minoritarie, infine, la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del 1992 e la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali del 1994 possono rivelarsi idonee al rafforzamento della protezione e valorizzazione delle identità minoritarie espressamente menzionate da parte dei due ordinamenti in sede di ratifica, tra cui figurano – rispettivamente – la lingua e la minoranza italiana[16].
Nel nuovo ordine costituzionale delle Repubbliche succedute alla Jugoslavia, ai trattati internazionali ratificati ed entrati in vigore è riconosciuto un rango superiore alla legge del parlamento (art. 140 Cost. Croazia 1990), la quale deve ad essi conformarsi (artt. 8 e 153 Cost. Slovenia 1991). Simili affermazioni, particolarmente pregnanti in caso di trattati riguardanti la protezione dei diritti fondamentali e delle minoranze, non sempre, in verità, ricevono attuazione da parte delle autorità nazionali, evidenziandosi così un gap tra le solenni proclamazioni di principio e la loro concreta effettività, come non si mancherà di rilevare nel prosieguo della trattazione.
2. La normativa slovena: l’“autoctonia” come criterio di differenziazione dei gruppi minoritari e presupposto per il riconoscimento di “diritti speciali”
Negli ordinamenti in esame, la minoranza italiana costituisce – secondo la classificazione comunemente accolta delle tipologie minoritarie – una “minoranza nazionale”, essendo formata da cittadini sloveni o croati, stabilmente stanziati nei territori delle Repubbliche succedute alla Jugoslavia, i quali condividono con un diverso Stato (nella fattispecie, l’Italia quale Stato-patria o kin-nation) il patrimonio storico, linguistico e culturale.
La Costituzione slovena del 1991 definisce quelle italiana ed ungherese “comunità nazionali autoctone” e fonda lo speciale regime della loro tutela sul dato della “autoctonia”, cioè dell’insediamento storico e tradizionale entro determinati ambiti geografici, indipendentemente dalla densità demografica, che è di gran lunga inferiore rispetto agli altri gruppi minoritari del Paese[17] (croati, serbi, musulmani, macedoni, albanesi, montenegrini). A questi ultimi non si rivolgono specifiche misure positive di protezione, bensì le disposizioni generali dettate per ogni individuo e riguardanti il divieto di discriminazioni basate, tra l’altro, sulla appartenenza nazionale, sulla razza e sulla lingua (art. 14), il diritto di esprimere liberamente l’appartenenza alla propria nazione o comunità nazionale, di sviluppare la propria cultura, di usare la propria lingua e scrittura (art. 61), conformemente alla legge, per esercitare i propri diritti e doveri, nonché davanti alle pubbliche autorità (art. 62).
Diversamente, il modello di protezione disposto – in ragione del requisito della autoctonia – in favore delle minoranze italiana ed ungherese costituisce uno degli obiettivi dell’azione statale (art. 5) e trova al tempo stesso legittimazione e compendio nella previsione dell’art. 11, la quale, dopo avere statuito che lo sloveno è la lingua ufficiale in Slovenia, proclama la coufficialità dell’italiano e dell’ungherese nelle aree dei comuni in cui risiedono i rispettivi parlanti[18]. Dal riconoscimento della parificazione giuridica delle lingue minoritarie così individuate alla lingua di Stato discende il ricco catalogo delle situazioni soggettive, individuali e collettive, indicate al successivo art. 64, il quale rinvia al legislatore l’adozione delle misure necessarie per rendere effettivi il diritto all’uso dei simboli nazionali in modo da preservare l’identità delle due comunità minoritarie, il diritto di istituire organizzazioni e sviluppare le diverse attività economiche, culturali, scientifiche e di ricerca, nonché quelle connesse al settore dell’informazione e dei media, il diritto all’istruzione nella madrelingua, il diritto di mantenere e sviluppare rapporti con la nazione di origine, il diritto di istituire comunità autogestite nei territori di residenza e rispetto alle quali lo Stato si impegna al finanziamento delle attività, il diritto delle comunità autoctone di essere rappresentate nelle assemblee locali e nella assemblea nazionale, il diritto di partecipare ai processi di decisione politica che riguardino le situazioni soggettive costituzionalmente riconosciute alle comunità italiana ed ungherese ed il corrispondente obbligo per lo Stato di acquisire, in tali casi, il consenso dei loro rappresentanti.
Si tratta di garanzie che, per espressa previsione costituzionale, prescindono dalla consistenza numerica della popolazione minoritaria (art. 64, 4° comma) e che vengono configurate nella duplice dimensione individuale e collettiva[19]. Così disponendo, il costituente sloveno ha volutamente derogato ai principi generalmente accolti dagli ordinamenti contemporanei che subordinano l’operatività delle misure di protezione alla presenza stabile entro ambiti geografici predefiniti di una percentuale minima di parlanti, da determinarsi in base ai periodici rilevamenti statistici della popolazione nazionale, ovvero ad un congruo numero di richieste, di volta in volta prescritto dalle leggi di settore. Inoltre, la specifica considerazione del gruppo sociale quale titolare delle situazioni soggettive enumerate[20] differenzia l’approccio del legislatore sloveno da quello consolidato nella concezione occidentale, oltre che in seno alla comunità internazionale, ove tradizionalmente prevale la concezione individualistica dei diritti fondamentali, compresi quelli riconosciuti agli appartenenti alle minoranze (etniche, linguistiche, nazionali, religiose), tutt’al più ammettendosene l’esercizio in comune con gli altri membri del gruppo[21].
La previsione costituzionale dell’art. 64 ha ricevuto attuazione attraverso numerosi interventi del legislatore, diretti a garantire – specialmente a seguito della ratifica delle citate Carta europea delle lingue regionali o minoritarie e Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali[22] – la conservazione della identità minoritaria ed a disciplinare l’impiego della lingua italiana nei diversi ambiti pubblici, in ottemperanza al criterio della territorialità linguistica, individuato dall’ordinamento, sebbene non in forma esclusiva, per l’implementazione delle diverse misure di tutela. Senza pretesa di esaustività[23], meritano particolare attenzione – anche per la necessità di un balancing test che talora impongono all’interprete in termini sia di rapporto tra diversi valori costituzionali, sia tra i diritti delle minoranze e quelli della maggioranza della popolazione – i profili relativi alla libera utilizzazione da parte della comunità autoctona italiana dei propri simboli nazionali, all’uso della lingua nella scuola e nei rapporti con le pubbliche autorità, alla rappresentanza negli organi politici ed alla partecipazione ai processi decisionali di specifico interesse minoritario. In proposito, non sono mancate alcune significative pronunce della Corte costituzionale, che hanno contribuito alla progressiva definizione dello statuto giuridico delle comunità autoctone italiana ed ungherese. Così, in relazione al diritto costituzionalmente sancito all’uso dei simboli nazionali, la Corte ha statuito che la coincidenza delle bandiere delle comunità italiana ed ungherese con quelle delle rispettive nazioni di origine non costituisce una violazione della Costituzione, la quale si limita a riconoscere tale diritto “irrespective of whether these are identical with the symbols of the Italian or Hungarian State”[24].
Ai membri della minoranza italiana è garantita nelle aree dichiarate mistilingui (c.d. ethnically mixed areas) dai rispettivi statuti comunali l’istruzione pubblica nella madrelingua, dal livello prescolare a quello secondario, secondo il modello prescelto del monolinguismo, con la previsione dello studio obbligatorio dello sloveno o dell’italiano per gli allievi rispettivamente scolarizzati in lingua italiana o slovena[25]. La reciproca conoscenza e l’integrazione culturale tra la comunità minoritaria e quella maggioritaria ricevono, dunque, garanzia nella formale previsione dell’obbligo posto a carico degli allievi di madrelingua slovena che risiedono nei territori mistilingui di apprendere la lingua italiana[26]. Lo Stato deve assicurare il mantenimento e lo sviluppo degli istituti di insegnamento, contribuendo al loro finanziamento anche con la partecipazione della minoranza attraverso la comunità autogestita. Peraltro, l’opzione del monolinguismo non produce i suoi effetti limitatamente alle modalità per impartire l’insegnamento delle materie curricolari, ma altresì nella amministrazione scolastica, nella selezione del personale e nella scelta dei materiali didattici[27].
Oltre che nella scuola, la tutela della minoranza italiana è assicurata nel settore dell’informazione e dei mass media: così, la Slovenia è subentrata alla Jugoslavia nell’obbligo di riconoscere, a condizioni di reciprocità con l’Italia, al gruppo etnico italiano il diritto alla stampa di giornali e quotidiani nella madrelingua[28]; lo sloveno è la lingua usata nelle trasmissioni radiotelevisive, ma se queste sono rivolte alla comunità italiana (o ungherese) la trasmissione può essere realizzata nella lingua della minoranza[29]; il servizio pubblico radiotelevisivo provvede alla creazione, preparazione e diffusione di programmi per la comunità italiana (e ungherese) con fondi statali; le due comunità autoctone sono rappresentate nell’organismo nazionale competente in materia di programmazione e vigilanza; è previsto un numero minimo di ore/minuti giornalieri per le trasmissioni radiofoniche/televisive di carattere culturale, informativo, educativo e di intrattenimento destinate alla comunità italiana (e ungherese)[30], oltre al fatto che il segnale radiotelevisivo italiano può essere ricevuto con facilità nelle zone mistilingui, in modo da mantenere e rafforzare il legame con il vicino Stato-patria.
Davanti alle autorità giurisdizionali, il processo si svolge in forma bilingue (sloveno-italiano o sloveno-ungherese) nei territori di insediamento delle comunità autoctone se le parti sono di madrelingua diversa, mentre il processo è monolingue (sloveno o italiano o ungherese) in presenza di una sola delle parti oppure se entrambe le parti parlano lo stesso idioma; analogo criterio si applica per la redazione dei verbali. In ogni caso, a prescindere dallo svolgimento – bilingue o monolingue – del processo, le decisioni vengono riportate in sloveno e italiano (oppure sloveno e ungherese) ed, inoltre, le sentenze delle giurisdizioni superiori e della Corte suprema vengono tradotte nella lingua della comunità nazionale autoctona, qualora il processo di primo grado sia stato condotto anche nella lingua minoritaria. Lo svolgimento dei processi in forma bilingue richiede la specifica preparazione linguistica dei magistrati, appositamente accertata, e comporta oneri e spese, che sono posti a carico dello Stato e non delle parti[31]. L’uso della lingua italiana è previsto, altresì, nei procedimenti amministrativi che hanno luogo nei comuni di insediamento storico della minoranza, se le parti appartengono alla comunità nazionale italiana e usano l’italiano, con l’ulteriore precisazione che, se l’organo amministrativo di prima istanza ha condotto il procedimento in italiano, nella medesima lingua deve svolgersi il procedimento davanti all’organo di seconda istanza[32].
A tutela del bilinguismo è prescritta la traduzione in sloveno degli interventi nelle sedute della assemblea nazionale e nelle riunioni degli organi elettivi dei comuni dell’area mistilingue[33], nonché negli avvisi pubblici e nella toponomastica. In quest’ultimo settore il c.d. bilinguismo visivo è assicurato da apposite normative statali e locali, le quali prevedono la partecipazione dei rappresentanti della minoranza, attraverso la comunità etnica autogestita, ai procedimenti per la denominazione degli abitati e delle strade nelle aree mistilingui[34].
