sabato 30 ottobre 2010
1999: LA GUERRA DEL KOSOVO
LA DESTRA, LA SINISTRA E IL CENTRO ITALIANI DI FRONTE AL CONFLITTO
Massimo Girola*
La guerra del Kosovo, tra il marzo e il giugno del 1999, ha segnato da un lato l’apice della tragedia balcanica, che dopo Croazia e Bosnia ha toccato l’ultimo dei focolai di tensione (quello tra l’altro, da dove è iniziato, nel 1989, il processo di disintegrazione statale della Jugoslavia) dall’altro, in un’ottica nazionale, la partecipazione diretta dell’Italia ad un conflitto internazionale dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Un evento in pratica già verificatosi durante la prima guerra del Golfo, ma in questo caso ancora più ricco di significato. Innanzitutto perché avvenuto non sotto le bandiere (ancorché formali) dell’Onu, ma sotto il comando Nato; secondariamente, perché al governo si trovava, per la prima volta nella storia italiana, un esponente dell’ex Pci, Massimo D’Alema.
Questi sconvolgimenti hanno proiettato nei dibattiti dell’epoca argomenti ancora oggi di stringente attualità, pur se i riflettori si sono spostati dai Balcani al Medio Oriente in seguito ai drammatici fatti dell’11 settembre 2001. Tematiche come il ruolo dell’Onu e la sua necessità di essere riformata, l’impotenza e la divisione dell’Europa, il ruolo degli Stati Uniti come gendarme del mondo, la possibilità di condurre guerre in nome dell’internazionalismo dei diritti umani, il dibattito sul pacifismo sono, infatti, tutte questioni rimaste ancora aperte. Così come resta ancora drammaticamente irrisolta la questione kosovara, con la morte, a poca distanza l’una dall’altra (rispettivamente il 21 gennaio e il 12 marzo 2006) dei due protagonisti principali, Rugova e Milosevic (quest’ultimo deceduto nel carcere del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja), e il futuro della provincia ancora da definire, a ormai diversi anni dalla fine delle ostilità.
Vale la pena allora sfogliare le pagine dei quotidiani dell’epoca e cercare di comprendere l’atteggiamento e le riflessioni dell’opinione pubblica italiana.
Il primo, analitico tentativo di comprendere lo “spirito di fondo” che sottintendeva alla prima guerra ufficialmente dichiarata per motivi umanitari fu compiuto, sulla stampa italiana, da «Il Foglio», alcune settimane dopo l’inizio dei raid aerei sulla Jugoslavia:
[…] C’è un nuovo pensiero politico. Nei suoi tratti comuni e diffusi dominano una prevalenza di “wishful thinking” e un generico idealismo, al posto della rigidità ideologica e a pragmatismo della “vecchia” scuola politica. Si riscontrano poi la supremazia della nobiltà delle intenzioni sui risultati quantificabili (il trionfo del “gesto splendido” contro il “risultato concreto”) e lo storico trionfo del concetto dei diritti umani, posti al di sopra di quelli dello Stato sovrano e dei suoi interessi, spesso inconfessabili. Si tratta di uno spostamento epocale: dalla Realpolitik al “brave new world” di una inedita Idealpolitik. […] Scomodando Von Clausewitz, si potrebbe dire che la guerra in Kosovo è un “Live Aid” condotto con altri mezzi.[1]
Il manifesto di questa nuova sinistra “dei diritti umani” poteva considerarsi l’articolo di Tony Blair apparso sulle pagine de «L’Unità» il 14 aprile:
L’esperienza, purtroppo amara, ci ha insegnato che non possiamo accordarci con i dittatori. Ci abbiamo provato 60 anni fa; non è il caso che ci riproviamo oggi. L’Europa e gli Stati Uniti debbono dare ora prova di fermezza e d unità. La politica di Milosevic fondata sulla pulizia etnica dev’essere assolutamente sconfitta, ribaltata. […] Nell’anno del suo 50° anniversario la Nato deve farcela. Noi ci battiamo per un mondo in cui i dittatori non possano più infierire orrendamente sulle popolazioni a loro soggette pur di rimanere al potere. […] La nostra non è una guerra territoriale, bensì per la difesa dei valori, per un nuovo internazionalismo che non tolleri più la brutale repressione di interi gruppi etnici, per un mondo in cui i responsabili di tali crimini non trovino rifugio.[2]
Questa nuova concezione ideologica non aveva avuto una genesi facile: su «Repubblica», Michele Serra mise in luce il «dramma europeo e generazionale» degli ex-leader sessantottini del Vecchio Continente, i quali salutavano gli ideali della loro giovinezza «sfavillante e piena di sorrisi e promesse» per affrontare i gravosi compiti della maturità; «verità e battaglia» dopo «immaginazione e pace», scrisse Serra citando le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo. Era un travaglio il loro di chi, cresciuto in un lunghissimo periodo di pace, improvvisamente si trovava a dovere fare i conti con la guerra. [3]
