I CROATI A VENEZIA. ALCUNI STUDI RECENTI
Egidio Ivetic*
Nell’ultimo decennio, la storiografia croata è stata testimone di un complessivo incremento sia di progetti di ricerca sia di iniziative editoriali, si sono aperte le porte ricerca a una numerosa schiera di giovani studiosi. L’effetto indipendenza, la creazione dello Stato croato, ovviamente si è riversato nella ridefinizione della storia nazionale croata dai secoli più remoti ai decenni dell’esperienza jugoslava. Per la storia contemporanea dalla metà dell’Ottocento all’avvento del modello socialista jugoslavo, i tradizionali settori d’indagine (sviluppo della società croata in quanto nazione moderna) sono stati ampliati e approfonditi, mentre in ambito di storia medievale (fino al 1526) si sono tracciate alcune importanti sintesi. L’età che convenzionalmente definiamo moderna, ovvero i secoli XVI-XVIII, e che coincide con la fase della partizione delle popolazioni croate in contesti politici separati, è quella invece che appare più frastagliata certamente la più complessa nel generale quadro storico croato, vista la difficoltà e la necessità di rapportarsi con esperienze storiografiche maturate dallo studio di specifici assetti politico-istituzionali come potevano essere i domini del regno croato-ungherese, i Confini militari, i domini dell’impero ottomano (Slavonia, Bosnia, Dalmazia), la repubblica di Ragusa (Dubrovnik), le terre arciducali del- l’Istria, i domini della repubblica di Venezia (Istria, Dalmazia). Il rapporto tra la Serenissima repubblica e le sponde orientali dell’Adriatico, il rapporto con la popolazione di tali sponde, in particolare i Croati, è diventato un argomento su cui si sta riversando un crescente interesse, anche a fronte del tramonto di alcuni pregiudizi storiografici, come quello di Venezia dominante e di colonie (Istria e Dalmazia) soggiogate e sfruttate, di cui ad es. Grga Novak, un’autorità accademica fino agli anni Settanta, fu sostenitore convinto. Venezia, polo culturale (occidentale) e centro di gravitazione nel sistema dell’Adriatico, di certo è stata rivalutata. La relazione tra i Croati e Venezia stessa, come città, è stata studiata di recente da una giovane ricercatrice, Lovorka Coralic, prima attraverso una messe di saggi e articoli, poi in una monografia che è uscita nel 2001, dal titolo Ugradu Svetog Marka. Povijest hrvatske zajedinice u Mlecima (Nella città di s. Marco. Storia della comunità croata a Venezia), accompagnata da un altro volume, sempre del 2001, prevalentemente di fonti, dal titolo Hrvati u procesima mletacke inkvizicije (I Croati nei processi dell’inquisizione veneziana). (1) Un contributo corposo nell’insieme, che ha avuto una risonanza non solo storiografica in ambito croato e che si pone come punto di partenza per ulteriori indagini. Vediamo di che cosa si tratta.