Alla protezione della minoranza italiana si rivolge, inoltre, la normativa espressamente dettata in materia elettorale. In conformità a quanto dispongono l’art. 64, 3° comma e l’art. 80, 3° comma, Cost., il legislatore ha previsto il meccanismo della rappresentanza politica garantita della comunità italiana (così come di quella ungherese) negli organi elettivi dello Stato, delle regioni e delle municipalità. In seno alla assemblea nazionale ciascuna delle due comunità autoctone è rappresentata da un deputato, da eleggersi secondo il meccanismo del doppio voto che attribuisce ai membri delle due minoranze – e soltanto ad essi – il diritto di esprimere sia la propria preferenza politica in qualità di cittadini sloveni, sia la propria appartenenza etnica in quanto componenti di una comunità minoritaria. Peraltro, l’espressione del secondo voto non può trovare fondamento in una mera dichiarazione rilasciata a titolo individuale, essendo subordinata all’esito positivo di una apposita verifica da parte della commissione della comunità etnica autogestita, secondo i criteri individuati dal parlamento[35]. Anche nei consigli regionali e municipali dei territori mistilingui almeno un seggio deve essere riservato, conformemente alla Costituzione ed alle leggi, agli esponenti delle minoranze autoctone; gli statuti comunali dispongono in proposito la presenza di due (Isola) o tre (Pirano e Capodistria) componenti in rappresentanza della comunità italiana[36].
Il tema della rappresentanza politica delle minoranze etniche assume, dunque, un rilievo peculiare nell’ordinamento sloveno – oltre che, come si vedrà, in quello croato – che, combinando il sistema del doppio voto con quello delle quote garantite, introduce una serie di deviazioni rispetto alle regole generali disposte per la selezione dei candidati alle assemblee legislative ed al principio della eguaglianza del voto. Si tratterebbe, tuttavia, di previsioni derogatorie “non incostituzionali” ed, anzi, dirette ad attuare una discriminazione positiva conforme al dettato costituzionale, che riconosce “diritti speciali” alle comunità autoctone ed ai loro componenti (art. 64 Cost.)[37]. Tuttavia, la valorizzazione della dimensione collettiva della rappresentanza accanto a quella individuale, congiuntamente alla compressione se non addirittura alla negazione del principio del divieto di mandato imperativo[38] sono aspetti, peraltro comuni a numerosi Stati abituati a misurarsi con il fenomeno minoritario, che evidenziano il netto distacco dalla tradizione liberale e pongono il delicato problema del bilanciamento tra diversi valori costituzionali, tutti teoricamente meritevoli di protezione.
A livello municipale la rappresentanza della minoranza italiana trova ulteriore espressione nella costituzione delle comunità etniche autogestite, più volte menzionate. Si tratta di organismi di diritto pubblico previsti dall’art. 64 Cost. e disciplinati dalla legge[39] per tutelare gli interessi della minoranza italiana nei tre comuni in cui questa è storicamente insediata, attraverso il riconoscimento di svariate attività, tra cui l’esercizio di un potere consultivo, che per talune materie è vincolante[40], nella definizione delle questioni di interesse minoritario.
Se le normative settoriali sopra sinteticamente richiamate in relazione ai più rilevanti ambiti pubblici trovano applicazione nelle aree di insediamento storico della minoranza italiana, non si può trascurare che, almeno per alcuni profili, il modello della tutela minoritaria adottato dal legislatore sloveno prescinde dal prevalente principio della territorialità. Così, indipendentemente dal luogo di residenza, agli appartenenti alle due comunità autoctone sono riconosciuti il diritto di apprendere, a certe condizioni, la lingua materna[41] e, subordinatamente alla iscrizione in uno speciale registro elettorale, il diritto di esprimere i propri rappresentanti alla assemblea nazionale[42].
D’altra parte, l’operatività del generale criterio territoriale non manca di produrre i suoi effetti anche nei confronti degli appartenenti alla componente maggioritaria della popolazione: il rispetto del bilinguismo nella toponomastica e nei documenti di identificazione personale, ad esempio, si impone a tutti coloro che, a prescindere dalla appartenenza etnica, risiedono nei comuni mistilingui, ove peraltro l’obbligo di apprendere la lingua e cultura minoritaria nelle scuole pubbliche si estende, come accennato, agli allievi di lingua e nazionalità slovena.
3. La normativa croata: l’“autoctonia” come requisito generico per la tutela delle minoranze nazionali
Sotto la vigenza del regime socialista, la Costituzione della Repubblica di Croazia definiva quest’ultima come “lo Stato nazionale del popolo croato, lo Stato del popolo serbo di Croazia e lo Stato delle nazionalità ivi residenti” (art. 1, 2° comma); veniva proclamata l’eguaglianza dei popoli e delle nazionalità (art. 137); era disposto che la lingua ufficiale fosse quella croata, ma la Costituzione sanciva l’eguaglianza e l’uso pubblico delle lingue e degli alfabeti delle nazioni e nazionalità nei rispettivi territori, attribuendo ai comuni le competenze necessarie per assicurare l’effettività delle suddette garanzie (art. 138)[43].
La Costituzione del 1990 conservava in parte la caratterizzazione etnica dello Stato, qualificando la Croazia come “lo Stato nazionale del popolo croato” ed altresì come “lo Stato di altri popoli e minoranze…”. Venivano, tuttavia, in considerazione alcuni mutamenti, non soltanto formali, consistenti nella sostituzione del termine “nazionalità” con quello di “minoranze” e la soppressione del distinto riferimento al popolo serbo, i cui componenti venivano ora ricompresi nella categoria dei cittadini croati che appartengono ai popoli ed alle minoranze, esplicitamente enumerati (oltre ai serbi, musulmani, sloveni, cechi, slovacchi, italiani, ungheresi, ebrei) (preambolo Cost. 1990).
La revisione costituzionale del 1997 modificava sia l’impostazione che il contenuto del preambolo: è stata, infatti, eliminata la menzione di “altri popoli”, oltre a quello croato, e la locuzione “minoranze autoctone nazionali” ha preso il posto di “minoranze”. Ne è conseguita una riformulazione che definisce la Croazia come “lo Stato nazionale del popolo croato e lo Stato dei membri delle minoranze autoctone nazionali: serbi, cechi, slovacchi, italiani, ungheresi, ebrei, tedeschi, austriaci, ucraini, ruteni ed altri che sono suoi cittadini, ai quali è garantita l’eguaglianza con i cittadini croati e l’esercizio dei loro diritti, in conformità con le regole democratiche della Organizzazione delle Nazioni Unite e dei Paesi del mondo libero” (penultimo alinea del preambolo, Cost. rev. 1997).
Il richiamo alla “autoctonia” potrebbe indurre a pensare che il legislatore costituzionale croato abbia inteso ispirarsi all’approccio seguito nella vicina Slovenia; tuttavia, ad una osservazione appena meno superficiale affiorano alcuni motivi di perplessità circa l’impiego della mutata terminologia, a parte il fatto che in occasione della revisione il parlamento modificava la lista dei gruppi (popoli e minoranze) originariamente previsti nel preambolo della Costituzione del 1990. Il requisito della autoctonia non è assunto dal legislatore croato per introdurre un regime differenziato e privilegiato di tutela per talune comunità di lingua e cultura minoritaria che, in considerazione dell’insediamento storico entro ambiti geografici definiti, verrebbero ammesse a godere di diritti speciali, come accade in Slovenia. Sembra, piuttosto, che nel testo della Costituzione croata l’autoctonia – concetto peraltro limitato al preambolo e non ripreso nelle successive disposizioni costituzionali relative alla tutela delle “minoranze nazionali”[44] – costituisca il generico presupposto per dettare uno statuto omogeneo per tutti i gruppi minoritari, sia per quelli espressamente elencati che, eventualmente, per altre comunità, le quali senza una apparente ragione sono state cancellate (sloveni, musulmani) o pretermesse (rom, macedoni, montenegrini, albanesi) nell’ambito di una enumerazione che non parrebbe tassativa[45].
A conferma della scelta per la uniformità di trattamento e per la eguaglianza dei diritti dei membri di tutte le minoranze nazionali depone espressamente l’art. 15 Cost. (1° comma), il quale riconosce alle minoranze il diritto di eleggere i propri rappresentanti politici, la libertà di manifestare la loro appartenenza nazionale, di usare la loro lingua e scrittura, di esprimere la propria autonomia culturale, rinviando ad una legge costituzionale la formulazione degli strumenti più idonei per la realizzazione dei principi costituzionali. Inoltre, il disposto dell’art. 12 Cost. affida alla legge la regolamentazione dell’uso ufficiale di altre lingue e scritture che, accanto alla lingua croata ed alla scrittura latina, possono essere introdotte in sede locale. La disciplina di attuazione dei disposti costituzionali è racchiusa a livello statale, essenzialmente, nella legge costituzionale sui diritti delle minoranze nazionali del 13 dicembre 2002 e nelle leggi, entrambe adottate nel 2000, sulla educazione e istruzione nella lingua e scrittura delle minoranze nazionali, e sull’uso delle lingue e scritture degli appartenenti alle minoranze nazionali[46] sulla cui elaborazione hanno certamente influito la ratifica della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie[47] e della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali ed i meccanismi rispettivamente predisposti per monitorare l’adempimento delle obbligazioni assunte dal governo croato.
Il diritto degli appartenenti alle minoranze nazionali di ricevere l’istruzione nella propria lingua e scrittura nelle istituzioni prescolari, nelle scuole elementari, medie e superiori come pure in altre istituzioni scolastiche viene garantito mediante apposita selezione del personale docente, indipendentemente dai requisiti numerici e demografici che invece operavano nella disciplina precedente. Pertanto, ai sensi della normativa interna, la creazione di strutture scolastiche in lingua minoritaria oppure di classi speciali nelle scuole con insegnamento in lingua croata è possibile anche per un numero di studenti inferiore rispetto a quanto prescritto per le scuole pubbliche in lingua croata. Il piano di insegnamento ed il programma educativo nella lingua e grafia minoritaria vengono approvati dal ministro della pubblica istruzione previo parere delle associazioni delle minoranze nazionali e comprendono obbligatoriamente, accanto ad una parte generale, una parte relativa alle peculiarità linguistiche, letterarie, storiche, geografiche e culturali della minoranza nazionale. Agli studenti che scelgono l’istruzione nella lingua minoritaria è imposto l’obbligo di studiare anche la lingua croata e la scrittura latina. Non vale, invece, il principio di reciprocità: diversamente da quanto previsto nell’ordinamento sloveno, agli studenti delle scuole in lingua croata è riconosciuta la “possibilità” di studiare l’idioma minoritario in uso ufficiale nel territorio dell’ente locale di residenza[48]. A livello territoriale, le competenze sono distribuite tra gli enti locali e le regioni a seconda, rispettivamente, che si abbia riguardo all’educazione e alla formazione primaria ovvero al settore scolastico[49]. Più precisamente, ai sensi del vigente statuto istriano, la regione adotta prescrizioni nei settori dell’educazione prescolastica, dell’istruzione elementare e di quella media superiore (art. 14); agli appartenenti alla comunità nazionale italiana è garantito il diritto all’istruzione elementare, media, superiore e universitaria nella madrelingua, secondo programmi speciali idonei a trasmettere la conoscenza della loro storia, cultura, scienze e delle proprie caratteristiche nazionali (art. 27), incoraggiandosi, altresì, nei comuni e nelle città bilingui l’insegnamento della lingua italiana quale lingua dell’ambiente sociale tra gli alunni scolarizzati in lingua croata (art. 30)[50]. Nei comuni ove vige l’uso ufficiale dell’italiano, si rinvengono ulteriori disposizioni dirette a garantire il diritto all’istruzione in lingua italiana, l’obbligatorietà dell’insegnamento bilingue in tutti i gradi dell’istruzione (statuto di Umago) ovvero limitatamente alle scuole elementari e medie (statuto di Rovigno), mediante la costituzione di istituti separati o sezioni differenziate nell’ambito della medesima struttura scolastica.