Non tutta la sinistra condivideva tuttavia questo nuovo internazionalismo: si assisteva così al contrapporsi di due diverse sinistre, come sottolineò Sergio Romano:
[…] Il conflitto ha messo in luce l’esistenza di due diverse sinistre. La prima crede in un nuovo diritto internazionale, ritiene che i delitti contro l’umanità vadano perseguiti ovunque, è pronta ad accettare, per ripristinare l’ordine e punire i colpevoli, l’uso delle armi. La seconda è contraria alla guerra per ragioni ideali, o, più semplicemente, perché quelle della Nato e dell’America sono sempre, necessariamente, “guerre imperialiste”.[4]
Questa sinistra “pacifista” denunciva lo «stravolgimento del giusto principio di ingerenza umanitaria», come sottolineva Ida Dominijanni sul «Manifesto»:
[…] La comunità internazionale può e deve intervenire per sanzionare i crimini contro l’umanità. Commessi sotto la copertura della sovranità nazionale. Ma forme e strumenti dell’intervento sono decisivi: rafforzano o tradiscono la logica dello scopo umanitario. E se lo statuto dell’Onu prevede l’uso della forza, lo subordina all’osservazione di alcune regole, alla salvaguardia dei civili, al controllo del consiglio di sicurezza. Nel caso del Kosovo, invece, non c’è l’Onu (neanche in funzione di formale copertura, come nella guerra del Golfo) bensì la Nato, e non c’è un uso regolato della forza di polizia, né invenzione di formule giuridiche ad hoc, come nel caso del tribunale internazionale insediato sulla Bosnia, bensì solo bombardamenti indiscriminati.[5]
Il negare valore etico e morale all’intervento Nato imponeva di ricercarne e individuarne il vero scopo, celato sotto un pretesto falsamente umanitario. Secondo Eugenio Scalfari, «La sola ragione che emerge in quest’immenso polverone è che gli Stati Uniti hanno deciso di assumersi ufficialmente e in permanenza il ruolo di gendarmeria militare e, stanchi di doversi impantanare nelle estenuanti procedure dell’Onu, hanno affidato alla Nato la funzione di gendarme». [6] Da non trascurare anche le motivazioni economiche: il «Manifesto» addusse come come causa del conflitto la volontà anglo-americana di porre sotto il proprio controllo la rete dei gasdotti dal Mar Caspio all’Egeo, attualmente nella più completa impasse; in questo modo, avrebbero posto sotto il loro controllo una fonte energetica che altrimenti avrebbe consentito all’Europa di rendersi autonoma dal controllo statunitense e britannico. [7]
Se la sinistra si barcamenava tra antichi riflessi antiamericani e nuovissime responsabilità di governo e militari, anche la destra conosceva i suoi tormenti e si ritrovava affetta dal «malpancismo», come sottolineava Pierluigi Battista:
[…] “Malpancista” appare anche la destra da sempre filo-atlantica che certo non può non stare nella Nato, però al prezzo di interrogativi finora ad essa sconosciuti. Sarà perché il filo-atlantismo di antica data non si trova a suo agio nella retorica progressista dell’“ingerenza umanitaria” […] Sarà perché non riesce ad entusiasmarsi per le sorti dei guerriglieri kosovari dell’Uck. Sarà perché una guerra troppo vicina fa nascere qualche dubbio sull’“interesse nazionale” messo in gioco con l’intervento. Sarà anche che oggi è la sinistra al governo a dover maneggiare la patata bollente, fatto sta che stavolta il bellicismo non è di casa nella destra filo-atlantica. Questa guerra è proprio strana.[8]
«Anche la destra elabora i suoi sentimenti pacifisti, senza manifestazioni e cortei», rimarcava «Il Foglio», citando i “padri nobili” del pacifismo di destra: Drieu de la Rochelle, Louis Ferdinand Céline, Ezra Pound. Questo pacifismo, aveva diverse trame: «Il biasimo verso il Vecchio Continente esausto e privo di guida e la condanna per un’America invadente e priva di stile», «l’ostilità verso il pensiero unico tecnicistico di stampo americano e contro l’idea che sia il denaro a muovere il mondo», «il tema della globalizzazione monetaria contro l’identità dei popoli». Il punto centrale era la contrarietà ad un’America «che cala in Europa senza saperne nulla», espressione di una «estraneità culturale che non può essere dimenticata», non certo l’idea, peculiare della sinistra, che «la pace sia sempre meglio della guerra».[9]
Questa idea di fondo, la critica all’“impero del dollaro”, alla cui barbarie mercantile si contrapponeva la vera civiltà europea, informava la linea di condotta del movimento leghista, dichiaratamente filoserbo, risolutamente contrario alla «guerra nata dal mondialismo» che prevedeva l’annientamento dei popoli e delle credenze religiose.