I . Anzitutto il volume sulla storia della comunità croata a Venezia. Dopo aver illustrato la serie di fonti consultate presso l’Archivio di Stato di Venezia (tutti i maggiori fondi) e presso la Scuola dalmata di S.Giorgio e Trifone di Venezia, nonché il materiale bibliografico (capitolo primo), la Coralic delinea, nel secondo capitolo, le direttrici dell’emigrazione croata tra il XV ed il XVIII secolo. Ci vuole però la premessa degli avvenimenti. Nel 1409-1418, Venezia “strappa” quasi tutta la costa dalmata alla sovranità croata; nella parte continentale del regno ungaro-croato viene invece fermata l’avanzata ottomana nel corso del Quattrocento, una resistenza che inizia a cedere – dopo la battaglia della Krbava, del 1493, durante la quale perisce buona parte della nobiltà croata. Inizia l’esodo dei Croati delle aree a sud del monte Gvozd (l’entroterra adriatico), mentre con la contemporanea perdita della Lika (regione a oriente del Velebit) la continuità territoriale del regno viene recisa. Gli antichi territori del regno croato situati a ridosso della striscia delle città-comuni dalmati, ormai isolati, durante i primi tre decenni del Cinquecento sono conquistati dai Turchi: cadono le fortezze di Knin e Scadorna (Skradin), resiste Clissa (Klis), ma fino al 1537. Da allora, la costa adriatica a sud del Velebit è divisa tra impero ottomano e repubblica di Venezia, con l’eccezione della repubblica di Ragusa. Nella parte continentale, la Slavonia diventava ottomana entro la metà del Cinquecento, mentre con la caduta di Bihac, nel 1592, crollò l’argine che proteggeva Zagabria; grazie alla vittoria presso Sisak, l’anno seguente, il peggio fu scongiurato, i Turchi si fermarono, ma la Croazia rimase un regno «di resti dei resti» (reliquie reliquiarim). I territori croati, come si sostiene in questo studio, persero tra il XV ed il XVI secolo l'”omogeneità etnica”, con gravi conseguenze per la futura storia nazionale.(2) Le migrazioni, spontanee ed organizzate, furono gli effetti inevitabili della pressione ottomana e la direzione maggiormente battuta fu quella verso settentrione, con sistemazioni definitive tra la Bassa Austria, il Burgenland e i territori slovacchi, ma anche in Ungheria e in Moravia. La direttrice occidentale riguardò l’Istria, la Carniola e la Stiria, come pure il Friuli (l’Autrice nomina una confraternita croata di S.Girolamo a Udine del secondo Quattrocento) e poi soprattutto le coste sulla sponda occidentale dell’Adriatico, dal Veneto alla Puglia. Si nominano presenze croate (tracce antroponimiche e toponimiche) sul Gargano, nel Molise (la comunità più numerosa conservatasi nel tempo), nelle Marche, nelle varie città rivierasche (Ancona, Fano, Pesaro).(3)In tale ventaglio di destinazioni, la presenza croata a Venezia, la capitale dell’Adrìatico, è stata la meno studiata; da qui l’interesse della Coralic.
Eppure i rapporti croato-veneziani erano di antica data. Si ricordano (nel capitolo III) conflitti navali tra Venezia e ì Narentani nel IX secolo, i tributi pagati dalla prima ai secondi, qualche mito (la festa delle Marie), si ricorda la spedizione dì Pietro II Orseolo nell’anno Mille, le guerre per il controllo della sponda dalmata tra l’XI e il XIII secolo, la perdita (1358-1409) e il riacquisto della Dalmazia (con la pace di Zara, del 1358, si attuò, sotto la corona di Lodovico d’Angiò, l’unità territoriale di tutte le terre croate). Le prime testimonianze di schiavoni schiavi a Venezia risalgono almeno all’XI secolo. L’appellativo schiavone, che la Coralic intende (come altri studiosi croati) come corrispettivo di croato, veniva attribuito a chi proveniva dall’Adriatico orientale, ivi compresi i cittadini di Zara; una serie di nomi attestati in vari documenti (vari Sclavus, Sclavo) ci dimostra la continuità della presenza di essi nella città lagunare, un numero che cresce man mano che aumentano le fonti e che diventa ben evidente nel XIV secolo, con schiavoni in quasi tutte le parrocchie cittadine (capitolo IV).(4)
La parte centrale e più importante del libro corrisponde al periodo culmine dell’immigrazione croata a Venezia, cioè i secoli XV-XVIII. La Coralic analizza circa 2.500 atti testamentari nell’arco di questi quattro secoli, in particolare tra il 1400 ed il 1600. Cerca di definire l’intensità immigratoria attraverso i decenni: così, similmente a quanto riscontrato da Brunehilde Imhaus,(5) la punta massima può essere collocata tra la metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, quando la percentuale di immigrati con meno di vent’ anni di residenza fu la più alta. Un secondo picco si colloca tra il Cinque ed il Seicento.(6) Nell’insieme si sottolinea una veloce assimilazione nell’ambiente veneziano, con l’eccezione delle generazioni della “piena” di fine Quattrocento, quando la coscienza delle origini e dell’ethnos croato, come dice l’Autrice, risultava più forte.(7) La comunità croata sarebbe comunque stata contraddistinta, forse più di altre, da un rapido inserimento nella vita economica e sociale di Venezia, un fatto dovuto a molti fattori (stesso Stato, conoscenza linguistica, affinità tra l’urbanità adriatica orientale e quella veneziana), anche se, a dir la verità, il metodo per valutare tale ipotesi di assimilazione non è reso chiaro dalla Coralic. Viene piuttosto da chiedersi se è il caso di parlare di comunità, concetto che presuppone un senso d’appartenenza comunitaria, la condivisione di specifici interessi, valori, di fronte a tanta fluttuazione.