Diversamente da quanto disposto per l’operatività delle misure di tutela nel settore scolastico, l’uso paritario ufficiale della lingua minoritaria nelle unità di autogoverno locale, conformemente all’art. 12 Cost., è subordinato all’accertamento della consistenza della popolazione minoritaria. Previa verifica positiva di tale requisito, la normativa garantisce l’impiego della lingua e scrittura della minoranza nelle attività degli organismi rappresentativi ed esecutivi e nei procedimenti davanti agli organi amministrativi dei comuni, delle città e delle regioni, nonché nei procedimenti davanti alle autorità amministrative statali di prima istanza, ai tribunali di primo grado, alle procure della Repubblica, alle avvocature di Stato di prima istanza, ai notai ed alle persone giuridiche con poteri pubblici[51]. In proposito, gli statuti dei comuni di Umago e Rovigno sanciscono la coufficialità e la pariteticità delle lingue croata ed italiana nelle attività pubbliche, sia nelle comunicazioni scritte che orali, con l’obbligo per il personale della conoscenza di entrambi gli idiomi.
Nella regione Istria, la garanzia dell’uso pubblico della lingua italiana è pervenuta in due occasioni al cospetto delle autorità centrali. La prima volta, su ricorso del governo, la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale di numerose disposizioni dello statuto regionale (approvato nel marzo 1994) e disponeva l’abrogazione del regime di bilinguismo, motivando che all’ordinamento croato sono estranee le nozioni di bilinguismo e multilinguismo e che la Costituzione non prevede la “parificazione nell’uso”, bensì “l’uso pubblico e ufficiale” delle lingue delle minoranze (sent. 2 febbraio 1995). L’adozione della citata legge del 2000, che ha riconosciuto l’uso ufficiale delle lingue e scritture degli appartenenti alle minoranze nazionali e la loro pariteticità con la lingua croata ed i caratteri latini (art. 1), non impediva per la seconda volta al governo di manifestare la sua opposizione ad alcuni articoli del nuovo statuto dell’Istria approvato nell’aprile 2001. Tra le disposizioni sospese, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale, l’art. 6 – che disponeva con formula generale la pariteticità delle lingue croata ed italiana nella regione – veniva modificato dalla assemblea regionale che, sulla base delle indicazioni del governo, sostituiva alla originaria formulazione la più circoscritta previsione dell’uso ufficiale paritario dei due idiomi con riferimento alle attività degli organi regionali nell’ambito dell’autogoverno locale[52].
Con riferimento alle altre possibili applicazioni del modello di tutela minoritaria, il legislatore ha riconosciuto alle minoranze autoctone, sulla scorta dell’art. 15, 3° comma, Cost., la rappresentanza nel parlamento nazionale (Sabor) e nelle assemblee legislative locali, oltre che negli organi amministrativi e giurisdizionali dello Stato e negli organi esecutivi regionali e locali. La garanzia del diritto alla rappresentanza nel Sabor – dopo alterne vicende che hanno comportato sospensioni e modifiche alla normativa adottata – trova ora specificazione nella legge costituzionale del 13 dicembre 2002 che ha optato per la previsione di una soglia minima e massima di deputati in ragione della consistenza demografica delle diverse comunità minoritarie ed ha rimesso al legislatore ordinario la determinazione del numero di seggi da attribuire in concreto a ciascuna di esse. Dando attuazione alla flessibilità della soluzione così individuata, la legge elettorale del 1991, già modificata nel 1999[53], è stata ulteriormente emendata nel 2003 ed ha assegnato alle minoranze che superano l’1,5% della popolazione nazionale (soltanto i serbi) la quota di tre seggi, alle minoranze italiana ed ungherese un seggio ciascuna, mentre altri tre seggi sono attribuiti alle restanti comunità. In sede locale (regioni, città, comuni), la legge fissa direttamente il numero di seggi da assegnare alle comunità minoritarie, le quali hanno diritto ad un seggio nelle assemblee legislative regionali o locali se la loro consistenza è compresa tra il 5% ed il 15% della popolazione, rispettivamente nella regione o nell’ente locale, mentre si applica il criterio proporzionale in caso di percentuale superiore. Il meccanismo della rappresentanza proporzionale a livello sia regionale che locale, peraltro, può essere derogato, se non sia diversamente disposto dalla legge per le elezioni degli organi dell’autogoverno locale, nel senso di assicurare alle comunità minoritarie una rappresentanza anche superiore alla quota cui avrebbero diritto in base al principio di proporzionalità (art. 20, 3° e 4° comma e art. 21 legge cost. 13 dicembre 2002)[54].
4. Dal piano formale a quello della effettività delle garanzie: un raffronto (dagli esiti ancora incerti e parziali) tra i due modelli di tutela. Conclusioni
Contrariamente a quanto sancito nel Memorandum trilaterale del 1992 e successivamente ribadito nel Trattato italo-croato del 1996, gli ordinamenti della Slovenia e della Croazia non hanno dato seguito al testuale riconoscimento dei caratteri dell’autoctonia, unitarietà e specificità della minoranza italiana; è stato pertanto disatteso l’impegno, chiaramente sotteso a quelle affermazioni, di assicurare l’omogeneità di trattamento giuridico alla comunità di lingua e cultura italiana, artificiosamente divisa da un confine politico a seguito della cessazione della sovranità jugoslava.
I due Stati, infatti, non hanno adottato il medesimo approccio al tema minoritario, sebbene, almeno sul piano delle garanzie formali, i modelli prescelti presentino aspetti di analogia e, comunque, un grado di attenzione piuttosto elevato verso gli idiomi ed i gruppi minoritari. Interventi legislativi ad hoc si sono susseguiti in entrambi gli ordinamenti, dagli anni Novanta del secolo scorso, al fine di dare attuazione alle prescrizioni costituzionali e di assicurare l’uso pubblico ufficiale delle lingue minoritarie nei territori di insediamento dei rispettivi parlanti.
Come accennato nelle pagine precedenti, il requisito della “autoctonia” non è stato assunto nella medesima accezione e soprattutto con le medesime finalità: se, infatti, il legislatore sloveno ha fondato sul carattere autoctono di talune comunità minoritarie, tra cui quella italiana, l’introduzione di uno statuto giuridico particolarmente generoso e distinto da quello genericamente previsto per gli altri gruppi alloglotti, ancorché più numerosi, il legislatore croato ha optato, invece, per un regime uniforme di tutela, da applicare indifferentemente agli appartenenti alle minoranze nazionali autoctone indicate nell’ultima versione del preambolo, salvo lasciare residuare dubbi in ordine al carattere tassativo o meno della stessa enumerazione. Inoltre, se le misure dettate in Slovenia per la tutela delle comunità autoctone prescindono dal dato numerico e non mancano di produrre effetti anche nei confronti degli appartenenti alla componente maggioritaria residenti nell’area mistilingue, talora persino in forma obbligatoria come nel settore dell’educazione, in Croazia, viceversa, l’accertamento della consistenza demografica della popolazione minoritaria costituisce, di massima, il necessario presupposto per la realizzazione dei diritti linguistici, la cui previsione non si traduce in altrettanti obblighi per i membri della maggioranza, bensì, tutt’al più, in un semplice “incoraggiamento” all’esercizio di determinate facoltà, come prova la sopraggiunta modifica dello statuto istriano in relazione all’apprendimento – specialmente stimolato, ma non obbligatoriamente previsto – della lingua italiana negli istituti di insegnamento in lingua croata.
Va peraltro evidenziato che la maggiore sensibilità e consapevolezza verso la minoranza italiana, così come traspare dall’impianto complessivo della normativa slovena e che non trova esatta corrispondenza nella omologa normativa croata, non discende dall’adempimento di impegni internazionali specificamente assunti con l’Italia in epoca recente[55], impegni invece ai quali sarebbe tenuta la Croazia in virtù della firma del citato Memorandum e della ratifica del Trattato bilaterale del 1996. Ferma restando la vigenza delle disposizioni del Trattato di Osimo, il modello di tutela adottato dalla Slovenia si basa, dunque, su una scelta autonoma del legislatore nazionale, per quanto in qualche modo “eterodiretta” in conseguenza della adesione al Consiglio d’Europa e ad altri organismi europei impegnati nella tutela delle minoranze, della ratifica di documenti internazionali e regionali più o meno direttamente riguardanti il tema minoritario, nonché della aspirazione – esaudita nel maggio 2004 – all’ingresso nella Unione europea.
A questo punto, se si sposta l’indagine sul piano della prassi applicativa, si possono riscontrare tra i due ordinamenti più elementi di affinità di quanto non sia dato rinvenire a livello di previsioni formali. In altre parole, le diversità sopra evidenziate, non tanto nella scelta – che è comune ai legislatori di Slovenia e Croazia – di predisporre strumenti di tutela positiva del fenomeno minoritario, quanto nei metodi e nella modulazione dei contenuti di tali strumenti, si riducono sensibilmente nella fase della attuazione, nel senso che entrambi i modelli, in astratto complessivamente soddisfacenti, spesso si sono rivelati e talora continuano a rivelarsi di problematica realizzazione pratica.
Emblematiche, con riferimento alla Croazia, sono le vicende che hanno interessato lo statuto regionale dell’Istria: se, a voler accogliere l’interpretazione formulata nel 1995 dalla Corte di Zagabria, la proclamazione del bilinguismo nel primo statuto poteva risultare incostituzionale, l’impugnativa promossa dal governo avverso il secondo statuto di autonomia solleva quanto meno dubbi di opportunità, essendo nel frattempo mutato il contesto normativo di riferimento, come sembra potersi evincere dalla intervenuta modifica della legge costituzionale sui diritti delle minoranze nazionali già nel 2000 (prima di essere completamene sostituita nel 2002) e dalla adozione nello stesso anno delle leggi sull’insegnamento e sull’uso paritetico delle lingue minoritarie e della lingua croata. Dalle citate normative lo statuto approvato nel 2001 traeva, infatti, ispirazione e fondamento, senza trascurare che il Trattato concluso con l’Italia nel 1996 impegnava il governo croato, tra l’altro, ad assicurare al più elevato livello raggiunto l’uniformità di trattamento della minoranza italiana all’interno del suo territorio, uniformità da realizzarsi anche attraverso la graduale estensione del regime accordato alla minoranza italiana dell’ex Zona B a tutto il territorio del suo insediamento storico (art. 3). Gli emendamenti apportati allo statuto dalla assemblea regionale istriana, a seguito dei rilievi governativi, testimoniano della significativa compressione delle garanzie del bilinguismo e della identità culturale della minoranza italiana nella regione.
