Scritto da Raoul Pupo, «Il Piccolo», 08/02/14
sabato 08 febbraio 2014
La corsa per Trieste. L’immagine, dovuta alla penna di Geoffrey Cox, è di quelle che piacciono ai triestini, perché evoca una competizione in cui i due concorrenti si impegnano allo spasimo per raggiungere la meta, “la perla”, come la chiamavano gli inglesi, e cioè Trieste. Magari, non è andata proprio così. Uno dei due partecipanti, effettivamente, ce l’ha messa tutta: l’armata popolare jugoslava ha fatto l’impossibile per arrivare per prima, perché ne aveva le sue buone ragioni. Il fronte di liberazione a guida comunista aveva accolto le tradizionali rivendicazioni nazionali dei popoli jugoslavi, sperando in tal modo di distoglierli dalla terrificante guerra civile seguita all’aggressione tedesca ed italiana del 1941. E l’Istria e il Litorale stavano nel cuore dei patrioti sloveni e croati. Ma c’era anche dell’altro. I partigiani di Tito non volevano solo la liberazione, ma anche il socialismo. Costruire però il comunismo in un piccolo paese balcanico circondato da nemici, poteva non bastare.
Ecco allora il grande progetto: una federazione balcanica estesa anche alla Bulgaria, all’Albania e alla Grecia, confinante con due stati che la guardavano con reverenza, l’Austria e l’Italia. Non era un delirio. I bulgari si erano suicidati politicamente legandosi alla Germania, in Grecia il movimento partigiano era prevalentemente orientato a sinistra e in Albania il partito comunista l’aveva fondato Tito. Inoltre, agli inizi degli anni ’40 sia i comunisti austriaci che quelli italiani dipendevano largamente da quelli jugoslavi.
Dunque, Trieste nostra = Trieste sovietica, aveva scritto Edvard Kardelj: non solo coronamento della Grande Slovenia e della Grande Jugoslavia, ma anche avamposto del socialismo verso quell’Italia, dove si sperava che i comunisti si dessero da fare per conquistare il potere, grazie anche al fraterno aiuto jugoslavo. L’idea era così affascinante che in effetti anche i comunisti italiani della Venezia Giulia finirono – magari un po’ a spinte – per rimanerne conquistati. Togliatti un po’ meno, perché le direttive di Stalin per l’Italia gli imponevano di non pensarci neanche, alla rivoluzione. Dunque, sulla strategia generale riuscì a tener fermo: ma su Trieste, dove l’ombra del Cremlino non arrivava, invece no. Combinando abilità e fortuna si rifugiò nell’ambiguità: gli andò bene, e poi ci avrebbe pensato la storiografia a trasformarla in un’illuminata linea politica.
Dietro alle mosse anglo-americane non stavano invece così alti disegni. Quello che al Comando del Mediterraneo importava, era far fuori i tedeschi in Italia. Poi, se tutto andava bene, si sarebbe pensato all’Austria. E qui, certo, Trieste, che dall’Austria era il porto, avrebbe fatto comodo. Ma c’erano di mezzo gli alleati jugoslavi, che sull’argomento sembravano decisamente intrattabili. I tedeschi, con gran rammarico del Foreign Office, probabilmente non avrebbero resistito a sufficienza. Per di più, con ancor maggior scorno del Comando britannico delle operazioni, gli americani non avevano alcun desiderio di veder coinvolte le loro truppe in quelli che consideravano “pasticci balcanici”. Di conseguenza, politicamente nella primavera del ’45 gli anglo-americani navigavano a vista. E gli italiani?
Non contavano nulla, ma proprio nulla. Dopo l’8 settembre, forse qualche volta ce lo dimentichiamo, l’Italia era sparita. I due simulacri di Stato, al nord come al sud, incontravano solo una blanda attenzione da parte delle potenze occupanti, che seguivano i loro piani senza tener conto di quel che ne pensavano gli indigeni. I tedeschi contavano di sottrarre Venezia Giulia e Friuli alla sovranità italiana a guerra finita, e per intanto impedivano ogni afflusso significativo di truppe della RSI nella Zona di operazioni Litorale Adriatico. Gli anglo-americani osservavano con distacco i piani del governo del sud per uno sbarco vicino Trieste, salvo bloccarli al momento opportuno. Le marine dei due stati italici si tenevano arditamente in contatto, con risultati pari a zero. Qualcosa di più sembrò poter ottenere la “diplomazia della Resistenza”. Nell’estate del 1944 il CLN Alta Italia e il Fronte di liberazione sloveno raggiunsero in effetti un accordo di collaborazione per l’area giuliana, ma poche settimane dopo gli sloveni ci ripensarono, proclamarono pubblicamente le loro rivendicazioni fino all’Isonzo e misero i partigiani italiani di fronte all’alternativa: o entrare nelle organizzazioni del movimento di liberazione sloveno, accettandone la linea, oppure andarsene. La maggior parte dei comunisti accettò, e quelli che non lo fecero non ebbero molta fortuna, perché i tedeschi riuscirono a catturarli quasi tutti. Anche i partigiani non comunisti rifiutarono e neanche loro ebbero vita facile, tanto che a Porzus alcuni la persero. A Trieste, gli antifascisti del Cln e quelli comunisti, italiani e sloveni, che avevano dato vita all’Unità operaia, non si parlarono per mesi. Poi, nell’imminenza della crisi finale, provarono a cercare un accordo. Naturalmente non ci riuscirono, perché entrambi desideravano la rappresentanza politica prevalente della città di fronte agli alleati che per primi si sarebbero presentati a Trieste: voleva dire parlare a nome della cittadinanza in favore dell’Italia o della Jugoslavia.
E così, ciascuno tentò per proprio conto la carta dell’insurrezione contro i tedeschi. Trieste quindi, dove quasi tutto è doppio, ebbe non una, ma due insurrezioni, l’una concorrenziale all’altra. Nessuna delle due, nemmeno collaborando sul campo, come poi in effetti avvenne, riuscì ad aver ragione dei tedeschi. Per questo, fu necessario attendere le liberazioni. Anche queste infatti furono due, pure esse concorrenziali e sovrapposte. Prima arrivò per un’incollatura la quarta armata jugoslava, il primo maggio, ma non riuscì ad ottenere la resa tedesca. Di conseguenza, il giorno dopo arrivarono i neozelandesi dell’ottava armata britannica, cui i tedeschi gettarono le braccia al collo. Per dirla con Churchill, gli anglo-americani avevano infilato il piede nella porta, ma non sapevano ancora bene che cosa farsene. Per deciderlo, e poi per farlo accettare al governo jugoslavo, ci avrebbero messo più di un mese. Nel frattempo, Trieste avrebbe vissuto giorni di sangue.