La provenienza degli immigrati croati è trattata nel sesto capitolo.(8) La Coralic parla di «terre, regioni e città croate di allora», cioè dei primi secoli dell’età moderna e che sarebbero: l’Istria veneta, la Dalmazia veneta, l’Albania veneta, la repubblica di Ragusa, la Croazia settentrionale (in sostanza il resto del regno di Croazia), la Bosnia e l’indefinita Schiavonia, che secondo l’Autrice poteva andare dall’entroterra istriano e dalmata fino alla Croazia continentale. In nota aggiunge che nelle fonti si trovano, come sinonimi, pure Morlacchia e Illirico, benché quest’ultimo potesse rappresentare come concetto un territorio più ampio e vago. In sostanza, il criterio adoperato dall’Autrice è quello di riconoscere nell’atto testamentario la provenienza geografica di chi testava, e visto che in nota ci spiega che nella ricerca non sono state incluse le città istriane di Capodistria, Pirano e Isola, perché oggi parte della repubblica di Slovenia, deduciamo che la Coralic intende per territorio storico croato il territorio che corrisponde all’odierno Stato croato con l’aggiunta della Bosnia, delle Bocche di Cattaro e dell’attuale litorale montenegrino (Budua, Antivari). Ecco dunque che i Croati, individuati con tale criterio, provenivano dalle città dalmate nel 45,7% dei casi, dall’Albania veneta, ovvero Bocche di Cattaro, nel 31,4%, dalle città istriane (oggi croate) nell’1,8%; la denominazione Schiavone o de Schiavonia riguardava solo il 6,8% degli immigrati, mentre il 6,7% concerneva quelli provenienti dalla repubblica di Ragusa, il 6,1% quelli dalla Croazia, l’1,5% quelli dalla Bosnia.(9) Che cosa dire? Che quanto meno è discutibile la modalità d’indagine così impostata. Ad ogni modo, è da rilevare che dalla Croazia propriamente detta nel Quattrocento gli immigrati costituivano il 12,9% sul totale dei Croati individuati, mentre nel Cinquecento il 3,3%, nel Seicento lo 0,9%. Viceversa, coloro che provenivano dalla Schiavonia crescono dal 2,9% del Quattrocento al 5,9% del secolo seguente, al 17,9% nel Seicento. Secondo la Coralic, la Schiavonia coincide, in questo caso (del Seicento), con la Croazia regno, la Slavonia e la Bosnia. Insomma l’immigrazione croata a Venezia deriverebbe soprattutto dai domini veneti in Dalmazia (città e isole) e nelle Bocche di Cattaro. Seguendo la provenienza per singoli luoghi i Croati giunsero da Parenzo, Rovigno, Pola, Albona, Montona in Istria (i centri come Capodistria e Pirano sono stati esclusi, come detto, dalla ricerca), poi in maggior parte da Zara, Spalato, Sebenico, Traù, Lesina, Curzola, Brazza, Cherso, quando si parla di Dalmazia, da Cattaro e Antivari (dominio veneto tra il 1443 e il 1571) , quando si tratta di Albania veneta. Folta la schiera di immigrati dai Pastrovichi, nelle Bocche di Cattaro, considerando la grandezza della comunità; un’emigrazione, questa, che compromise, come dice l’Autrice, la presenza cattolica in quella zona. Dai territori del regno di Croazia (propriamente detto) svetta nettamente Segna, seguita da Fiume, Modrussa e quindi da Zagabria (44 testamenti in quattro secoli). La Coralic ci svela che nelle fonti incontriamo segnati come dalmata, dalmatinus, dalmatino coloro che giungevano dalla Dalmazia e istrianus, istriano quelli d’Istria. Considerando le sole città, i Croati provengono in particolare da Cattaro, Zara e Spalato, mentre al quarto posto si situa Antivari, sebbene il dominio veneto li fosse terminato nel 1571.