Sembra, allora, che nonostante i progressi della legislazione statale nel perfezionamento dello statuto giuridico delle minoranze e nonostante la maggiore disponibilità nella disciplina delle situazioni minoritarie manifestata sia verso il governo italiano, con la firma del Memorandum di intesa nel 1992 e la stipulazione del Trattato sulle minoranze nel 1996, sia nei confronti delle iniziative del Consiglio d’Europa, come risulta dalla ratifica della Carta delle lingue regionali o minoritarie e della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, le autorità croate abbiano continuato a mantenere un atteggiamento per molti aspetti confuso e contraddittorio che sottende la riluttanza ad impegnarsi per rendere effettive le misure di tutela, formalmente sottoscritte probabilmente più allo scopo di manifestare e consolidare a livello internazionale un atteggiamento di favore verso le situazioni minoritarie che per effetto di una scelta autonoma e realmente consapevole. Ne costituiscono conferma, al di là delle significative vicende dello statuto istriano, i ritardi e le carenze nella attuazione pratica di talune normative di tutela[56] e le palesi smentite intervenute nella fase immediatamente successiva alla assunzione dei riferiti obblighi internazionali, come in occasione della cancellazione disposta nel 1997 dalle autorità croate delle scritte in italiano dalle schede elettorali nei comuni istriani ove vige il regime di bilinguismo[57] e nella indicazione dei seggi per le elezioni amministrative del 2005 nella sola lingua croata.
Per la delicatezza della questione, un rilievo particolare merita il contenzioso costituzionale relativo al rispetto dei diritti acquisiti della minoranza italiana in Croazia. La citata sentenza della Corte di Zagabria del 1995, oltre alle disposizioni sul bilinguismo e sull’impiego dell’italiano davanti alle pubbliche autorità, travolgeva altresì la previsione che riconosceva nell’Unione italiana l’unico organismo rappresentativo della minoranza italiana in Slovenia e Croazia (art. 29 statuto Istria 1994), sulla base del fatto che la libertà di associazione, sancita dall’art. 43 Cost., non può incontrare limitazioni nello statuto di una unità di autogoverno locale, né una associazione può rivestire una posizione di privilegio rispetto ad altre. Così argomentando, la Corte costituzionale accoglieva il ricorso del governo e mostrava di non tenere in alcuna considerazione la clausola del Memorandum del 1992 che aveva sancito la personalità giuridica dell’Unione italiana da parte del diritto interno croato e sloveno[58]. Ad esiti analoghi la Corte giungeva con il rigetto del ricorso promosso dalla regione Istria avverso le misure assunte dal ministero della pubblica amministrazione e dalla corte amministrativa della Repubblica di Croazia per la rimozione delle targhe in lingua italiana dal palazzo della regione, non rinvenendo nella fattispecie il mancato rispetto dei diritti acquisiti, lamentato dalla ricorrente, e riconoscendo in maniera estremamente stringata e laconica la conformità dei provvedimenti adottati con il sopraggiunto art. 12 della legge costituzionale del 13 dicembre 2002[59].
A diversa conclusione conduceva, invece, il giudizio scaturito da un ricorso della Unione italiana nei confronti di alcuni atti del ministero dell’istruzione e dello sport in materia di insegnamento della lingua italiana: in quella occasione, la Corte di Zagabria dichiarava che la normativa nazionale non può introdurre per la comunità italiana un regime meno favorevole di quello in vigore sulla base dei diritti acquisiti ai sensi, nel caso in esame, del Trattato italo-croato ratificato dalla Croazia nel 1997[60]. D’altra parte, la Corte costituzionale sembra ben consapevole della necessità che il legislatore predisponga misure per realizzare la c.d. discriminazione positiva, ad esempio, riservando alle minoranze nazionali un certo numero di seggi nella assemblea parlamentare, che consenta “la protezione degli interessi minoritari nel processo di decisione politica, indipendentemente dal numero dei componenti e la partecipazione all’esercizio del potere politico attraverso propri rappresentanti”[61].
Da quanto sinteticamente tratteggiato risulta un quadro in chiaroscuro, nel quale la Corte costituzionale, di fronte alle questioni variamente sottoposte al suo esame e concernenti i diritti linguistici della minoranza italiana, con particolare riguardo al tema dei diritti acquisiti, ha offerto soluzioni non sempre lineari e coerenti, talora avallando e talaltra respingendo le posizioni assunte dalle autorità governative in violazione della normativa vigente, anche di rilievo internazionale.
Se le perplessità maggiori scaturiscono dalla osservazione della attuazione della normativa croata, anche nella vicina Slovenia, a dispetto della dettagliata disciplina dettata a tutela delle comunità autoctone, non mancano di registrarsi casi di sospensione giudiziaria di normative, le quali finiscono quindi per essere smentite alla prova dei fatti: la difficoltà di rendere operativo il bilinguismo nella pratica quotidiana è riscontrabile soprattutto nei settori dei servizi pubblici e delle attività economiche e produttive ove sarebbero necessari, a tal fine, maggiori investimenti finanziari. In tale settore, la Corte costituzionale statuiva nel 2004 la sospensione dell’art. 2 della legge sui diritti dei consumatori, relativo – in teoria – all’impiego paritario della lingua slovena e della lingua minoritaria nelle aree mistilingui[62]. La stessa partecipazione agli affari pubblici, costituzionalmente proclamata, non sempre riesce ad assicurare la tutela delle istanze minoritarie, sia per l’esiguità numerica della rappresentanza garantita, che con un solo componente alla assemblea nazionale non è certo in grado di influenzare il processo di decisione politica[63], sia per il ruolo prevalentemente consultivo e talora negligentemente attivato da parte delle autorità centrali della comunità etnica autogestita[64].
Sebbene non possa trascurarsi la questione dell’inadempimento, specialmente da parte croata, di precise obbligazioni internazionali, va preso atto degli sforzi positivamente intrapresi dai legislatori di Slovenia e Croazia per la tutela e promozione dei diritti linguistici della minoranza autoctona italiana, ma va altresì sottolineato che il faticoso cammino sulla strada della effettività delle garanzie formalmente previste non è ancora concluso. Il raggiungimento di tale obiettivo richiede, infatti, il sinergico adoperarsi delle autorità nazionali, sia statali che locali, degli organismi sovranazionali preposti alla periodica verifica della implementazione di impegni internazionali e, non ultimo, della stessa comunità minoritaria.
In primo luogo, occorre rispettare e applicare la normativa vigente, certamente perfettibile ma allo stato attuale di massima apprezzabile, evitandosi da parte delle pubbliche autorità, compresi gli organi di garanzia costituzionale, atteggiamenti diffidenti, equivoci o addirittura ostativi nei confronti delle prescrizioni legislative. A tal fine, può sicuramente rivelarsi utile l’apporto degli organi istituiti dal Consiglio d’Europa per verificare l’attuazione delle prescrizioni contenute – e ratificate sia dalla Slovenia che dalla Croazia – nella Carta europea delle lingue regionali o minoritarie e nella Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali. Nonostante si tratti di un sistema di controllo comunemente definito “debole” per le modalità in cui è strutturato, che finiscono per rimettere, in definitiva, alla buona fede degli stessi Stati firmatari la realizzazione delle disposizioni racchiuse nei due documenti[65], vale la pena ricordare che esso consente di monitorare costantemente le azioni dei governi nazionali. In tale prospettiva si collocano, ad esempio, le reiterate sollecitazioni dirette alle autorità slovene per rendere effettivo l’impiego della lingua italiana nei processi, vincendo la riluttanza talora manifestata dagli stessi parlanti all’impiego della madrelingua per la possibilità di rallentamenti nell’iter procedurale; nei rapporti con le pubbliche amministrazioni, favorendosi la preparazione linguistica del personale; nei media, nella segnaletica e nel settore dei servizi pubblici, mediante lo stanziamento di maggiori risorse finanziarie. Gli stessi organi di controllo fanno presente alle autorità slovene la necessità di realizzare la tutela dei parlanti la lingua italiana, secondo quanto suggerito dalla Corte costituzionale, anche nelle aree diverse da quelle di insediamento storico, purché identificabili con la collaborazione degli stessi parlanti e previo accertamento della presenza stabile della comunità minoritaria[66]. D’altra parte, in attuazione dei citati documenti regionali, la conclusione di convenzioni bilaterali tra Stati contermini per la tutela delle rispettive minoranze nazionali (ad es. accordi di amicizia e buon vicinato) e la promozione della cooperazione transfrontaliera (art. 18 Convenzione-quadro e, in senso analogo, art. 14 Carta europea delle lingue) possono rivelarsi efficaci sia per rafforzare il legame tra popolazioni divise da una frontiera politica che per favorire, tra le parti contraenti, il mutuo riconoscimento delle situazioni minoritarie. Soprattutto per le comunità smembrate artificiosamente tra Stati limitrofi – come è il caso della comunità italiana nei territori in esame – si potrebbe pensare di istituzionalizzare la collaborazione attraverso la previsione di regioni di confine comuni – c.d. euroregioni, come nella discussa ipotesi della euroregione Istria – configurate quali soluzioni organizzative permanenti, dotate di funzioni proprie e in grado di rappresentare interessi condivisi di tipo linguistico e culturale, oltre che sociale ed economico[67].
In secondo luogo, non si può certo escludere l’opportunità di ulteriori riforme normative, dirette a migliorare lo statuto delle garanzie, eventualmente da adottarsi su indicazione degli organi di monitoraggio predisposti dai citati documenti del Consiglio d’Europa, come dimostrato, ad esempio per la Croazia, dalla approvazione della legge costituzionale del 13 dicembre 2002 e dalle revisioni, progressivamente intervenute, della legislazione elettorale.
Infine, non va dimenticato che alla realizzazione delle misure di tutela astrattamente previste contribuiscono in misura determinante il grado di autoconsapevolezza identitaria e la volontà concretamente manifestata dalla stessa comunità minoritaria di preservare e promuovere il proprio patrimonio di valori storici, linguistici e culturali nei diversi ambiti pubblici, come risulta anche dalle indicazioni pervenute ai citati organismi di monitoraggio dalle associazioni rappresentative della minoranza italiana e sulla cui base sono stati instaurati proficui rapporti di informazione con gli Stati contraenti, al fine della attuazione degli obblighi assunti[68].
Tali osservazioni sono estensibili anche ad altri Stati dell’Europa centro-orientale che, come la Slovenia e la Croazia, hanno condiviso la medesima matrice ideologica e si avviano nel presente momento storico al consolidamento dei principi di derivazione liberale e delle istituzioni democratiche, vincolati dalla adesione a strumenti e organizzazioni internazionali o regionali e candidati all’ingresso nella Unione europea. Seppure non possa sottovalutarsi il richiamo, frequentemente presente, all’elemento nazionale dello Stato[69], quegli ordinamenti dedicano, all’interno delle nuove o revisionate Carte costituzionali, peculiare attenzione alle minoranze nazionali o etniche e predispongono misure di tutela negativa e positiva, rinviando al legislatore la disciplina delle normative di attuazione[70]. Il trend comune, costituito nell’area europea centro-orientale dalla accresciuta consapevolezza del fatto minoritario, trova corrispondenza nella non facile traduzione sul piano della effettività, e ciò anche in conseguenza del fatto che le scelte in materia di diritti fondamentali e delle minoranze risultano spesso se non imposte quanto meno influenzate ab externo, determinandosi in tal modo quel divario tra profilo teorico e profilo effettivo, che trova ancora riscontro, in verità, all’interno di numerosi ordinamenti, ancorché ascrivibili al novero delle c.d. democrazie mature o stabilizzate del mondo occidentale.
Il fatto che, nell’epoca attuale, la gran parte delle nazioni civili siano ormai tenute al rispetto di principi di diritto internazionale, siano essi giuridicamente vincolanti o di soft law, se, da un lato, costituisce un limite alla loro sovranità ed alla capacità di autodeterminazione interna, dall’altro lato contribuisce a stimolare e tenere viva l’attenzione mondiale su temi cruciali, come quelli della tutela dei diritti fondamentali e del rispetto delle minoranze nazionali[71], che non possono essere, oggi più che mai, sottovalutati o disattesi dai singoli Stati e dalla comunità internazionale nel suo complesso.