Il manifesto anti-mondialista del movimento leghista era opera di Marcello Ricci:
[…] Clinton rappresenta gli interessi delle multinazionali e attraverso queste si assicura il consenso di quelle forze politiche che da loro dipendono e loro difendono. Siamo di fronte a uno dei più pericolosi esempi di quanto può scaturire dalla globalizzazione. Le multinazionali parlano di diritti umani solo per difendere il profitto e il diritto ad incentivarlo. […] La gente normale che lavora, produce e subisce, è chiaramente disorientata e non riesce a trovare la forza per opporsi a tutti questi matti. Che pretendono di comandare utilizzando sofisticati mezzi di distruzione, non solo militari. Questi matti attraverso la pornografia, il consumismo, il gioco che devia gli interessi verso fatue mete, impediscono alla gente di riconoscersi e rispettarsi. […] E’ ora di cambiare: si disertino le ricevitorie del Lotto, il fanatismo degli stadi, si abbandonino le anormali pratiche sessuali presentate come virtù e si torni a godere delle piccole, ma grandi, gioie che il rispetto delle tradizioni, della famiglia e il gusto di cose semplici e sane possono dare. La Padania deve porsi al centro di questo processo di rinnovamento.[10]
Tra chi sosteneva l’intervento a destra c’era Vittorio Feltri,: è vero, concedeva, che curdi, tibetani e sudanesi non erano stati aiutati, ma non si poteva «soffrire le pene di tutta la Terra»; talvolta, però, «non si riesce davvero a chiudere gli occhi». Chi strepitava su sovranità violate e diritti calpestati, avrebbe dovuto proporre valide alternative, oppure avrebbe fatto meglio a «smettere di piagnucolare»:
[…] Una domandina retorica: qual era, qual è l’alternativa alla guerra? La trattativa, rispondono i cretinetti, i male informati. La trattativa con Milosevic va avanti da un sacco di tempo. Lui dice sì, ci sto, poi ricomincia a torturare e a uccidere. Non rispetta i patti. Con un tipino così, non c’è negoziato che regga. E’ obbligatorio sparare. […] Qua e là si legge che i raid hanno violato la sovranità della Serbia. Ovvio. Sempre quando si spara, si viola, altrimenti che spariamo a fare? […] La guerra non vogliamo chiamarla missione umanitaria? Cambiamole nome. Va bene Maria? Purché la si smetta di piagnucolare. E chi ha un’idea migliore per risolvere la crisi slava, si faccia avanti. Non sia tanto riservato da tenerla per sé. Coraggio, fuori i piani.[11]
Non mancava chi, con altrettanta sicurezza, sosteneva tesi opposte. Era il caso di Marcello Veneziani, risolutamente contrario all’esistenza di «un gendarme a stelle e strisce» che detta regole assiso sul suo trono di sovrano assoluto, violando la sovranità nazionale, il diritto internazionale e mettendo in pericolo la sicurezza europea:
[…] Mi spaventa che esista un solo Giudice universale che decide – con la forza – le sorti del bene e del male, i buoni e i cattivi, i sommersi e i salvati. E mi spaventa che la democrazia nel mondo sia nelle mani di una Monarchia Assoluta, incontestabile nei suoi verdetti inappellabili. Intendiamoci, sono un realista: a differenza di chi crede nel primato del diritto, so che dietro il diritto c’è sempre la forza. Ma mi spaventa che non ci sia un equilibrio di forze e si faccia poco o nulla per gettarne le basi. [12]
Anche tra i cattolici le posizioni erano piuttosto divergenti. Vittorio Messori giudicò l’attacco Nato «un atto di pirateria» che violava il carattere difensivo dell’organizzazione. Lo scrittore si appellava al realismo cristiano che insegnava che «ogni popolo ha diritto di farsi le sue guerre». Passi per l’America, «cui non si può chiedere di conoscere la storia», ma almeno l’Europa, «che la storia la mastica», avrebbe dovuto agire con maggiore discernimento:
[…] Nei Balcani lo scannamento è sempre stato generale, i buoni musulmani scannavano i cristiani quando avevano le spalle coperte dai turchi… Oggi sono le vittime solo perché non possono essere boia. Cosa vuol dire fermare il massacro? Il Kosovo non vuole l’autonomia, vuole secedere, per fare poi ai serbi quello che i serbi stanno facendo loro.