In base alla forma dei cognomi dei testatori analizzati, la Coralic deduce che nella maggior parte essi erano di origine «slava ovvero croata» (vista la forma patronimica slava) e stende una lista per i singoli centri di provenienza. Tali cognomi resistono all’assimilazione culturale veneziana, tanto che li troviamo per più generazioni; l’appellativo Schiavone poteva invece diventare un cognome. Tra le famiglie nobili immigrate si menzionano i Bisanti, i Bolizza, i Cicogna da Cattaro, i Detrico, gli Erigono, i Matafaris, i de Paulo, i Possidaria (Posedarski) da Zara, gli Alberti, i Tartaglia da Spalato, i Difnico e i Sisgoreo da Sebenico, i Celio e gli Statileo da Traù. Una delle rare famiglie nobili croate che era riuscita ad entrare nel patriziato veneziano furono gli Zaguri originari di Cattaro (Zagurevic, secondo l’Autrice); la Coralic ricorda pure il ramo dei nobili Kosaca, originario dalla Bosnia (e non mette in nota la forma originale, venetizzata del cognome, così è difficile orientarsi nella ricerca di fonti, attenendosi alla sola variante del croato contemporaneo). Il criterio utilizzato anche nel caso delle famiglie nobili è quello dell’essere originari, in passato, da luoghi che oggi fanno parte della Croazia, con qualche sconfinamento (stando alle attuali territorialità statali) sull’odierno litorale montenegrino.
I luoghi dove dimorarono per lo più i Croati a Venezia erano il sestiere di Castello (capitolo VII), con il 43,2% sul totale delle residenze rilevate, di S. Marco, con il 19,9%, e quindi Cannaregio, con il 12,4%, e poi le altre zone. Nel Castello i Croati si stabilizzarono grosso modo tra il 1475 d il 1525 e condivisero il sestiere con le comunità greche, albanesi e armene.(10)
La Coralic, applicando un poco chiaro «coefficiente del benessere»(11), deduce che i più poveri vivevano nelle parrocchie di S. Antonino, di santissima Trinità e di S.Biagio, mentre quelli più facoltosi nelle parrocchie di S.Giovanni in Bragora e S. Giovanni nuovo.(12) I Croati di Dalmazia registravano una prevalente presenza nella parrocchia di S. Pietro di Castello, quelli dell’Albania veneta nella parrocchia di S. Giovanni nuovo. Lo standard di vita (visto il coefficiente del benessere) risulta in crescita nel corso del Cinquecento, in particolare dopo il 1560. La Coralic analizza pure gli Status animarum dell’Archivio storico della curia patriarcale di Venezia, nei quali tuttavia ammette la fatica nel riscontrare l’effettiva distribuzione dei Croati a livello di città. Si concentra quindi sul Castello e cerca di individuare i Croati in base al nome e cognome, visto che sono rare le annotazioni sulla provenienza, incrociando pure i dati dei catastici dei Dieci savi sopra le decime di Rialto (Archivio di Stato, Venezia).(13) Certo, c’è qualche contraddizione, visto che in precedenza si è accennato alla veloce assimilazione, nonostante il mantenimento dei cognomi originali, tanto da chiederci chi erano in fondo questi Croati riscontrati nei rilevamenti del 1661, del 1712 e del 1740. Si deduce, ad ogni modo, che le zone d’abitazione rimasero sempre quelle nella parrocchia di S. Pietro di Castello, che il ceto fu quello dei popolani, piccoli artigiani, e che solo con il 1740 si nota l’emergere di proprietari di case e stabili.