* Professore straordinario di Diritto costituzionale nella Università di Siena.
[1] V. in tal senso le osservazioni di I. Pogany, International Human Rights Standards and the New Constitutions: Minority Rights in Central and Eastern Europe, in R. Müllerson, M. Fitzmaurice, M. Andenas (ed.), Constitutional Reform and International Law in Central and Eastern Europe, The Hague-London-Boston, 1998, spec. pp. 155-159.
[2] Così si esprime il preambolo della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali (1994).
[3] In proposito, vale la pena ricordare che già nel dicembre 1991 i dodici Stati allora appartenenti alla Comunità europea adottarono una “posizione comune” circa le condizioni cui subordinare il riconoscimento di nuovi Stati. Nel 1993 il Consiglio europeo di Copenaghen stabiliva, come requisiti di accesso all’Unione europea da parte degli Stati candidati, la presenza di istituzioni stabili e in grado di garantire la democrazia, il principio di legalità, i diritti dell’uomo, nonché il rispetto delle minoranze e la loro protezione. Quei valori, in seguito proclamati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000) ed oggi racchiusi nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (2004), erano stati peraltro ribaditi nel corso degli anni Novanta del secolo scorso anche nell’ambito dei lavori della CSCE-OSCE, ove veniva sottolineata l’importanza della protezione e promozione dei diritti umani quali presupposti per la sicurezza e la pace in Europa (v. i c.d. Seguiti di Helsinki e specialmente i documenti conclusivi delle riunioni di Vienna (1989), Copenaghen (1990), Ginevra (1991) ed Helsinki (1992)). In dottrina, per tali aspetti, v. M. Ganino, Democrazia e diritti umani nelle Costituzioni dei Paesi dell’Europa orientale, in M. Ganino, G. Venturini (a cura di), Europa di domani: verso l’allargamento dell’Unione – Europe Tomorrow: Towards the Enlargment of the Union, Milano, 2001, p. 113 ss.; C. Filippini, La disciplina costituzionale sulle minoranze nei Paesi dell’Europa orientale e l’adesione all’Unione europea, ivi, p. 333 ss; G. N. Toggenburg (ed.), Minority Protection and the enlarged European Union, in http://lgi.osi.hu/publications.php e spec. F. Hoffmeister, Monitoring Minority Rights in the enlarged European Union, ivi; A. Benazzo, Normativa europea in tema di minoranze linguistiche e prospettive per l’allargamento dell’Unione, in V. Piergigli (a cura di), L’autoctonia divisa. La tutela giuridica della minoranza italiana in Istria, Fiume e Dalmazia, Padova, 2005, spec. p. 104 ss.
[4] L’art. 3 della Cost. del 1974 proclamava l’eguaglianza dei “popoli” (gruppi maggioritari) e delle “nazionalità” (gruppi minoritari); sebbene non espressamente enumerati, alla categoria dei “popoli” dovevano ascriversi i croati, i macedoni, i montenegrini, i musulmani, i serbi e gli sloveni. Quanto ai gruppi minoritari, dalle statistiche della popolazione risultava una non chiara distinzione tra “nazionalità” (nelle quali, fra l’altro, era ascritta la comunità italiana), “altre nazionalità” e “gruppi etnici”. V., in proposito, B. Vukas, The Legal Status of Minorities in Croatia, in S. Trifunovska (ed.), Minorities in Europe. Croatia, Estonia and Slovakia, The Hague, 1999, p. 40.
[5] Si trattava dei territori situati lungo il confine nord-orientale e precisamente dell’Istria, di Fiume, di Zara e di parte del territorio friulano e goriziano, già annessi all’Italia in ottemperanza del Trattato di Saint-Germain del 1919 e del Trattato di Rapallo del 1920. Il Trattato di pace prevedeva la costituzione del c.d. Territorio Libero di Trieste, situato nell’area del confine italo-jugoslavo, che però non vide mai la luce a causa del mancato accordo, nell’ambito del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sulla nomina del governatore del Territorio, il quale continuò pertanto ad essere amministrato dai comandi militari alleati fino alla stipulazione del Memorandum di intesa nel 1954.
[6] Tale situazione è venuta meno solo di recente, con l’approvazione da parte del parlamento italiano della legge n. 124/2006, che, introducendo l’art. 17-bis alla legge n. 91/1992, ha riconosciuto la cittadinanza italiana ai connazionali dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia ed ai loro discendenti. A fronte della novella legislativa, i governi di Croazia e Slovenia non hanno esitato a manifestare le loro reazioni di dissenso, interpretando il riconoscimento della doppia cittadinanza come una sorta di “rioccupazione di territori sui quali l’Italia aveva definitivamente perso la sovranità …”. Sul punto si vedano gli articoli pubblicati nel trimestrale Coordinamento Adriatico, gennaio-marzo 2006, pp. 3-5.
[7] Il Memorandum era stato stipulato tra Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Jugoslavia.
[8] Per tali aspetti problematici, cfr., tra gli altri, G. Conetti, La successione della Slovenia nei trattati conclusi tra Italia e Jugoslavia, in Riv. dir. int., 1992, p. 1027 ss.; G. de Vergottini, La rinegoziazione del Trattato di Osimo, in Riv. st. pol. int., n. 1, 1993, p. 77 ss.; I. Di Carlo, La questione delle minoranze nelle procedure di aggiornamento degli accordi di Osimo, in Comunità internaz., n. 2, 1996, p. 317 ss.; P. Pustorino, La successione di Croazia, Serbia-Montenegro e Slovenia nei trattati bilaterali conclusi tra Italia e Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, in N. Ronzitti (a cura di), I rapporti di vicinato dell’Italia con Croazia, Serbia-Montenegro e Slovenia, Roma, 2005, p. 11 ss.; N. Ronzitti, Successione tra Stati e trattamento delle minoranze nei rapporti italo-croato-sloveni, in A. Del Vecchio (a cura di), La successione degli Stati nel diritto internazionale, Atti del Convegno, Roma 14 novembre 1997, Milano, 1999, p. 45 ss., il quale ricorda l’inapplicabilità, per definire i rapporti successori tra Italia, Slovenia e Croazia, della Convenzione di Vienna del 1978, che non è mai stata ratificata dall’Italia, mentre per gli altri due Stati la ratifica si realizzava soltanto nel 1996. A proposito della prassi seguita per addivenire ad una soluzione del problema successorio, l’A. si interroga sul significato da attribuire alla “dichiarazione” degli Stati successori ed alla “presa d’atto” italiana, che potrebbero avvalorare la tesi della successione automatica nei trattati già in vigore ovvero quella della “novazione qualificata dal riesame dei trattati novati”, senza escludere una terza interpretazione – che è quella dell’A. – secondo cui “i trattati stipulati dallo Stato predecessore costituiscono il punto di partenza per pervenire a un nuovo equilibrio contrattuale” (p. 50 e pp. 56-57).
[9] Il Memorandum è un accordo in forma semplificata, entrato in vigore il 15 gennaio 1992 con la firma dei ministri degli esteri italiano e croato, a ciò non essendo di ostacolo la mancata sottoscrizione da parte slovena, poiché l’ultimo capoverso dell’accordo richiedeva, ai fini dell’entrata in vigore, la firma di almeno due dei tre contraenti. La mancata firma del governo sloveno venne motivata dall’omologo rifiuto del governo italiano di stipulare un accordo tra i due Paesi per la tutela della minoranza slovena in Italia, in modo da garantire una reciprocità di trattamento tra le due comunità minoritarie. Del resto, considerazioni analoghe (mancanza di simmetria rispetto alla propria minoranza in Italia) hanno sempre ostacolato – se non la firma, che è stata apposta – la ratifica del Memorandum da parte croata; proprio in ragione di tale omissione si decise di inserire nel successivo Trattato italo-croato del 1996 (v. infra nel testo) una disposizione di tutela della minoranza croata storicamente stanziata in Molise. In dottrina, v. N. Ronzitti, Successione tra Stati, cit., p. 52 ss. e M. Mancini, Lo status della minoranza slovena in Italia e della minoranza italiana in Slovenia, in N. Ronzitti (a cura di), I rapporti di vicinato, cit., p. 48 ss.
[10] Tra questi, sono inclusi il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 27) ed il Trattato di Osimo.
[11] Sulla legislazione della Croazia in materia di tutela delle minoranze nazionali e delle lingue minoritarie, cfr. infra § 3.
[12] A commento del Trattato italo-croato del 1996, v. N. Ronzitti, Il Trattato tra Italia e Croazia sulle minoranze, in Riv. dir. int., 1997, p. 684 ss; Id. Successione tra Stati, cit., p. 55 ss.; Id., Il Trattato sulle minoranze tra Italia e Croazia e la sua attuazione nell’ordinamento italiano, in N. Ronzitti (a cura di), I rapporti di vicinato, cit., p. 29 ss., il quale, a proposito dell’art. 8, precisa che si è trattato di disposizione inserita su insistenza del governo croato, al fine assicurare un minimo di simmetria, senza peraltro potersi escludere, almeno in linea teorica, l’eventualità di controversie tra l’Italia e la Croazia circa i soggetti destinatari dei diritti ivi sanciti (soltanto gli appartenenti alla minoranza storica croata o anche le comunità di emigranti croati?). Secondo lo stesso A., inoltre, l’eventuale mancata applicazione da parte italiana della citata disposizione non potrebbe legittimare la Croazia ad invocare il principio “inademplenti non est adimplendum” proprio per quanto disposto in apertura dallo stesso art. 8 (p. 41). Sul Trattato italo-croato, v. anche il contributo di M. Mancini, La tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia: lo stato dei rapporti internazionali, in V. Piergigli (a cura di), L’autoctonia divisa, cit., p. 268 ss. A tutela della minoranza croata del Molise, si vedano anche l’art. 2 della l. n. 482/1999 (“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”) e la l. reg. Molise n. 15/1997 (“Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale delle minoranze linguistiche nel Molise”).
[13] Lo statuto della minoranza slovena in Italia è disciplinato dalla legge n. 38/2001, che ha dettato norme per la tutela globale della comunità slavofona residente nei territori delle province di Trieste, Gorizia e Udine. Trattasi comunque di una normativa interna allo Stato italiano, che non esclude l’opportunità di un accordo bilaterale, analogo al Trattato italo-croato, allo scopo di rafforzare la tutela delle rispettive comunità minoritarie mediante l’attivazione di un reciproco controllo sul piano dei rapporti internazionali. Per tali considerazioni, v. M. Mancini, La tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia, cit., p. 274 ss. e p. 285 s. Nel senso della reciprocità della tutela, ma limitatamente al settore dell’educazione, si possono ricordare il Memorandum di intenti sul reciproco riconoscimento dei diplomi e titoli professionali (Gazzetta Ufficiale Repubblica di Slovenia, n. 4/1996) e l’Accordo nel campo della cultura e dell’educazione, firmato dai governi sloveno e italiano a Roma nel marzo 2000. Diverso è, invece, lo stato dei rapporti internazionali tra la Slovenia e l’Ungheria, dal momento che i due Stati hanno stipulato nel 1993 un accordo di amicizia e cooperazione ed una apposita convenzione per la protezione, rispettivamente, della comunità ungherese di Slovenia e della minoranza slovena di Ungheria.
[14] V. in proposito, M.Mancini, op. ult. cit., p. 274 ss.
[15] Si veda, in proposito, la legge con cui la Slovenia ha dichiarato la successione nei trattati conclusi tra la ex Jugoslavia e la Repubblica italiana (Gazzetta Ufficiale, n. 40/1992).