Messori poneva inoltre l’accento sulla pericolosità dell’uso indiscriminato dell’autodeterminazione dei popoli, frutto di «una pretesa illuminista di governare la Storia» che trovava «insopportabile»:
[…] Se ci mettiamo a inseguire la logica nazionale per cui ogni gruppo può definirsi un popolo e formare una nazione scoperchiamo un vaso di Pandora dalle conseguenze tragiche… Se ci schieriamo con i kosovari, che non sono oltretutto una cultura che faccia popolo e nazione, ce cosa dovremo fare per i provenzali, per gli aragonesi? Per il mito dell’autodeterminazione può esplodere tutto. Minacciati dalla polverizzazione come siamo, non possiamo dare a ciascuno lo Stato in senso illuministico. In un mondo dominato dagli scontri di etnie, non possiamo schierarci a favore delle secessioni.[13]
Antonio Socci, da parte sua, si dichiarava invece favorevole al conflitto[14], e questo lo portò a polemizzare sulla linea di condotta del papa, quando la diplomazia vaticana chiese una pausa dei bombardamenti in occasione della Pasqua:
[…] Una cosa è certa: se sulle questioni di fede va riconosciuta – dai cattolici – l’infallibilità del Papa, tale infallibilità non si estende affatto alle scelte storiche contingenti. Come spiegano gli autori ecclesiastici, i concili e lo stesso Giovanni Paolo II che infatti ha voluto ripetutamente chiedere scusa per gli errori dei suoi predecessori. Non vorremmo che domani un suo successore dovesse chiedere scusa per gli errori compiuti nei Balcani durante questo pontificato. Naturalmente sono benedetti gli appelli alla pace e ben venga la diplomazia vaticana. Purché non si fornisca così un alibi e una legittimazione al tiranno che vuole solo procurarsi il tempo necessario per portare a termine la sua criminale “pulizia etnica”.[15]
Da Socci si differenziavano nettamente i cattolici di «Avvenire», che seguivano, come scrisse Gabriella Sartori, la «via pacifica per la soluzione del conflitto». La Sartori ricordò come quest’ultima avesse improntato, fin dalla definizione data da Benedetto XV alla Prima Guerra Mondiale di «inutile strage», l’azione dei pontificati novecenteschi; non a caso, Giovanni Paolo II aveva fatto proprie, riferendosi al conflitto in atto nei Balcani, le parole pronunciate da Pio XII nell’imminenza del secondo conflitto mondiale: «Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra».[16]
Una posizione di condanna alla guerra (e alla sua legittimità) resa chiara dal direttore del quotidiano, Dino Boffo, sin dall’inizio delle ostilità:
[…] Il cuore ci dice che entriamo in un nodo di possibilità mai controllabili. Che la prima vampa ha già peggiorato le condizioni dei kosovari, che si vorrebbe invece salvare dalla violenza. Che la legittimità del “chirurgico” intervento non è certa, né chiara. C’è il dubbio – dubbio atroce – che non si sia fatto il possibile e l’impossibile; che la soluzione scelta sia solo illusoriamente inevitabile. L’esperienza ci dice che mai nessuna guerra ha veramente fruttato “soluzioni rispettose del diritto e della storia”, come ha ammonito il Santo Padre.[17]
La fine delle ostilità e l’entrata in Kosovo delle truppe occidentali impose a ciascuna corrente riflessioni sui 78 giorni che avevano cambiato il volto del mondo. A destra, i “realisti” favorevoli all’intervento, alla luce dei compromessi con i quali si era ottenuta la pace, sottolineavano quanto fosse stato sbagliato presentare la guerra come un’impresa umanitaria, diretta esclusivamente a interrompere la pulizia etnica; a monte c’era qualcosa «di più grave», l’ostinazione di Milosevic a opporsi con la forza al processo di disgregazione di «un’unità statale artificiosa», ostinazione che minacciava la pace del Vecchio Continente. [18]