Segue il contributo croato dato alla toponomastica di Venezia.(14) Famosa la Riva degli Schiavoni che poi sarebbe la riva dei Croati, Riva od Horvatov, detta anche la “sponda croata”, Hrvatska obala. Dentro il Castello ci sono la corte Schiavona e la calle Schiavona. Poi c’è la Corte Piero da Lesina, che prende il nome dal (<noto e facoltoso immigrato croato Petar Fazanic (Pietro / Piero Fasanich)». Si tratta di un discendente della famiglia nobile di Lesina (Hvar), i Fazanic, ovvero, nell'originale, Fasaneo. Poi abbiamo altri luoghi, come corte Sabbioncella, che trae nome dal croato Domenico di Sabbioncello (Peljesac), oppure corte Martin Novello; Novello (o Novellus), infatti, si incontra «come nome proprio oppure come cognome degli immigrati croati» in particolare presso quelli originari dall'Albania veneta (ad es. Novellus de Cataro, guardiano dell'Arsenale). Ci sono l'importante fondamenta S. Giorgio degli Schiavoni, presso l'omonima confraternita e chiesa, poi altri esempi, come calle Zaguri, calle delle Schiavine, ramo Dragan, calle Ragusei, e, a Murano, ponte Ballarin; Giorgio Schiavone detto Ballarin, originario da Spalato, grande maestro vetraio e fondatore di una piccola dinastia di artisti del vetro, fu infatti, secondo l'Autrice, un croato.(15)
L'indagine si sposta quindi sulle attività economiche e sulle professioni dei Croati a Venezia, in un ampio arco di tempo, tra il XV ed il XVIII secolo (cap.VIII).(16) Stando sempre ai testamenti, oltre il 50% di essi era dedito all'artigianato e alla marineria (rispettivamente il 32,2% e il 20,7%); seguiva, in numerosità, la servitù, in cui erano impiegate soprattutto donne.(17) Tra gli artigiani, la metà era originaria dalla Dalmazia e il luogo dell'attività era il sestiere Castello. Un primo gruppo riguardava per lo più falegnami, muratori, in genere gli addetti alle attività edili. Un secondo gruppo concerneva le attività tessili, la fabbricazione di scarpe (i vari calegheri), tele, borse, cordame. Nel terzo troviamo i servizi, come barbieri, facchini, oppure gli addetti agli alimentari, i vari frittoleri, pistori, luganegheri. Attorno alle attività marittime c'erano gli squeraioli, i barcaioli, i gestori di traghetti. Un mondo a sé era l'Arsenale, con le maestranze specializzate nelle varie fasi di costruzione delle navi, e ovviamente non mancano nomi con rimandi alla Dalmazia o all'Istria (Alberto Antonio della Brazza, Zuanne Battista de Marco Istrian) oppure cognomi col patronimico slavo (Mariano Nicolò Milanovich, Giovanni Antonio Rachovich). La marineria esprime un'occupazione che va dai proprietari di imbarcazioni e paroni, dai semplici marinari, ai vogatori, ai ruoli d'importanza intermedia come lo scrivano di bordo, il nostromo, il timoniere. I marinari provengono soprattutto dalla Dalmazia e dalle Bocche di Cattaro; anch'essi risiedono, nel 62% dei casi, al Castello, mentre il solito coefficiente del benessere denota, nspetto ai parametri di Venezia, uno standard medio per il 48,6% dei casi, uno basso (miserevole) nel 47,2%, e solo nel 4,2% dei casi uno superiore alla media. Un altro gruppo, assai meno numeroso, è costituito dai mercanti, dagli imprenditori, dai dettaglianti: la maggior parte di essi non aveva una residenza fissa a Venezia e proveniva soprattutto dalle Bocche di Cattaro, da Zara, Sebenico, Spalato, Lesina, e non mancavano certo i ragusei; molti di questi erano specializzati nel commercio del legname, della lana e delle pelli.