[16] I testi dei due documenti sono stati predisposti nell’ambito del Consiglio d’Europa, di cui Slovenia e Croazia sono membri, rispettivamente dal 1993 e dal 1996. La Carta europea delle lingue regionali o minoritarie è entrata in vigore in Slovenia il 1° gennaio 2001 ed in Croazia il 1° marzo 1998, mentre la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali è entrata in vigore, rispettivamente nei due Stati, il 1° luglio 1998 ed il 1° febbraio 1998. Con riferimento ai trattati internazionali in tema di tutela dei diritti fondamentali, inoltre, sia la Slovenia che la Croazia hanno ratificato il Patto internazionale sui diritti civili e politici ed il primo protocollo addizionale, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali. Inoltre, Slovenia e Croazia sono membri della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) e della Iniziativa Centro-europea.
[17] Nel censimento della popolazione del 2002, 2258 persone hanno dichiarato l’appartenenza alla nazionalità italiana (contro i 2959 del censimento del 1991) e 3762 di essere di madrelingua italiana (contro i 3882 del precedente censimento). Dei 2258 appartenenti alla comunità italiana, 1840 cittadini vivono nei territori mistilingui e 418 al di fuori di tali aree. Per questi dati, v. Second Periodical Report of the Republic of Slovenia on the Implementation of the European Charter for Regional and Minority Languages (13 giugno 2005) e Second Periodical Report of the Republic of Slovenia on the Implementation of the Council of Europe Framework Convention on the Protection of National Minorities (6 luglio 2004), in http://www.coe.int, ove è peraltro precisato che la diminuzione del numero degli appartenenti alla minoranza italiana (così come a quella ungherese) sarebbe in gran parte dovuta al diverso metodo di rilevamento statistico utilizzato rispetto al 1991. La comunità italiana è prevalentemente stanziata nei comuni costieri di Capodistria, Isola e Pirano. Oltre alle comunità autoctone italiana ed ungherese (artt. 11 e 64 Cost.), il costituente sloveno ha menzionato anche la minoranza rom, rinviandone alla legge l’apposita disciplina (art. 65).
[18] In termini analoghi dispongono anche gli artt. 1 e 3 della legge sull’uso pubblico della lingua slovena (legge 15 luglio 2004, in Gazzetta Ufficiale n. 86/2004). La coufficialità delle lingue slovena e italiana nei territori mistilingue è proclamata dagli statuti dei comuni di Capodistria (Gazzetta Ufficiale n. 40/2000; art. 7), Isola (Gazzetta Ufficiale n. 15/2000; art. 4) e Pirano (Gazzetta Ufficiale n. 10/1999; art. 3).
[19] Tutti i diritti menzionati nella disposizione in esame, infatti, hanno come titolari le comunità nazionali autoctone ed il loro membri; il diritto di esprimere i propri rappresentanti politici viene riferito esclusivamente alla collettività minoritaria.
A proposito del binomio diritti individuali/diritti collettivi, con riferimento specifico al fenomeno minoritario, la letteratura è vastissima. Si vedano le interessanti considerazioni di G. Grottanelli de’ de Santi, Osservazioni in tema di diritti di libertà e di diritti delle minoranze «storiche» e «non storiche», in Il diritto della regione, n. 2/3, 2002, secondo cui occorre distinguere – nell’approccio al tema minoritario – “tra un sistema di tolleranza linguistica, etnica e culturale con margini di autonomia anche ampissimi ed un sistema nel quale si impone per la sopravvivenza dell’aggregato sociale complessivo un ripensamento dei fondamenti dello Stato nel nome di diritti collettivi e della istituzione di vere e proprie comunità minoritarie autonome. In questo secondo caso il discorso sembra che possa essere affrontato, da un punto di vista costituzionale del mondo occidentale, soltanto in termini di Stato federale” (pp. 193-194). Pertanto, l’adozione dell’una o dell’altra concezione si riflette sul diverso modo di intendere la natura del rapporto tra l’individuo e lo Stato. Sempre sul tema dei diritti collettivi delle identità minoritarie, cfr., di recente, M. A. Jovanovi?, Recognizing Minority Identities Through Collective Rights, in Human Rights Quarterly, vol. 27, 2005, p. 625 ss. e T. H. Malloy,National Minority Rights in Europe, New York, 2005, p. 83 ss.
[20] Peraltro, la considerazione della dimensione collettiva del gruppo minoritario è rinvenibile anche in altri ordinamenti dell’area europea centro-orientale, come in quello ungherese (v. legge n. 77/1993).
[21] A mero titolo esemplificativo, si veda la formulazione dell’art. 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. L’impostazione individualistica dei diritti degli appartenenti alle minoranze si affermava nel mondo occidentale, sia a livello internazionale che all’interno dei singoli Stati, a far data dal secondo dopoguerra, a seguito del constatato fallimento del sistema della Società delle Nazioni.
[22] In sede di ratifica della Carta delle lingue, la Slovenia identificava gli idiomi italiano ed ungherese quali destinatari delle sottoscritte misure di tutela, con estensione – mutatis mutandis – alla lingua dei rom, in quanto lingua non territoriale; in occasione della ratifica della Convenzione-quadro, parimenti, il riferimento era fatto espressamente alle comunità autoctone italiana ed ungherese ed alla comunità rom.
[23] Per una rassegna delle normative di settore adottate a tutela delle comunità nazionali autoctone di Slovenia, v. i rapporti sulla attuazione della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie e della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali (v. supra nota 17).
[24] Si tratta della sent. 28 gennaio 1999 (Gazzetta Ufficiale n. 14/1999), con la quale la Corte costituzionale respingeva il ricorso proposto dal consiglio nazionale nei confronti della legge sullo stemma, la bandiera e l’inno della Repubblica di Slovenia e della legge sulla bandiera nazionale slovena. In dottrina, v. M. Komac, The Protection of Ethnic Minorities in the Republic of Slovenia and the European Charter for Regional or Minority Languages, in Rev. Llengua i dret, n. 41, 2004, pp. 46-47.
[25] La normativa più rilevante è costituita, a livello statale, dalla legge per l’attuazione dei diritti speciali dei membri delle comunità italiana e ungherese nel settore dell’educazione (Gazzetta Ufficiale n. 35/2001), dalla legge sulle comunità etniche autogestite (Gazzetta Ufficiale n. 65/1994), dalla legge sull’organizzazione e sul finanziamento del sistema scolastico (Gazzette Ufficiali n. 12/1996, n. 55/2003, n. 115/2003), dalla legge sull’interesse pubblico alla cultura (Gazzetta Ufficiale n. 96/2002), dalle leggi relative ai singoli gradi dell’istruzione pubblica (Gazzetta Ufficiale n. 12/1991 e n. 12/1996), dalle leggi sulle autonomie territoriali (Gazzetta Ufficiale n. 72/1993, n. 60/1994, n. 56/1998), dalla legge sull’uso pubblico della lingua slovena (legge 15 luglio 2004, cit. supra nota 18). Occorre poi aggiungere le disposizioni contenute negli statuti dei comuni di Capodistria (art. 109) e Pirano (art. 68).
Nei luoghi di insediamento della comunità ungherese, è stato adottato il modello dell’istruzione bilingue obbligatoria (sloveno-ungherese). Sulla legittimità costituzionale dei due diversi regimi si è pronunciata la Corte costituzionale, la quale ha sottolineato che la scelta di istituire scuole bilingui compete al parlamento; del resto, le circostanze storiche, oltre che l’adempimento di precisi impegni internazionali tra la Slovenia e l’Ungheria, hanno suggerito l’opzione per il bilinguismo nelle aree in cui risiede la comunità ungherese, non potendo pertanto quest’ultima invocare la violazione del principio di eguaglianza e lamentare l’illegittimità del diverso trattamento riservato dal legislatore alle due comunità autoctone (sent. n. 77/1998). I due modelli, seppure con differenti modalità, perseguono il comune obiettivo di promuovere il pluralismo culturale e la reciproca conoscenza degli idiomi della maggioranza e della minoranza.
[26] V. art. 111 statuto del comune di Capodistria: “In tutte le scuole dell’area del comune di Capodistria lo studio della lingua slovena è obbligatoria per i membri della comunità nazionale italiana” (1° comma). “In tutte le scuole slovene nell’area mistilingue del comune lo studio della lingua italiana è materia obbligatoria” (2° comma).
[27] In dottrina, v., Ph. Blair, The Protection of Regional or Minority Languages in Europe, in Euroregions, 1993, pp. 45-46; M. Komac, The Protection of Ethnic Minorities, cit., spec. p. 62 ss.
[28] Art. 8 del Trattato di Osimo che ha mantenuto in vigore le disposizioni dello statuto speciale annesso al Memorandum di Londra del 1954,
[29] V. la legge sui media (Gazzetta Ufficiale n. 35/2001 e, da ultimo, Gazzetta Ufficiale n. 16/2004).
[30] V. la legge sul sistema radiotelevisivo sloveno (Gazzetta Ufficiale n. 18/1994). In dottrina, v. M. Komac, The Protection of Ethnic Minorities, cit., p. 88 ss., anche per riferimenti più dettagliati alla normativa in vigore. Il Centro regionale RTV Koper/Capodistria è una delle unità che costituiscono il servizio radiotelevisivo in Slovenia; esso crea, produce e trasmette programmi in lingua slovena, programmi per la comunità italiana, programmi per la comunità slovena in Italia, produce trasmissioni per i programmi radiotelevisivi statali. La stazione radio, esistente dal 1949, trasmette in italiano per quattordici ore al giorno e quella televisiva, stabilita nel 1971, diffonde informazioni per la popolazione italiana della Slovenia e della Croazia per undici ore giornaliere, di cui dieci in italiano e una in sloveno. Inoltre, il Centro regionale RTV Koper/Capodistria trasmette programmi settimanali di cultura, economia, sport.
[31] V., in particolare, l’art. 5 della legge sui tribunali (Gazzette Ufficiali n. 19/1994 e, da ultimo, n. 73/2004), ma anche specifiche disposizioni contenute nei codici di procedura civile e penale. In base a quanto riportato nel secondo rapporto sullo stato di attuazione della Carta delle lingue regionali o minoritarie (v. supra nota 17), fino al novembre 2002 sono stati venti i processi condotti in italiano nel territorio mistilingue di Capodistria.
[32] Identica garanzia è sancita per l’uso dell’ungherese davanti alla pubblica amministrazione nell’area mistilingue corrispondente. V. art. 62 della legge sul procedimento amministrativo (Gazzetta Ufficiale n. 80/1999) e art. 4 della legge sulla pubblica amministrazione (Gazzetta Ufficiale n. 52/2002).
[33] V., rispettivamente, l’art. 5, 2° comma del regolamento della assemblea nazionale (Gazzetta Ufficiale, n. 35/2002) e gli statuti ed i regolamenti dei consigli municipali di Capodistria, Isola e Pirano.
[34] Così, il regolamento sulle denominazioni degli abitati, delle strade e degli edifici (Gazzetta Ufficiale n. 11/1980), gli statuti dei comuni di Capodistria (art. 117) e Pirano (art. 75), il decreto per l’attuazione del bilinguismo nel territorio mistilingue del comune di Isola (Gazzetta Ufficiale n. 3/2001), oltre alla legge sulle comunità etniche autogestite (Gazzetta Ufficiale n. 65/1994).
