Scritto da «Il Piccolo», 08/01/10
TRIESTE – Decine e decine di grotte del Carso triestino pesantemente inquinate, ostruite con i materiali più vari, usate come discariche e persino distrutte. Delle 2695 cavità registrate nel Catasto delle grotte, gestito dalla Regione, 121 risultano inquinate, 247 non sono più accessibili in quanto ostruite, mentre di 19 non c’è più traccia (sono state distrutte da interventi vari, come cave di pietra o lavori stradali). È quanto emerge da un’indagine sul campo effettuata da Roberto Trevi e Claudio De Filippo, speleologi del Cai XXX Ottobre, e dall’associazione ambientalista Greenaction Transantional. Gli esempi più drammatici di come dagli anni Sessanta in poi si sia ricorsi alle cavità carsiche per smaltire ogni genere di rifiuto sono situati nel territorio del Comune di Trieste. A cominciare dal Pozzo dei colombi, nei pressi di Basovizza, il cui fondo è trasformato in un lago di idrocarburi e nafta. In quella che era una splendida caverna, nel 1972 vennero anche gettati i terreni impregnati di petrolio, rimossi dall’area Siot dopo l’attentato di Settembre Nero. In quel lago ci sono però anche fanghi industriali, residui del lavaggio di caldaie e sostanze chimiche non meglio precisate.
«Nel 1972 centinaia di camion – racconta Furio Premiani, presidente della Federazione speleologica triestina – scaricarono i residui dell’incendio alla Siot. La grotta è profonda 75 metri: fu riempita fino a 15 metri dall’apertura. Un mare nero che con il caldo estivo si allenta e scende in profondità. Nel 1996 – aggiunge – la Regione incaricò una ditta di bonificare la grotta. Si arrivò fino ai 30 metri di profondità, poi ci si fermò». Non migliore è la situazione del Pozzo del Cristo, sulla strada che da Basovizza porta a Gropada, dove negli anni ’60-’70 fu installato persino un bocchettone per facilitare il collegamento alle autobotti impegnate a scaricare nafta e altri residui, scarichi che avvenivano con tanto di autorizzazione del Comune di Trieste. «Avevamo smesso di andarci – racconta Claudio De Filippo, del Gruppo grotte del Cai XXX Ottobre – quando era pieno. Adesso si è svuotato. Dove è finita tutta quella roba non si sa. Le pareti sono coperte da uno strato nero di nafta. Dal fondo, che sta 60 metri di profondità, in certi momenti risalgono esalazioni che possono essere mortali. Bisogna usare il respiratore».
Un lago di nafta, copertoni e altri detriti ricoprono il fondo della cosiddetta “Grotta inquinata”, a un centinaio di metri dall’a bisso di Trebiciano. «A circa 50 metri dalla strada – spiega Premiani – c’è un’apertura in cui per anni si è scaricato di tutto: residui della pulizia di caldaie, serbatoi, detriti di ogni tipo. E vicino c’è una dolina, usata anch’essa per anni come discarica, fino al suo riempimento». Gli esempi di questo stravolgimento dell’ambiente sotterraneo (e non solo) del Carso purtroppo si sprecano. «Nell’abisso di Rupingrande scaricano le fogne della case – racconta ancora Premiani – come avviene anche a Basovizza: all’ingresso del Sincrotrone c’è un impianto di depurazione, da dove alcuni tubi portano le acque reflue in due grotte vicino a una pineta». Quello delle grotte ostruite, fino al punto di non poter più riconoscere l’ingresso, è un altro esempio di questo scempio continuato per decenni (e probabilmente ancora in corso). Quasi 250 grotte, sparse su tutto il Carso, esplorate e inserite nel Catasto regionale, di cui non c’è più traccia. «Sono scomparse – spiega Claudio De Filippo –. Ci hanno buttato dentro di tutto, anche detriti di costruzioni, fino a farle scomparire. E poi c’è un numero imprecisato di grotte scoperte durante interventi privati e subito richiuse, di cui non si saprà mai neanche l’esistenza». Un patrimonio gravemente compromesso, dunque, la cui situazione è nota agli addetti ai lavori, ma che balza ora tristemente alla ribalta nazionale dalle pagine della rivista «National Geographic». Uno stato di cose che non facilita certo le ambizioni turistiche dell’altipiano e dell’intera provincia.
Nell’elenco dei materiali pericolosi e inquinanti scaricati nelle cavità del Carso non manca neppure l’amianto. «Dalla Grotta degli occhiali – ricorda Premiani – nel 2005 ne abbiamo estratto, con tutti i problemi e le precauzioni per recuperarlo, almeno un metro cubo. Sul Carso l’amianto è sparso un po’ dappertutto, negli anni è stato buttato anche nelle grotte. Per non parlare dei vasi di vernici, di contenitori di solventi trovati in diverse cavità, e dei 700 chili di batterie degli anni Trenta, contenenti ancora pericolosi elettroliti, recuperate da una grotta vicino a Ternovizza, in comune di Duino Aurisina». Ma c’è la possibilità di intervenire per limitare i gravi danni recati negli ultimi decenni al sistema delle grotte? «Dove si tratta di detriti – osserva De Filippo – è abbastanza facile ripulire, ma nel Pozzo del Cristo, inquinato da idrocarburi, è necessario l’intervento di una ditta privata, con i costi elevati che ciò comporta. Anni fa il Pozzo dei colombi è stato svuotato da un’impresa finché sono bastati i fondi, poi tutto si è fermato».
«È un problema molto grosso – gli fa eco Premiani –. è un vero bubbone. Ci sono stati interventi sporadici, fra cui quelli del Comune di Duino Aurisina, durati quattro anni e poi interrotti penso per mancanza di fondi. Per la pulizia dell’abisso Plutone il Comune di Trieste ci ha dato un po’ di fondi. Non c’è mai stato però – prosegue – alcun incarico ai gruppi speleologici da parte delle istituzioni, per fare un lavoro organico sulla valutazione della consistenza degli inquinanti. Perché non lo si è fatto? Mancano soldi o forse è meglio tenere tutto nascosto?». Una norma sulla tutela degli ambienti ipogei sul Carso esiste, ma non è stato redatto ancora il regolamento attuativo. Si tratta del decreto del presidente della Regione 20/3/2009, emanato nel quadro della direttiva europea Habitat, che protegge ambienti e animali del mondo sotterraneo. «Vorrei mi spiegassero – commenta con toni amari Premiani – come intendono applicare le direttive, o se fanno i decreti solo perché lo impone l’Unione europea».