Il leghismo riteneva che si fosse creato un mondo molto meno sicuro, dominato dalle multinazionali le quali vi avrebbero trovato terreno fertile per i propri lucrosi affari. Si prospettava uno scontro di civiltà; compito dei “Padani” sarebbe stato quello di «impedire che la finta civiltà dei fast food e della jeanserie distrugga la vera civiltà», cioè quella europea.[19]
La sinistra “pacifista” registrava invece con soddisfazione il fallimento del disegno della Nato di ergersi a giudice del mondo, il quale «decide chi sono i buoni e i cattivi del mondo, chi premiare e chi punire, e quali mezzi usare per farlo».[20]
«Avvenire» auspicò che nello scenario di pace si traducesse in pratica il principio per il quale «è prerogativa dell’Onu fissare i modi e gli strumenti per riportare sotto la legge ogni intervento di prevenzione o di repressione».[21] Una critica alle derive unilateralistiche americane, ribadite anche dal risalto dato all’invito del Papa all’Europa a «prendersi la responsabilità nella ricostruzione e nella vita democratica, sociale e d economica nei Balcani».[22]
La sinistra «dei diritti umani» vedeva ripagati con il successo i tormenti e le lacerazioni che le erano costati mantenere la fermezza e l’intransigenza verso Milosevic. La dottrina dell’«ingerenza umanitaria» aveva mostrato la sua efficacia. [23]
Tutto lasciava pensare che, finalmente, «la gloria della nazione-stato intesa come culmine della storia di ogni comunità nazionale e come suo più alto valore terreno (l’unico, anzi, in nome del quale è consentito uccidere, o per il quale era considerato dulce et decorum sacrificare la vita)» avesse «già superato il suo zenit»:
[…] Nel secolo venturo sono certo che gli Stati, per la maggior parte, cominceranno a mutare: da entità “di culto” sovraccariche di passione, in entità assai più semplici e più civili, in unità amministrative meno potenti e più razionali che rappresenteranno soltanto uno dei modi (complessi, a molti livelli) in cui la nostra società planetaria è oggi organizzata. Con tale trasformazione, l’idea di non interferenza (la convinzione che non sia affar nostro ciò che avviene in un altro paese, ove mettiamo si violino i diritti umani) dovrebbe anch’essa scomparire, inghiottita da una botola della storia. Se gli Stati democratici moderni sono comunemente definiti da determinate qualità – il rispetto che hanno per le libertà e i diritti umani, l’eguaglianza di cui godono i loro cittadini e l’esistenza di una società civile – allora la condizione verso la quale l’umanità potrà, anzi, nell’interesse della sua stessa sopravvivenza dovrà muoversi sarà, probabilmente, caratterizzata da un rispetto, universale o globale, per i diritti umani, dall’universale eguaglianza dei cittadini, dal principio di legalità e da una planetaria società civile.[24]
Il tempo dirà se davvero Vaclav Havel non si sia sbagliato nel sostenere che «gli illuminati sforzi di generazioni di democratici, la terribile esperienza di due guerre mondiali – che tanto hanno contribuito all’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – nonché l’evolversi della civiltà» hanno, finalmente, «indotto l’umanità a persuadersi che gli esseri umani (creature di Dio) sono più importanti dello Stato (creatura umana)». La via, attraverso mille difficoltà, ambiguità, incertezze, errori e molto dolore, era stata tracciata.
* Massimo Girola è Laureato in Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano.
NOTE
[1] Se la guerra in Kosovo è un Live Aid condotto con altri mezzi, in «Il Foglio», 15 aprile 1999, p. 3.
[2] Tony Blair, Stavolta gli Alleati andranno fino in fondo, in «L’Unità», 14 aprile 1999, p. 5.
[3] Michele Serra, Da Woodstock a Belgrado, in «La Repubblica», 4 aprile 1999, p. 17.
[4] Sergio Romano, Un uomo a Belgrado, in «Corriere della Sera», 9 aprile 1999, prima pagina.
[5] Ida Dominijanni, La tragica simulazione del fine umanitario, in «Il Manifesto», 31 marzo 1999, p. 5.
[6] Eugenio Scalfari, Qual è la vera ragione, in «La Repubblica», 28 marzo 1999, prima pagina.
[7] Sergio Finardi, Sporchi di oro nero, in «Il Manifesto», 14 aprile 1999, p. 10.
[8] Pierluigi Battista, Se la destra ha il mal di pancia, in «La Stampa», 27 marzo 1999, prima pagina.
[9] La destra che ritiene gli americani (e la loro) guerra barbari, in «Il Foglio», 2 aprile 1999, p. 3.
[10] Marcello Ricci, Tra Milosevic e l’Islam un’Europa impotente, in «La Padania», 5 maggio 1999, prima pagina. La polemica antimondialista de «La Padania» toccò toni decisamente e biasimevolmente accesi, come quando Luca Lauriola definì il segretario alla Difesa Cohen e il segretario di Stato Albright «ebrei falchi e guerrafondai, mossi da velleità dominatrici sprizzanti da tutti i pori dei loro impressionanti volti». Luca Lauriola, L’Europa torni protagonista, in «La Padania», 22 maggio 1999 prima pagina.
[11] Vittorio Feltri, Se Milosevic si rialza son dolori”, in «Il Giornale», 28 marzo 1999, prima pagina.
[12] Secondo Veneziani, non si trattava di una contrapposizione polemica tra «America e antiAmerica»: esisteva ormai una oggettiva divaricazione tra interessi geopolitici americani ed europei. «Noi abbiamo alle porte islamici, serbi, curdi, turchi come minaccia militare e come esodo di sfollati. Loro no. Noi abbiamo interessi economici, geoculturali e politici diversi.» Marcello Veneziani, Il fantasma del Mediterraneo, in «Il Giornale», 26 marzo 1999, prima pagina.
[13] Stenio Solinas, intervista a Vittorio Messori, “Ogni popolo ha diritto di farsi le sue guerre”, in «Il Giornale», 31 marzo 1999, p. 6.
[14] «Chi per strada s’imbatte in un energumeno che massacra un bambino o violenta una ragazzina» – argomentava Socci – «deve tirare avanti fischiettando e pensando che sono tanti nel mondo a subire violenza?». Anche ragionando in termini politici l’operazione “Determined Force” aveva le sue motivazioni: la defenestrazione di Milosevic avrebbe rappresentato la «quadratura del cerchio» per la Serbia («Perché è il suo clan di potere la vera umiliazione del Paese») e anche per la Russia («Mosca potrebbe scaricare Milosevic e ritrovare un rapporto con l’Occidente e un ruolo internazionale gestendo la resa del tiranno e quindi la pace»). Antonio Socci, Ma con Milosevic l’unica soluzione era i pugno di ferro, in «Il Giornale», 11 aprile 1999, p. 6.
[15] Antonio Socci, Santità, non dia un alibi al dittatore, in «Il Giornale», 2 aprile 1999, prima pagina.
[16] Gabriella Sartori, La guerra dei Giano Bifronte che dimenticano i loro ideali, in «Avvenire», 14 aprile 1999, p. 6.
[17] Dino Boffo, Che la miccia ora si spenga subito, in «Avvenire», 25 marzo 1999, prima pagina.
[18] Alberto Indelicato, Serbia colpevole come Milosevic, in «Il Giornale», 5 giugno 1999, p. 8.
[19] Marcello Ricci, Ha vinto la finta civiltà, in «La Padania», 12 giugno 1999, prima pagina.
[20] Riccardo Barenghi, Risultati, in «Il Manifesto», 4 giugno 1999, p. 2.
[21] Domenico Rosati, Restituire certezze a tutti i profughi, in «Avvenire», 11 giugno 1999, prima pagina.
[22] Il Papa: nelle mani dell’Europa la rinascita democratica, in «Avvenire», 11 giugno 1999, prima pagina.
[23] Barbara Spinelli, “La generazione dei diritti umani”, in «La Stampa», 6 giugno 1999, prima pagina.
[24] Vaclav Havel, L’idolo infranto dello Stato sovrano, in «La Repubblica», 1° giugno 1999, prima pagina.