[35] Si vedano la legge sulla registrazione del diritto di voto (Gazzetta Ufficiale n. 46/1992) e la modifica alla legge sui registri elettorali (Gazzetta Ufficiale n. 72/2000); in dottrina, M. Komac, The Protection of Ethnic Minorities, cit., p. 52, il quale riferisce, in proposito, della sentenza della Corte costituzionale slovena 12 febbraio 1998, n. 844 (Gazzetta Ufficiale n. 20/1998).
[36] V. la legge sulle elezioni locali (Gazzetta Ufficiale n. 72/1993) e la legge sull’autogoverno locale (Gazzetta Ufficiale n. 72/1993, art. 39 e 83).
[37] Proprio l’individuazione di un espresso fondamento costituzionale induceva, infatti, la Corte costituzionale slovena a respingere parzialmente il ricorso presentato da un gruppo di membri della comunità maggioritaria nei confronti della legge sulle elezioni alla assemblea nazionale, della legge sulle elezioni locali, della legge sulla registrazione del diritto di voto e dello statuto del comune di Capodistria (sent. 12 febbraio 1998, su cui v. supra nota 35)
[38] In proposito, M. Komac, The Protection of Ethnic Minorities, cit. p. 53 e p. 57, il quale ritiene che, mentre gli eletti dalle due comunità autoctone alla assemblea nazionale hanno un “mandato rappresentativo”, quelli eletti a livello municipale adempiono ad un “mandato imperativo” per tutte le questioni concernenti i diritti speciali delle minoranze. C. Casonato, La rappresentanza politica della comunità italiana in Slovenia e Croazia, in V. Piergigli (a cura di), L’autoctonia divisa, cit., spec. p. 317, parla, in generale, di “erosione del principio del divieto di mandato imperativo” negli ordinamenti – come la Slovenia e la Croazia – ove i deputati eletti dalla minoranza si trovano a dover “privilegiare le esigenze specifiche del proprio gruppo anziché generali interessi nazionali” (c.d. rappresentanza etnica).
[39] V. la legge sulle comunità etniche autogestite del 5 ottobre 1994 (cit. supra nota 34).
[40] Ad esempio, nel comune di Capodistria l’assenso del consiglio della comunità autogestita è richiesto sugli atti relativi alla denominazione degli abitati, delle vie e piazze nei territori mistilingue del comune, sugli statuti e sugli atti di nomina dei direttori degli enti pubblici preposti alla attuazione dei diritti della comunità nazionale italiana, sulla regolamentazione del bilinguismo visivo (art. 104 statuto comunale) e, analogamente, nei comuni di Pirano (art. 66 statuto comunale) e di Isola (art. 62 statuto comunale).
[41] Ai sensi dell’art. 9 della legge per l’attuazione dei diritti speciali dei membri delle comunità italiana e ungherese nel settore dell’educazione (Gazzetta Ufficiale n. 35/2001), l’insegnamento della lingua italiana come materia facoltativa può essere impartito, anche in comune da parte di più scuole, su richiesta di almeno cinque studenti, che abbiano frequentato la scuola elementare bilingue o nella sola lingua della comunità nazionale e che proseguano l’istruzione in istituti di insegnamento situati al di fuori del territorio mistilingue. Dal rapporto sulla attuazione della Carta regionale delle lingue regionali o minoritarie del 2005 (v. supra nota 17) risulta che non vi erano state, fino a quella data, richieste di corsi di lingua italiana.
[42] Sulla non contrarietà alla Costituzione di tale previsione si è pronunciata la Corte costituzionale, richiedendo comunque una legge del parlamento per la disciplina del diritto sancito all’art. 64, 4° comma Cost. (sent. 12 ottobre 1998, n. 844). L’auspicio della Corte ha trovato realizzazione nella modifica della legge sulla registrazione del diritto di voto.
[43] V. S. Devetak, Le statut juridique des minorités ethniques dans les États successeurs de la Yougoslavie, in N. Levrat (a cura di), Minorités et organisation de l’Etat, Bruxelles, 1998, pp. 167-168; B. Vukas, The Legal Status of Minorities in Croatia, cit., p. 40.
[44] Alla popolazione autoctona, forzatamente allontanata durante e dopo la seconda guerra mondiale faceva riferimento la legge costituzionale sulle libertà ed i diritti umani e sui diritti delle comunità etniche e nazionali o minoranze del 1991 per sancire il diritto di apprendere, come materia facoltativa e a prescindere dalla percentuale numerica, l’insegnamento della madrelingua nella scuola elementare e secondaria (art. 15, 3° comma), mentre la modifica della legge costituzionale citata nel 1992 introduceva il concetto di “minoranze autoctone”, sebbene non riferito a nessuna in particolare tra le minoranze presenti nel Paese. Si veda, in proposito, B. Vukas, The Legal Status of Minorities in Croatia, p. 48. La legge costituzionale del 13 dicembre 2002 sui diritti delle minoranze nazionali, sostitutiva della legge costituzionale del 1991, intendeva per minoranza nazionale “un gruppo di cittadini croati i cui appartenenti sono tradizionalmente stanziati nel territorio della Repubblica di Croazia, i quali presentano caratteristiche etniche, linguistiche, culturali e/o religiose diverse dagli altri cittadini e sono accomunati dal desiderio di conservazione di queste caratteristiche” (art. 5) (corsivo nostro).
Nella normativa locale, al concetto di “autoctonia” fanno richiamo, sebbene astenendosi da qualsivoglia definizione, il vigente statuto dell’Istria (art. 6, 1° comma e Titolo III: “Tutela delle peculiarità autoctone, etniche e culturali”) e, con formulazioni analoghe, gli statuti della città di Cittanova (Titolo V), della città di Umago (Titolo IV), della città di Rovigno (Titolo III).
[45] V. quanto osservato in proposito da B. Vukas, op.ult.cit., p. 59 s. Cfr. anche Advisory Committee on the Framework Convention for the Protecion of the National Minorities, Opinion on Croatia (6 aprile 2001), in http://www.coe.int, nella quale si evidenziano l’improprietà della distinzione tra i membri delle minoranze nazionali “autochtonous” e “others”, nonché l’omissione, nella versione attuale del preambolo di minoranze come i bosniaci, gli sloveni, i rom.
Secondo quanto riportato nel Second Periodical Report presentend to the Secretary General of the Council of Europe in Accordance of the Article 15 of the European Charter for Regional or Minority Languages (14 gennaio 2003) e, conformemente, nel Second Report Submitted by Croatia Pursuant to Artiche 25, Paragraph 1 of the Framework Convention for the Protection of National Minorities (13 aprile 2004), la comunità italiana, prevalentemente stanziata nel territorio della regione Istria, comprende, in base ai dati del censimento del 2001, circa 20.000 unità contro una cifra superiore alle 26.000 unità del precedente rilevamento del 1991.
[46] La legge costituzionale del 2002 (Gazzetta Ufficiale n. 155/2004) ha sostituito la legge costituzionale approvata nel 1991 ed emendata nel 1992 e nel 2000 (v. supra nota 44). Le altre leggi citate sono pubblicate nelle Gazzette Ufficiali della Repubblica di Croazia n. 51/2000 e n. 56/2000.
[47] In sede di ratifica, la Croazia individuava quali idiomi cui rivolgere il catalogo delle sottoscritte misure di tutela: l’italiano, l’ungherese, il serbo, il ceco, lo slovacco, il ruteno e l’ucraino.
[48] Si veda la legge sull’educazione e istruzione nella lingua e scrittura delle minoranze nazionali del 2000 (cit. supra nota 46), non abrogata dalla successiva legge cost. del 13 dicembre 2002, della quale v., per l’aspetto che qui interessa, l’art. 11 (ed, in particolare, il 9° comma per la possibilità, riconosciuta agli studenti delle istituzioni scolastiche in lingua croata, di studiare la lingua minoritaria). La disciplina precedente in materia scolastica, ed abrogata dalla citata legge del 2000, era contenuta nella legge sull’educazione e sull’istruzione nelle lingue delle nazionalità (Gazzetta Ufficiale n. 25/1979). Peraltro, è in discussione la riforma del sistema scolastico e dell’esame di maturità per gli studenti appartenenti alle minoranze nazionali. La proposta, avanzata dal rappresentante parlamentare della comunità italiana, prevede di includere, sul modello sloveno, la lingua della minoranza come materia obbligatoria di esame (v. G. di Giuseppe, L’esame di maturità, in http://osservatoriobalcani.org/article/articleview/5627/1/51/, 5 maggio 2006).
[49] Si vedano gli artt. 19-20 della legge sull’autogoverno locale e regionale del 6 aprile 2001.
[50] L’art. 30 veniva così emendato il 19 aprile 2003 dalla assemblea regionale a seguito del ricorso promosso dal governo davanti alla Corte costituzionale. Nella versione originaria era disposto, in maniera più incisiva, che “Nei comuni e nelle città della Regione Istriana, che hanno prescritto il bilinguismo nello Statuto, si studia la lingua italiana, quale lingua dell’ambiente sociale nelle scuole con insegnamento in lingua croata, mentre negli altri comuni e nelle altre città, secondo le disposizioni dei loro Statuti, la lingua italiana si studia facoltativamente” (corsivo nostro).
[51] Art. 12, 3° comma, legge cost. 13 dicembre 2002 e art. 5 legge sull’uso delle lingue e scritture degli appartenenti alle minoranze nazionali; la legge da ultimo richiamata, che specifica nel dettaglio agli artt. 8 ss. tali usi pubblici, richiede per l’operatività delle sue previsioni alcune condizioni: a) che gli appartenenti alla minoranza nazionale costituiscano nel territorio del comune o della città la maggioranza degli abitanti; b) che il diritto in oggetto sia previsto da accordi internazionali sottoscritti dalla Repubblica di Croazia; c) che tale diritto sia stabilito dagli statuti dei comuni e delle città; d) che tale diritto, da esercitarsi nell’ambito degli organismi decentrati, sia stabilito dallo statuto della regione, dei singoli comuni e delle singole città (art. 4). Va segnalato che la legge cost. 13 dicembre 2002 ha subordinato l’uso paritario ufficiale della lingua minoritaria in sede locale al requisito che gli appartenenti ad una minoranza nazionale costituiscano, non la maggioranza della popolazione locale come richiesto dalla legge del 2000 (art. 4), ma almeno un terzo degli abitanti della unità di autogoverno locale (art. 12, 1° comma). La difformità va, evidentemente, risolta a favore della applicazione del requisito numerico disposto dalla fonte di grado costituzionale, che rinvia comunque alle disposizioni degli statuti comunali e regionali, nonché alla legge sull’uso delle lingue e scritture delle minoranze nazionali. Per la conferma di tale interpretazione, si veda altresì quanto indicato espressamente nel Second Report Submitted by Croatia Pursuant to Artiche 25, Paragraph 1 of the Framework Convention for the Protection of National Minorities, cit. supra nota 45.
[52] L’impugnativa del governo nel 2001 riguardava tredici disposizioni dello statuto istriano, tra cui quellierelativi all’uso pubblico della lingua minoritaria ed alla tutela delle peculiarità autoctone, etniche e culturali della comunità italiana, disposizioni sostanzialmente riproduttive di quelle cassate dal giudice costituzionale nel 1995. Più precisamente, il governo disponeva la sospensione ed impugnava davanti alla Corte costituzionale gli articoli concernenti la denominazione ufficiale bilingue dei territori, dei comuni, delle città e della regione (artt. 2 e 3, 1° comma), il riconoscimento della pariteticità delle lingue croata ed italiana nella regione (art. 6), l’istrianità quale espressione di appartenenza alla regione Istria (art. 23), il carattere paritario dei due idiomi su tutto o parte del territorio dei comuni o delle città della regione ove risiedono gli appartenenti alla comunità nazionale italiana (art. 26), lo studio obbligatorio o facoltativo della lingua italiana, rispettivamente nelle scuole con lingua di insegnamento croata dei comuni e delle città i cui statuti hanno prescritto il bilinguismo ovvero nelle scuole situate in altri comuni o città (art. 30), l’istituzione della commissione per le questioni e la tutela dei diritti della comunità autoctona italiana quale organo permanente della assemblea regionale (art. 31). In seguito alle modifiche apportate allo statuto dalla assemblea regionale nel 2003, il governo ritirava il proprio ricorso.
Oltre che a livello regionale, usi pubblici della lingua italiana sono previsti in sede locale nei comuni di Valle-Bale, Lisignano-Ližnjan, Montona-Motovun, Visignano-Višnjian, Degnano-Vodnjan, Grisignana-Grožnjan, e nelle città di Buie-Buje, Albona-Labin, Cittanova-Novigrad, Parenzo-Porec, Pola-Pula, Rovigno-Rovinj, Fiume-Rijeka, Cherso-Cres, Mošcenicka Draga (v. quanto riferisce il Second Periodical Report presentend to the Secretary General of the Council of Europe in Accordance of the Article 15 of the European Charter for Regional or Minority Languages, cit. supra nota 45).
[53] Nella versione originaria, la legge elettorale del 1991 disponeva una rappresentanza proporzionale in parlamento per le minoranze la cui densità raggiungesse l’8% della popolazione totale, mentre ai gruppi minoritari meno numerosi poteva essere riservato un numero massimo di cinque seggi. Tale normativa veniva sospesa nel 1995 per ragioni legate all’emergenza bellica. La modifica del 1999 interveniva sulla quota da assegnare alle minoranze di consistenza inferiore all’8% della popolazione e stabiliva che il totale di cinque seggi fosse distribuito in modo da assicurare un rappresentante per ciascuna delle comunità italiana, ungherese e serba, un rappresentate in comune per cechi e slovacchi ed un rappresentante per ucraini, ebrei, tedeschi, ruteni e austriaci. Per tale ricostruzione, v. C. Casonato, La rappresentanza politica, cit., p. 324 ss.
[54] Come riferisce C. Casonato, op.ult.cit., p. 327 s., in Istria la comunità italiana (6.9% della popolazione regionale) ha diritto ad un seggio nella assemblea regionale; a livello di città e di comuni la percentuale varia da un minimo del 5% (con diritto ad un seggio nella assemblea locale) ad un massimo che talora supera il 50% (con diritto alla rappresentanza garantita anche in misura maggiore rispetto alla densità demografica sul territorio). In materia elettorale, si veda anche la sentenza della Corte costituzionale del 17 settembre 2003 (U-I-1681/2003; U-I-2070/2003) (http://www.giurcost.org/links/index.html) con la quale veniva respinto il ricorso della Unione italiana che, sulla base dell’art. 15 Cost. e della legge cost. del 13 dicembre 2002, chiedeva che fosse dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 3, 2° comma della legge per l’elezione del parlamento, la quale, proclamando il diritto/dovere di esprimere un solo voto, impediva agli appartenenti alle minoranze nazionali di esercitare, accanto al suffragio generale riconosciuto in base alla cittadinanza, un suffragio speciale fondato sulla affiliazione etnica, analogamente a quanto previsto dalla normativa slovena. Secondo le precisazioni del giudice costituzionale, la legge elettorale, disponendo l’unicità del voto per ogni tornata elettorale, sancisce un principio universalmente accolto, che prescinde dal sistema elettorale prescelto, dalle modalità di organizzazione del voto e dal numero dei voti che il legislatore può riconoscere. Pertanto, a giudizio della Corte, il dubbio di incostituzionalità sollevato con riguardo alle richiamate disposizioni della Costituzione e della legge costituzionale doveva ritenersi non pertinente.
[55] V. quanto riferito supra, note 9 e 13.
[56] Ad esempio, l’art. 18 della legge sull’uso delle lingue e scritture delle minoranze nazionali del 2000, concernente la redazione di documenti pubblici, moduli e formulari da parte degli uffici statali nella lingua croata ed in quella minoritaria nei comuni, nelle città e nelle regioni in cui vige il regime di bilinguismo, stentava a trovare applicazione nel comune di Rovigno; v., in proposito, il quotidiano La voce del popolo, 26 settembre 2002.
[57] V. quanto riferisce G. de Vergottini, Le régime juridique de la communauté nationale italienne en Istrie,in Mélanges Patrice Gelard, Droit constitutionnel, Paris, 1999, p. 477.
[58] Un anno più tardi, il Trattato italo-croato avrebbe riconosciuto nell’Unione italiana l’organismo che rappresenta la comunità italiana in Croazia (art. 4).
[59] Sentenza 23 gennaio 2003 (U-III-322/1999) (http://www.giurcost.org/links/index.html).
[60] Sentenza 8 novembre 1999 (U-II-993/1997; U-II-55/1998), reperibile al sito citato alla nota precedente. Nel caso in esame, a fronte delle prescrizioni ministeriali che disponevano la costituzione di classi separate per impartire l’insegnamento delle materie di interesse minoritario in presenza di un numero minimo di dieci studenti, con la conseguenza che le esistenti classi con un numero inferiore di allievi sarebbero state soppresse, la Corte sottolineava che “ … la Repubblica di Croazia ha l’obbligo di rispettare i diritti acquisiti dei membri delle minoranze. E’ ovvio che le contestate istruzioni [del ministro dell’istruzione e dello sport] pongono i membri delle minoranze in una posizione meno favorevole rispetto al passato … [e] che l’organizzazione dell’insegnamento come prescritto nelle istruzioni condurrebbe non soltanto alla restrizione ma alla totale privazione dei diritti dei membri della minoranza…”.
[61] In tal senso, v. sentenza 3 febbraio 2000 (U-I-1203/1999) (http://www.giurcost/links/index.html) con la quale, peraltro, la Corte respingeva il ricorso promosso dalla Unione italiana che aveva denunciato il mancato rispetto, da parte della legge elettorale per il parlamento modificata nel 1999, dei diritti acquisiti della minoranza, in violazione della Costituzione, della legge cost. sui diritti delle minoranze nazionali del 1991 e del Trattato italo-croato del 1996, in quanto la richiamata normativa elettorale eliminava il previgente diritto degli appartenenti alle comunità minoritarie di votare sia come membri delle minoranze che come cittadini croati (legge elettorale del 1992 e 1995). Il giudice costituzionale replicava che la previsione del doppio voto non costituiva, all’epoca, una misura di discriminazione positiva, in quanto esso era una conseguenza del sistema elettorale allora in vigore e funzionava per tutti i cittadini della Repubblica di Croazia; per cui, nella fattispecie, l’art. 17, 5° comma della legge elettorale del 1999 non violava i diritti acquisiti della minoranza italiana.
[62] Si trattava della modifica alla legge sulla tutela del consumatore (Gazzetta Ufficiale n. 51/2004). Sulla vicenda v. il quotidiano La voce del popolo, 30 ottobre 2004 e 4 novembre 2004. Più in generale, v. le considerazioni di M. Komac, The Protection of Ethnic Minorities, cit., p. 101 .
[63] Si vedano, in proposito, le osservazioni di C. Casonato, La rappresentanza politica, cit., p. 332 e di M. Komac, op. ult. cit., p. 55.
[64] Cfr. Advisory Committee on the Framework Convention for the Protection of National Minorities, Comments of the Government of Slovenia on the Second Opinion of the Advisory Committee on the Implementation of the Framework Convention on the National Minorities in Slovenia (1° dicembre 2005) (http://www.coe.int).
[65] Ai sensi degli artt. 15 ss. della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, le parti sono tenute ad inviare periodicamente un rapporto sullo stato di attuazione della Carta al segretariato generale del Consiglio d’Europa. Tali rapporti sono esaminati da un comitato di esperti appositamente istituito, il quale, tenuto conto delle informazioni eventualmente fatte pervenire dallo Stato interessato, redige a sua volta un rapporto per il comitato dei ministri, contenente le proposte del comitato di esperti. Da parte sua, il segretariato generale presenta un rapporto biennale dettagliato alla assemblea parlamentare sulla applicazione della Carta. Disposizioni analoghe sono dettate dalla Convenzione-quadro (artt. 25-26) per la verifica della attuazione delle prescrizioni ivi contenute, prevedendosi l’attivazione, sulla base dei rapporti periodici delle parti, del segretariato generale, del comitato dei ministri ed, eventualmente, di un comitato consultivo.
[66] Si veda, in tal senso, ad es. il rapporto del comitato di esperti relativo alla Slovenia per l’attuazione della Carta europea delle lingue (9 giugno 2004) (http://www.coe.int).
[67] Sul ruolo delle euroregioni con particolare riguardo alla protezione delle minoranze etniche e linguistiche, v., tra gli altri, L. Bogliun Debeljuh, Come faremo la nostra euroregione Istria, in Limes, 1994, p. 263 ss.; G. Vedovato, Les relations transfrontalières dans la nouvelle Europe integrée des régions, in Riv. st. pol. internaz., 1994, p. 571 ss.; Idem, La cooperazione transfrontaliera e l’Europa di domani, ivi, 1995, p. 236 ss.; G. de Vergottini, Regioni di confine comuni: dalla cooperazione alla istituzionalizzazione, ivi, p. 61 ss.
[68] A proposito del ruolo che la collettività stessa può efficacemente svolgere ai fini della applicazione delle misure di tutela, v. il trimestrale Coordinamento Adriatico, gennaio-marzo 2006, p. 10, il quale riferisce che, grazie alla protesta della Unione italiana, è stato progressivamente reso effettivo il rispetto della toponomastica bilingue nella segnaletica istriana, mediante la sostituzione delle precedenti tabelle nella sola lingua croata e, analogamente in Slovenia, è recente il parziale ripristino delle denominazioni storiche nel comune di Pirano, grazie anche all’impegno profuso in tal senso dalla comunità italiana e dalle istituzioni che la rappresentano (v. La voce del popolo, 22 e 28 aprile 2006).
[69] Si vedano, oltre al preambolo della Cost. croata di cui si è detto, ad es. il preambolo della Cost. slovacca (1992) ed il preambolo della Cost. della Macedonia (1991).
[70] Si vedano, ad es., art. 10 Cost. Ungheria 1949; artt. 7 e 48 Cost. Macedonia 1991; artt. 6, 32, 3° comma, 59, 2° comma, 127, 2° comma, Cost. Romania 1991; artt. 6 e 34 Cost. Slovacchia 1992; art. 35 Cost. Polonia 1997.
[71] Come opportunamente osserva G. Grottanelli de’ Santi, Osservazioni in tema di diritti di libertà, cit., p. 198, “Non sembra dubbio che il consenso medio necessario essenziale per una società statuale nella quale convivono gruppi etnici diversi e senza del quale nessuna forma di governo ha possibilità di durare a lungo debba essere descritto come un accordo su quali e quante libertà debbano essere assicurate, rispettivamente, agli individui e alle formazioni sociali”. Nella prospettiva della integrazione europea, la costruzione di uno “Stato federale europeo … non potrà che accogliere e far sua la protezione delle minoranze accordata in ciascuno degli Stati che ne faranno parte” (p. 197), ritenendosi improbabile, da parte dell’A., una revisione del fondamento stesso dello Stato finalizzata ad una più soddisfacente tutela dei diritti collettivi (v. supra nota 19).