Scritto da Sergio Rizzo – Gian Antonio Stella
Si pubblicano in documento unico, distinto in rispettivi paragrafi, quattro articoli del ciclo 1861-2011 Visioni d’Italia, apparsi sul «Corriere della Sera» e dedicati da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella al confine orientale.
1861-2011 VISIONI D’ITALIA. TRIESTE, GORIZIA, ZARA, IL FRIULI
1.) L’ Italia, il mare e la lotta di Trieste contro il declino
«Trieste nella sua non lunga vita ha avuto soltanto due amori: l’ Italia e il mare. Entrambi, dopo un felice avvio, si stanno rivelando sfortunati. La seconda unione con la patria non risulta feconda; il porto, verso il quale la città si protende, è ignorato dalle navi italiane e straniere con una frequenza che ogni giorno si fa più allarmante». Sembra scritto ieri mattina, quell’ articolo di Gianfranco Piazzesi sul Corriere del ‘ 64. Oddio, la previsione più fosca sulle banchine deserte si è rivelata un’ esagerazione. Ma certo, il grande inviato aveva indovinato tutto. Spiegava un paio di giorni fa Silvio Maranzana sul Piccolo che dopo alcuni anni di crescita, quel porto al quale è indissolubilmente legata da quasi tre secoli la vita della città, ha subito l’anno scorso un crollo del 17%. Il più drammatico d’Italia, eccetto Livorno. Tanto per dare l’idea: nello stesso 2009 Venezia ha perso solo l’1,2% e Genova è tornata a crescere. E secondo Armando Costa, presidente dell’ Aiom (Agenzia imprenditoriale operatori marittimi), i primi due mesi del 2010 sono stati «sconfortanti». Colpa della crisi, certo. Ma anche del fatto che l’ Italia, quell’ Italia che tanti triestini hanno disperatamente amato fin dai tempi in cui i «favillatori» sognarono nel ‘ 48 la «Repubblica di San Giusto» e Guglielmo Oberdan sacrificava la sua vita finendo sulla forca («Vogliamo formare una lapide / di pietra garibaldina / a morte l’ austriaca gallina..») si è rivelata anche in questo caso distratta. Un esempio? Il progressivo abbandono da parte delle ferrovie. Ancora nel 1977 c’erano 14 collegamenti internazionali giornalieri che consentivano agli abitanti di sentirsi nel cuore dell’ Europa grazie a treni che portavano a Vienna, Mosca, Varsavia, Istanbul, Atene, Sofia, Belgrado, Zagabria, Lubiana. Ne sono rimasti due.
Non bastasse, per andare a Milano si impiegano quattro ore e un quarto (come 33 anni fa), per andare a Genova sei ore e un quarto: mezz’ ora in più. Direte: meglio prendere l’ aereo. Per Milano non c’è più neanche quello. Abolito. «Quando è venuto Mauro Moretti vantando il progetto «Centostazioni» gli ho detto: “Scusa, ma perché invece di portarci le stazioni non ci porti i treni?” – spiega il sindaco Roberto Dipiazza – Cosa ce ne facciamo di una stazione dove non arrivano e non partono i treni?» E se questo è un problema non solo pratico ma anche psicologico per i cittadini, che già soffrono come «periferici» alla patria, figuratevi per le merci. C’ è poi da stupirsi se qualcuno sospira ricordando il diverso trattamento che riservava alla città l’ impero austroungarico, che stabilì il primo collegamento ferroviario tra Vienna e Trieste nel 1857? Per carità, anche se non mancano i nostalgici di Maria Teresa, l’ amor patrio dei triestini italiani (gli sloveni, ovvio, sono un’ altra faccenda) non è in discussione. Come racconta lo stesso Dipiazza «un’ alzabandiera in piazza dell’ Unità è ancora un avvenimento». Il tradimento di chi si ama, però, è un dolore ancora più cocente. E quello delle infrastrutture intorno al porto (non solo) sta diventando per la città un problema sempre più serio. Perché Vienna decise di puntare su Trieste lo spiegò un giorno Karl Marx. Lui? Lui. In due articoli sul New York Tribune del 1857. «Da una piccola rada rocciosa, abitata da pochi pescatori, nel 1814, quando le forze francesi sgombrarono l’Italia, Trieste si era fatta porto commerciale, con 23.000 abitanti e il suo commercio superava tre volte quello di Venezia. Nel 1835, un anno prima che il Lloyd austriaco nascesse, contava già 50.000 abitanti e, poco dopo, occupava il secondo posto dopo l’ Inghilterra, nel commercio con la Turchia, il primo nel commercio con l’ Egitto. Perché Trieste e non Venezia? Venezia era la città delle memorie; Trieste aveva, al pari degli Stati Uniti, il vantaggio di non possedere un passato. Popolata di commercianti e speculatori italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni, ebrei in variopinta miscela, non piegava sotto le tradizioni». In più, continuava l’ autore del Capitale, il porto di Venezia era «ottimo per le vecchie galee» ma «mancava di profondità per i moderni navigli». Un secolo e mezzo dopo, la diagnosi è ancora buona. Anzi, in un mondo in cui il 95% del commercio estero avviene con i container trasportati da navi sempre più gigantesche, i fondali giuliani potrebbero garantire a Trieste un futuro che Genova e gli altri porti italiani non possono sognarsi. Eppure, i confronti sono impietosi. Dicono le statistiche del centro studi del porto di Amburgo che Trieste, con i suoi 335.943 «Teu» (un container da 20 piedi) movimentati nel 2008 (e scesi molto nel 2009), pesa non solo cinque volte meno di Genova e 32 volte meno di Rotterdam ma anche dieci volte e mezzo meno di Valencia. Il che, per un porto che era il più grande dell’ Adriatico, il decimo dell’ Europa, il terzo del mondo per il traffico dei caffè, è umiliante.
Più ancora, però, secca a molti triestini il nome che nella classifica è immediatamente davanti: Capodistria. Spiegava mezzo secolo fa Piazzesi: «Nel 1954 il movimento di transito attraverso i porti dell’ alto Adriatico era così ripartito: il 94,7% per Trieste, il 5,3 per Fiume. Nel 1963 la situazione si è capovolta: il 67% per Fiume, il 33 per Trieste”. E proseguiva: «Molti sostengono che la concorrenza jugoslava è imbattibile. Il regime di Tito paga meno gli operai, li fa lavorare di più e soprattutto non li fa scioperare. Si lamenta la forza e la burbanza delle compagnie degli scaricatori portuali triestini…». Oggi, Capodistria garantisce meno tasse (il 23% fisso in tutto) e un costo del lavoro dimezzato. «Un operaio costa 41 mila euro qui e 23 mila di là, scaricare un container 90 euro qui e 72 là, l’ ancoraggio 15 mila euro qui e 4.500 là, un rimorchiatore 16mila euro qui e 6 mila là», sospira Pier Luigi Maneschi, presidente di Italia Marittima, la compagnia di navigazione che una volta si chiamava Lloyd Triestino e oggi appartiene alla multinazionale di Taiwan Evergreen. Per fregare agli italiani il traffico di banane, gli sloveni hanno offerto ai grandi gruppi internazionali la franchigia nei Magazzini frigoriferi: dieci giorni di sosta gratuita della merce. Un’ offerta, dicono gli italiani, assolutamente insostenibile per qualsiasi terminalista non sovvenzionato. Concorrenza sleale, accusano. Tanto più da quando la Slovenia è entrata in Europa. Non bastasse, si è sfogato più volte Maneschi, «le tariffe di Trenitalia sono del 30% più alte di quelle slovene e del 20 più alte di quelle dell’ Europa del Nord». La verità, sostiene Dusan Udovic, il direttore del Primorski Dnevnik, il giornale della minoranza slovena, «è che per sfruttare tutte le enormi potenzialità del Golfo i porti di Trieste e di Capodistria dovrebbero lavorare insieme. Fare sistema». Una tesi cara a molti, primo fra tutti, forse, l’ ex sindaco e ex governatore Riccardo Illy. Il guaio, almeno per certi versi, è che oggi Trieste a differenza di quando scriveva Marx, un passato ce l’ ha. E così gonfio di rancori da impedire a molti di esaminare il panorama con la lucidità necessaria. Come se buttasse ancora sangue il ricordo del tenente Bozo Mandac che scendeva verso le Rive in piedi su una camionetta davanti alla colonna di carri titini decisi a ad annettere la città alla Jugoslavia comunista. Una piccola ma significativa conferma delle difficoltà a superare certe fratture del passato è arrivata poche settimane fa.
Quando lo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor, 96 anni, autore di «Necropoli» e vincitore nel 2008 del premio Viareggio, dopo un tira-e-molla ha rifiutato la massima onorificenza comunale: «Io ho sofferto molto, sono stato rinchiuso nei lager di Hitler ma in precedenza ho patito anche le violenze del Ventennio. In tutta la mia gioventù non ho avuto una scuola. Mi è stata tolta dal fascismo. Niente lingua slovena, solo italiana. Se il Comune non può inserire la parola fascismo nelle motivazioni del premio, non me lo dia. Non piangerò per questo». Roberto Dipiazza c’ è rimasto male. Ma non ha mollato. Un pezzo di città non glielo avrebbe perdonato, di dar ragione «al vecio sciavo». Anche se lui, il sindaco, si vanta di essere stato il primo a celebrare sia i martiri delle foibe sia quelli della risiera di San Sabba. Quanto al porto, dice di non essere troppo preoccupato della concorrenza slovena: «Ghe gavemo lassà solo el carbòn». Magari, dicono i numeri. Il punto è che ci vuole un investimento forte. Un progetto c’ è. Da un miliardo e mezzo, appoggiato da Unicredit. Che dovrebbe rilanciare lo scalo triestino e sarebbe la traduzione del Piano regolatore generale del porto. Che ha avuto il via di chiunque altro abbia voce in capitolo a livello locale. Ma non ancora quello del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Il quale va per le lunghe. Un problema, tanto più che gli sloveni fan tutto più in fretta. Anche sotto il naso dei triestini. Com’ è successo nel caso di due gru gigantesche montate da «Luka Koper», l’autorità che gestisce il porto sloveno e non aveva lo spazio giusto a Capodistria, sui moli presi in affitto al Porto vecchio. Costruite a Trieste, per fare concorrenza a Trieste. Come mai tanta lentezza mentre gli altri corrono? E’ quello che Claudio Boniciolli, il presidente dell’ Autority portuale, si è chiesto in un’ intervista al direttore del Piccolo Paolo Possamai: «Non sono un appassionato del genere complottistico. Ma è davvero singolare il silenzio assordante con cui la classe dirigente triestina e regionale, salvo casi rari come il sindaco Dipiazza, il sottosegretario Roberto Menia e la presidente della provincia Maria Teresa Bassa Poropat, assiste al rinvio sine die, da parte del governo, di ogni iniziativa». Dice che aveva proposto di partire comunque con i lavori. Proposta respinta: «Rallentare, sopire, procrastinare». E ha buttato lì maliziosamente l’ ipotesi di una «cupola»: «Mi chiedo se c’ è chi vuole attendere di avere in mano l’ Autorità portuale e con essa una stazione appaltante molto ricca di lavori. Magari l’ attuale Autorità portuale sarebbe troppo rigorosa e trasparente».
Attenzione, ha scritto Possamai: «Trieste dovrebbe forse interrogarsi con maggiore profondità sul rischio di perdere per strada pezzi fondamentali della sua storia, della sua cultura, della sua economia che si chiamano Generali e Allianz (ovvero Lloyd Adriatico e Ras fuse assieme). Non è affatto scontato che l’ una e l’altra possano mantenere qui la loro base operativa, e lo hanno detto a chiare lettere i loro top manager, se la città non sarà competitiva: che vuol dire in primis raggiungibile per aereo, treno, autostrada. Pare di invocare categorie dell’ ovvio, purtroppo non è così dato che ci contentiamo da mesi o da anni delle promesse del ministro di turno per il ripristino del volo Trieste-Linate, ma nel frattempo a Roma le Fs tagliano tutti i treni non locali in transito sui binari friul-giuliani. Niente treni diretti per Milano, Roma, Vienna. Ma chi può fare impresa in queste condizioni?». Ovvio: nessuno. O almeno è molto difficile. Prova ne sia che la città, che un secolo fa nel 1913 contava 1.099 «esercizi industriali», è ridotta ormai ad avere un’ industria che pesa solo per il 12%. Certo, la celebre Grandi Motori che oggi si chiama Wärtsilä Italia, ha risolto finalmente, grazie a una bretella, i problemi che aveva qualche anno fa quando doveva smontare i motori più grandi perché i camion potessero superare un ponte e arrivare all’ autostrada. E quel che resta del sistema industriale giuliano, ammaccato dalla crisi, in qualche modo regge. Nuove imprese, però, zero. Colpa dell’ accordo di programma sulle bonifiche. «Quattro aziende volevano insediarsi e non abbiamo potuto accoglierle e dieci vorrebbero espandersi e non lo possono fare. Un dolore», si è sfogato il presidente dell’ Ente zona industriale di Trieste Mauro Azzarita. Troppi soldi da investire. E così, mentre la città invecchia e si guadagna nelle classifiche del Sole 24 ore (titolo: «Trieste è colta, sportiva e ama la tavola») la palma di città più vivibile d’ Italia ma anche l’ appunto di un basso indice di imprenditorialità, cresce ancora di più il peso del comparto pubblico. Scriveva Piazzesi: «Trieste era una città di navigatori, di armatori, di commercianti; oggi è una città di statali. 23.000 pubblici dipendenti su meno di 100.000 persone occupate». Eredità di un passato non di clientela ma di dolore.
La sproporzione, che regge anche adesso se è vero che Trieste è seconda dopo Roma per quota di dipendenti pubblici, deriva dalla tragedia dell’ esodo. E dalla scelta, generosa, dell’ Italia (che molto aveva da farsi perdonare) di sistemare migliaia di esuli dall’ Istria, dal Quarnero, dalla Dalmazia. Gente che già lavorava per lo Stato prima ed era stata buttata fuori dalle terre occupate dai titini. O gente che aveva perso tutto e doveva essere aiutata. Certo è che, mezzo secolo dopo, i triestini che ricevono ancora una busta paga pubblica sarebbero circa un quarto degli occupati. Gioca strani scherzi, la storia. Al punto che Trieste, che dopo essere stata amputata del suo retroterra soffrì per anni del suo essere schiacciata contro la cortina di ferro, si trova oggi per certi aspetti, alle prese com’ è con la concorrenza al di là del confine di una realtà più giovane, più fresca, più competitiva, quasi a rimpiangere qualcosa dei tempi andati. Lo racconta proprio Roberto Dipiazza, che prima di buttarsi in politica come sindaco di Muggia e poi di Trieste, aveva fatto i soldi coi supermercati. Gli avversari dicono che è un po’ sbruffone, i suoi lo adorano. Berlusconiano ironico fino al sacrilegio («Mi, le mule, me le pago da solo», ammicca) ha vietato l’ accattonaggio e il commercio abusivo, messo fuori legge i lavavetri ai semafori per «intralcio e pericolo alla circolazione pedonale e veicolare», fissato una multa di 500 euro per chi fa pipì o getta un chewing-gum per la strada, stabilito sanzioni astronomiche (fino a 7 mila euro!) per chi imbratta i muri con lo spray. Inutile dire che i leghisti lo adorano come fosse uno dei loro. Anche se gli ha svuotato il bacino elettorale. Che anni, gli anni del confine e delle orde di jugoslavi che arrivavano per comprare! «Non riuscivo neanche a contare i soldi – giura Dipiazza -. Li buttavo dentro i sacchi della spazzatura, quelli neri, e li portavo direttamente in banca per contarli lì, mentre li versavo. Dollari canadesi, marchi, dollari americani… Ordinavi un container di jeans, li mettevi sui banconi la mattina, alla sera non ne avevi più neanche uno. Nelle gioiellerie arrivava gente che chiedeva: “mi dia 20 fedi, 40 ciondoli, 200 catenine”. Io nel mio supermercato vendevo un bilico di caffè la settimana. Un bilico! E a container vendevo anche il whisky Ballantine». Un delirio. Al punto che, dice il sindaco, «qui non volevano fare le autostrade perché temevano che i clienti, ciapa su, andassero a far la spesa nei supermercati friulani o veneti». Miopia. La stessa che, secondo le opposizioni, spingerebbe il gruppo di potere che ruota intorno al «dominus invisibile» della politica locale, l’ ex Melone, ex craxiano e infine berlusconiano Giulio Camber, «a gestire il declino piuttosto che rischiare di affrontare l’ avventura di una città che rinasce». Chi prenderà il posto di Dipiazza, il quale dovrebbe finire proprio al porto, non si sa. A lui, costretto dalla legge dei due mandati a non ricandidarsi, un po’ dispiace mollare: «Ormai non faccio neanche più la campagna elettorale – gigioneggia -. “Invece di fare comizi e manifesti, vado a lavorare nel mio supermercato. Scarico cassette, sistemo le zucchine, sposto detersivi… Alla gente fa più effetto che vedermi vestito da donna. Ostrega, el sindaco che lavora! E mi nello stesso tempo me ciapo un franco e me ciapo un voto». Il sindaco Dipiazza è una star locale: «Comizi io? Ma io vado a lavorare» Trieste, nel commercio, ha superato Venezia perché Trieste ha il vantaggio di non possedere un passato: popolata di commercianti e speculatori italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni, ebrei, non piegava sotto le tradizioni. Karl Marx, 1857
Fonte: «Corriere della Sera», 03/04/10.
2.) La città dove il confine è nella testa della gente
I sepolcri di Bossi Alessandro del 34º fanteria, Bossi Antonio del 225º, Bossi Carlo del 49º e Bossi Gualtiero del 13º bersaglieri sono in ordine. Niente crepe. L’ Umberto, qualora fosse in pena per quei suoi omonimi morti per l’ Italia e sepolti a Redipuglia, stia sereno. Dopo la denuncia su il Piccolo della scoperta che una parte del grandioso sacrario si stava sgretolando e che tra le lastre si erano aperte feritoie attraverso le quali si vedevano le costole e una tibia di Luigi Fiori, la scatola cranica di Luigi Campurra, il teschio di Antonio dal Bò, una mano pietosa ha già passato sulle fessure una cazzuola col cemento. Per un restauro più serio, si vedrà… Altri soldi, oggi, non ce n’ erano. Neppure per tenere in ordine quello che dal 1938 è il più imponente monumento funebre dedicato dal paese a quanti persero la vita in nome suo. Ma è tutta l’ area a essere esposta a una malinconica decadenza. A partire dal suo capoluogo. Scriveva mezzo secolo fa in Italia sotto inchiesta Gianfranco Piazzesi che Gorizia subisce «il flusso e il riflusso della marea del sentimento nazionale». Niente vie di mezzo: «è il suo destino passare da uno stato convulso al letargo, di essere o troppo al centro o troppo ai margini, o troppo “dentro” o troppo “fuori”, senza mai diventare una città come le altre: né “sacra” ma nemmeno negletta, né ricca né depressa, solo una cittadina di provincia, con i suoi 40.000 abitanti intenti, come Dio comanda, ad aumentare di numero e in benessere». Di numero mica tanto: quella che fu capitale della grande contea di Gorizia che nel momento della sua massima espansione comprendeva quasi tutto il Friuli orientale, una parte dell’ Istria e del Tirolo e pezzi della Carinzia e della Stiria e poi la sede dell’ Arcidiocesi «erede» della potenza di Aquileia estesa da Cortina d’ Ampezzo fino ai confini con l’ Ungheria, ha oggi 35.000 abitanti.
E dopo essere stata sorpassata, sia pure grazie agli immigrati, da Monfalcone, sta ormai per essere raggiunta dalla «cugina» slava, Nova Gorica nata nel 1947 sui terreni paludosi della periferia. Quanto al benessere, la caduta dei confini che la schiacciavano contro l’ Est comunista ha paradossalmente aggravato la sua marginalità. E acuito la sua crisi. Era una volta, scrive Piazzesi, la «città più meridionale dell’ impero asburgico». La Taormina dei viennesi. Poi diventò, in seguito alle undici sanguinosissime battaglie dell’ Isonzo, «l’ estremo confine settentrionale di un paese che si estendeva per mille chilometri più a sud. Il suo clima divenne di colpo rigido ingrato, le sue verdure e le sue ciliegie ora maturavano in ritardo». Per diventare infine il simbolo stesso, con quella enorme Stella Rossa sul tetto della vecchia stazione ferroviaria rimasta al di là della frontiera, in Jugoslavia, del confine tra oriente e occidente. Certo, è cambiato tutto. Quella Stella Rossa incombente è oggi esposta nel piccolo ma interessante museo allestito dentro la stazione insieme con i «prepustnica» (i lasciapassare), le divise dei «graniciari» (le guardie che sorvegliavano il confine cittadino pronti a sparare su chi non si fermava all’ alt), le foto ingiallite dei soldati inglesi con in mano i secchi di calce il giorno in cui, nel 1947, tracciarono i confini tra il centro di Gorizia la sua periferia orientale, tra l’ Italia e la Jugoslavia, tra l’ Occidente e il comunismo, con criteri che nessuno ha mai capito. Men che meno quel contadino di una celeberrima immagine che vide la Cortina di ferro attraversargli l’ aia tra la casa e la stalla, proprio sotto la pancia di una vacca ignara di geopolitica almeno quanto le autorità alleate. La testa della buonanima che nel cimitero di Merna si ritrovò sepolta in terra italiana e separata dal busto, dalle braccia dalle gambe sepolti in terra titina, si è da tempo ricongiunta (anche geopoliticamente) col resto del corpo. E non ci sono più i poliziotti armati a sorvegliare i fedeli goriziani che ad ogni appuntamento annuale avevano continuato a salire anche negli anni comunisti lungo il percorso dell’ antica via Crucis che dalla bellissima via della Cappella (territorio italiano) si inerpica su su fino al monastero francescano della Castagnavizza (territorio sloveno) dove sono sepolti i resti degli ultimi Borboni di Francia. E viene raccontata ormai come una curiosità la storia di quel goriziano che ha la casa sotto la sovranità di Roma e l’ accesso al garage sotto la sovranità di Lubiana. Quel confine che segò brutalmente i poderi della famiglia Zoff e separò improvvisamente fidanzati da fidanzate e spinse per decenni le famiglie divise a incontrarsi sul piazzale segato in due della stazione dove le mamme mostravano orgogliose il figlioletto appena nato ai nonni o ai cugini rimasti dall’ altra parte, è rimasto però, sventuratamente, dentro la testa della gente.
Troppi traumi. Troppi dolori. Troppo odio. Non solo da parte italiana, se è vero che ancora una manciata di anni fa, con la Slovenia ormai in Europa, certi nostalgici ricostruirono sul monte Sabotino che domina la città quella scritta enorme fatta di pietre gigantesche che tuonava «Nas Tito». Nostro Tito. Al che anonimi patrioti italiani, sul versante nostrano dello stesso Sabotino, rinfrescarono «W l’ Italia». Tanti anni di rapporti difficili hanno lasciato strascichi difficili da accantonare. Soprattutto dopo gli strazi delle foibe. Fatto sta che solo poche settimane fa, grazie anche al nuovo clima avviato col Gect (Gruppo europeo di cooperazione territoriale) le autorità di Gorizia e di Nova Gorica sembrano essersi rese conto che occorre superare una cosa da sempre sotto gli occhi di tutti: non ci sono a Gorizia cartelli stradali che indichino Nova Gorica, non ci sono cartelli stradali a Nova Gorica che indichino Gorizia. È vero che sono rimaste le indicazioni internazionali: di qua «Italia», di là «Slovenia». Il riconoscimento reciproco dell’ una e dell’ altro pezzo di un centro urbano che nelle foto aeree appare unico, però, non c’ è mai stato. Ulteriore conferma di come italiani e sloveni abbiano cominciato da poco a porsi davvero il problema di ricomporre una frattura un tempo quasi inesistente. La Gorizia millenaria, è vero, ha sempre avuto una cultura e una lingua a maggioranza italiane. Lo spiegava nel 1848, al di là dei censimenti che riconoscevano come italiani larghissima parte degli abitanti, il grande linguista Graziadio Isaia Ascoli, uno dei tanti ebrei protagonisti della nostra stagione risorgimentale: «Questo popolo è attaccatissimo per suolo all’ Italia, se anche dalla Slavia non lungi, ed è, ciocché tronca in un paese di confine la questione, di lingua italiano, di costumanze in grandissima parte italiano, e dunque indubitabilmente italiano per nazione». Lo ribadiva l’ intellettuale Giovanni Raismondo: «Si faccia e si scriva ciò che vuolsi, ma Gorizia è città italiana. Italiano il suolo, italiano il cielo, italiani gli usi ed italiana lingua». Lo riconoscevano implicitamente, del resto, anche quanti canticchiavano a metà ‘ 800 alcune celebri strofette filo-asburgiche: «Italiana la nostra favella / ma coi slavi e germani viviamo / siamo fratelli, per l’ Austria giuriamo / di far grande la nostra città». Ciò non toglie, tuttavia, che il contado era in larga maggioranza slavo. E che di cognome slavo furono alcuni dei cittadini goriziani più illustri. Come Edi e Pepi Rusjan, pionieri del volo. O il filosofo Carlo Michelstaedter. O altri ancora il cui ricordo è ignorato dai nazionalisti italiani con la stessa ottusità che spingeva i nazionalisti slavi a croatizzare Marko Polo o a descrivere nei depliant i Leoni di San Marco di Spalato come «leoni post-illirici». Una frattura non ancora ricomposta. Anzi.
Intendiamoci: i rapporti tra i sindaci di Gorizia Ettore Romoli e di Nova Gorica Mirko Brulc, giurano, sono ottimi. Anche se l’ italiano è un berlusconiano e lo sloveno un socialdemocratico si affannano entrambi a dichiarare in ogni occasione la volontà di collaborare. Del resto, direbbe se sbarcasse qui il famoso marziano di Ennio Flaiano, che senso c’ è in una città sdoppiata di 35 e 33 mila abitanti che per un millennio è stata unita ad avere due ospedali e due università e due stazioni ferroviarie e così via? Dietro la facciata, però… Di là, dalla parte degli sloveni, resiste la voglia di dimostrare che possono farcela benissimo da soli senza il vecchio capoluogo. Anzi, che sono loro a rappresentare oggi la modernità. Ed ecco il grattacielo in costruzione che svetterà più alto di ogni cosa e metterà in secondo piano gli orrendi edifici del comunismo balcanico. L’ Ateneo pieno di docenti stranieri. Una gioventù poliglotta. Le piste ciclabili. I grandi ospiti internazionali che animano le serate speciali dei casinò, che ormai sono una dozzina. La banda larga ovunque con l’ accesso free perfino per i ricoverati all’ ospedale di San Pietro, dove per primi hanno avuto l’ Emodinamica che i «cugini» di qua aspettavano da tanto. E perfino il primo ipermercato, che ha un nome bruttissimo («Qlandia») ma ha spazzato via una volta per tutte il ricordo della domenica delle scope. Quella che nel 1950 vide gli sloveni, a causa della notizia falsa di un’ apertura provvisoria delle frontiere, premere alla barriera della Casa Rossa fino a travolgere i poliziotti e irrompere nei negozi del capoluogo, dove facevano le spese da secoli, per comperare di tutto. A partire dalle scope di saggina. Ma come: anche le spese adesso si fanno di là? E lo stupore dei goriziani, che negli ultimi anni si sono visti togliere la «zona franca» che consentiva loro di comprare anche il burro a prezzo più basso e hanno visto andarsene migliaia di militari che negli anni della guerra fredda occupavano la più alta concentrazione italiana di caserme e con i militari andarsene un pezzo dell’ economia e chiudere tante pizzerie e chiudere tanti cinema, è gonfio di amarezza e di una sottile paura. La millenaria Gorizia italiana «è una città meravigliosa e sfortunata dove il confine è cambiato sette volte in nemmeno un secolo», scrive nel suo bel libro «Niente da dichiarare» Roberto Covaz. Una città che «si ostina a considerarsi un aristocratico al quale certi riguardi sono dovuti in onore di un trapassato remoto che nessuno sa più coniugare, senza accorgersi che attorno il mondo cambia, corre, si adatta. Gorizia indossa un doppiopetto di taglio elegante ma ormai liso, per nascondere una camicia di seta con tanti rammendi che ha perso ormai l’originale fattura.
Un signore severo che osserva scandalizzato la sbarazzina Nova Gorica, la voglia di modernità dei giovani sloveni che parlano tre lingue, il fiorire di iniziative, di centri commerciali, di cultura hi-tech, di punti Internet gratis, di servizi efficienti». E cresce, insieme con i rimpianti per ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato, la delusione verso Roma. Troppo contraddittoria verso questa città che proprio come scriveva Piazzesi o è così sacra da spingere i generali a mandare al massacro i soldati nella prima guerra mondiale coi carabinieri che sparavano a chi arretrava (la conquista di Gorizia, ricorda Edoardo Pittalis, rappresenta nel 1916 «la prima volta dal Risorgimento che l’ esercito italiano infligge da solo in campo aperto una sconfitta secca al potente nemico») o è secondaria. Periferica. Distante. «E’ una decadenza non solo economica ma anche culturale» sospira il professor Silvano Cavazza, docente di storia a Trieste, «E’ decaduta ma continua ad avere un po’ la puzza sotto il naso. Io mi considero un uomo di destra ma per leggere qualcosa di buono prodotto a Gorizia devo ormai rifugiarmi in “Isonzo Soca”, la rivista bilingue dei comunisti…» La crisi, a dispetto dei sogni sul «Corridoio europeo numero 5», morde. Tramontati gli stabilimenti tessili pionieri di una industrializzazione rimasta incompiuta (si pensi che in pieno boom l’ occupazione aumentò del 72% nel resto della regione e del 12% qui), ammaccate le poche realtà meccaniche, ormai residuale il meccano tessile… I 13.778 euro di depositi per abitante (tremila sotto la media nazionale) contro i 24.935 di Siena, i 35.032 di Milano o i 37.502 di Trieste dicono tutto. E il dato sarebbe ancora più pesante se non ci fossero Monfalcone e i suoi cantieri, che si vantano di produrre il 70% del Pil provinciale. Di più: la metà della ricchezza provinciale verrebbe dalle navi da crociera della Fincantieri. La quale, rimasta l’ ultima impresa manifatturiera ancora tutta nelle mani del Tesoro attraverso Fintecna, dopo essere sprofondata in una crisi gravissima e avere vivacchiato un paio di decenni con le commesse militari (tipo le le famose navi per Saddam Hussein) o i traghetti superveloci commissionati dalla Tirrenia e rimasti quasi sempre all’ ancora perché costava troppo farli navigare, ha trovato la sua vocazione nelle navi da crociera. Navi immense, delle quali è diventata il primo produttore mondiale, con una quota di mercato del 45%. In una ventina d’ anni l’ azienda ne ha fatte 54: la metà qui. Come per esempio la Grand Princess. Mostri alti come un grattacielo di 24 piani e motori di tale potenza da far fronte al fabbisogno energetico di una città di 70 mila abitanti. Per costruire un bestione simile, che pesa a vuoto come 110 Jumbo 747, serve una quantità di acciaio pari a tre volte quello impiegato per la Torre Eiffel, e 3.800 chilometri di cavi: sette volte la distanza fra Roma e Venezia. Un affarone da 2 miliardi l’ anno. Che dà lavoro solo a Monfalcone a 4.500 persone, fra i 1.800 dipendenti della Fincantieri e il suo indotto costituito da mezzo migliaio di imprese. E che da sempre attira l’ attenzione dei politici come il miele le mosche. L’ ultimo esempio? Quello di Francesco Belsito, un rampante quarantenne che di Fincantieri, per ragioni di tessera politica, ha avuto a gennaio la poltrona di vicepresidente. Fin qui, tutto «normale»: è la lottizzazione, baby. Solo che, un mese dopo, la Lega Nord l’ ha fatto nominare anche sottosegretario alla Semplificazione normativa al posto del defunto Balocchi. La legge (berlusconiana!) sul conflitto di interessi è chiara: i membri del governo non possono «ricoprire cariche o uffici o svolgere altre funzioni comunque denominate ovvero esercitare compiti di gestione in società aventi fini di lucro o in attività di rilievo imprenditoriale». Bene: cinque mesi dopo, non si è ancora dimesso. Aspetta che gli spieghino come la legge va interpretata… Nel frattempo, si è imbullonato alle due poltrone. Deciso a resistere come resistettero i nostri fanti dell’ inferno delle battaglie sull’ Isonzo. Si sa com’ è, i tempi cambiano…
Fonte: «Corriere della Sera», 26/06/10.
3.) Quella città gentile della Dalmazia dove ogni traccia è stata cancellata
«Zajednica Talijana Zadar ». Così c’è scritto sul campanello della Comunità Italiana di Zara. In croato? «Ha fatto tutto il Comune ». Come mai non c’è una targa? «L’avevamo messa. In italiano. Ma qualcuno ce l’ha spaccata la notte stessa dell’inaugurazione », sospira Rina Villani, che guida la nostra comunità. Dice che il Municipio ha subito risarcito i danni. Ma la targa è stata presto rimossa per ordine della Sovrintendenza: disturbava l’armonia del palazzo Fozza. Anche se di plexiglas trasparente? