Scritto da Giorgio Federico Siboni
Nel bacino mediterraneo il fenomeno del contrabbando clandestino – sia di armi e droga, come di merci rubate e persone – vede al presente in prima linea soprattutto organizzazioni criminali originarie dell’Europa orientale. Tali gruppi costituiscono ormai nel settore cartelli di provata affidabilità nella gestione dei traffici illeciti. La loro conduzione dei flussi illegali di commercio è oggi così solidamente inserita nel circuito criminale, al punto tale da aprire la strada anche a contatti (non organici) con la criminalità pugliese, calabrese e talvolta siciliana: sovrapponendosi talora ai condizionamenti del mercato e insinuandosi pure nella vita politica dei Paesi coinvolti. Secondo il rapporto pubblicato dall’Europol alla fine del 2009, risultano oggi attivi su scala europea almeno cinque dei cosiddetti «hub» (snodi) criminali. Aree geografiche, cioè, su cui si articolano i differenti scenari del crimine organizzato transnazionale. In base alla mappatura effettuata dalla stessa Europol, l’Adriatico emerge come punto di giuntura e raccordo del circuito Nordest-Sudest: dalla Russia e dai Paesi dell’ex blocco sovietico sino al Portogallo, attraverso i territori ex jugoslavi e l’Italia.
Lungo l’arco di circa vent’anni le compagnie criminali giunte dall’Est hanno sviluppato rapidamente una delle più elevate capacità criminogene a livello internazionale, mediando cioè i caratteri tradizionali della clanicità e della rigida struttura interna endogamica con elementi innovativi e moderni, quali la sovranazionalità e un rivoluzionario imprinting commerciale. Da un’analisi comparata sono rilevabili – a titolo di esempio – caratteri simili alla ‘Ndrangheta, sotto il profilo strutturale e alla criminalità pugliese, sotto quello funzionale. La rotta adriatica che da Durazzo e Valona conduceva giovani donne e partite di marijuana e cocaina in Puglia, con il consenso della Sacra Corona Unita, è stata soppiantata da quella kosovaro-montenegrina, che si avvale dell’appoggio del clan Lleshi. Il Montenegro costituisce infatti uno scalo primario nel tragitto delle droghe verso l’Europa, anche grazie ai contatti stabiliti dalla malavita locale e serba con i produttori colombiani, attraverso i canali di smistamento in Africa occidentale. Sono quindi emersi nuovi itinerari funzionali a differenti strategie di commercio e di partnerships, come quelle stabilite tra organizzazioni russe, moldave e albanesi per il trasferimento di donne esteuropee in Europa e in Israele. Per tale via le ramificazioni adriatiche dei circuiti criminali si sono potute appoggiare ai precedenti contatti di cui godevano nei porti e alle frontiere con le mafie nostrane.
Un caso in tal senso emblematico è quello rappresentato dalla neonata Santa Alleanza Balcanica, joint venture emersa all’inizio dell’anno, in seguito a lunghe indagini avviate dalla magistratura di Bari. Secondo il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, «la cooperazione peggiore» sul piano del contrasto ai traffici illeciti internazionali è proprio «quella con le autorità del Montenegro». Sul versante adriatico l’Italia ha svolto un ruolo propulsivo nella lotta alla criminalità, promuovendo sin dal 1999 intese con Albania, Bosnia, Croazia, Grecia, Montenegro e Slovenia e tramite l’Iniziativa Adriatico-Ionica, avviata nel 2000 per la collaborazione regionale tra le due sponde, anche in vista del rafforzamento di azioni transfrontaliere attraverso i due mari. A metà aprile, Belgrado ha intanto emesso un mandato di arresto internazionale per Darko Saric, boss montenegrino con passaporto serbo, reo di avere organizzato per un miliardo di euro un enorme traffico di stupefacenti, gestito in collaborazione con i clan calabresi e colombiani. Accusato anche di avere rapporti con il controverso premier montenegrino Milo Dukanoviç – già a sua volta indagato nel 2003 dalle procure di Bari e Napoli per associazione mafiosa – Saric è a tutt’oggi latitante, sfuggito al mandato di cattura grazie all’impunità garantita, a quanto pare, dal medesimo Montenegro.