Troviamo Croati pure tra i bazarioti, ovvero tra i dettaglianti di indumenti usati, come tra gli strazzaroli oppure i zavateri. Ci sono poi Croati impiegati negli incarichi pubblici, come guardiani di prigioni, oppure come dipendenti dei vari uffici in città. Non ci è data una cifra assoluta, come del resto nemmeno per le altre categorie, quindi è difficile valutare l'eventuale impatto di tale presenza. Ci sono poi i militari. Il problema è che questa categoria meriterebbe uno studio a sé, basta pensare all'esistenza dei Croati a cavallo e di altri corpi armati importantissii per la repubblica. Ben pochi, però, di questi Croati finivano a Venezia, così la Coralic si limita a nominare quelli che erano riusciti ad emergere nella carriera militare, a trovare residenza nella Dominante e a fare un testamento. Si ricorda così Tripun Lukovic (Trifone Lucovich), ammiraglio originario dalle Bocche, oppure i vari discendenti della nobile famiglia Tartaglia di Spalato, che fecero carriera militare e marittima.(18) Assai pochi, nell'insieme. Seguono gli uomini di chiesa. I religiosi rappresentavano il 13,2% del totale dei Croati registrati a Venezia. Non si sa, però, come l'Autrice sia giunta a tale percentuale e nemmeno a quella, in nota, per cui i Croati avrebbero rappresentato il 5% del clero della città.(19) Oltre a ricordarci che c'erano francescani e domenicani nei principali conventi della città con nomi provenienti dalla Dalmazia, si elencano uomini distinti, regolari e secolari, benemeriti scrittori di opere filosofiche e teologiche che avevano contattì con Venezia tra il Quattrocento ed il Settecento. Ci sono pure persone in odore di santità, come Anna Maria Marovich, pittrice, poetessa, musicista e fondatrice dell'Istituto Canal ai Servi per le donne e le ragazze abbandonate, la quale, a dir la verità, era nata veneziana nel 1815, in una famiglia, come si dice, «eminentemente croata, nella cui casa si parlava nella lingua nostrana» tanto che «Ana Marija di certo conosceva e padroneggiava bene la lingua croata».(20)
Note
(1)L. Coralic, Ugradu Svetog Marka. Povijest hrvatske zajednice u Mlecima, Zagreb, Golden marketing, 2001, pp. 522; Id., Hrvati u procesima mletcke inkvizicije, Zagreb, Dom i svijet, 2001 (Hrvatski institut za Povijest, Biblioteka Hrvatska povijesnica), pp 195.
(2).CORÀLIC, Ugradu Svetog Marka… Cit., pp,. 53-54.
(3) lvi, pp. 54-67.
(4) Ivi, pp. 68-80.
(5) B.Imhaus, Le minoranze orientali a Venezia, 1300-1510, Roma, Il Veltro, 1997, pp. 40-41.
(6) Coralic, U gradu Svetog Marka cit., pp. 81-83.
(7) Ivi,p.83
(8) Ivi,pp.84-100
(9) Ivi,pp. 84-85
(10).Ivi,pp.101-107.
(11).Ivi, p.108.
(12).Ivi, pp.108-109.
(13).Ivi, pp.111-114.
(14). Ivi,pp.115-121
(15). Ivi,p.121
(16). Ivi,pp.122-170
(17). Ivi,pp.123-130
(18).Ivi. pp.135-141
(19).Ivi, p.156.
(20).Ivi, p.165
* Egidio Ivetic (Pola, 1965) è ricercatore confermato di Storia moderna. Insegna storia dell'Europa orientale nella Facoltà di Lettere e Filosofia (dal 2001) e presso il Master in Studi Interculturali della stessa Facoltà (dal 1999).
Fonte: «Studi Veneziani», n. s., 46, 2003, pp. 15-30.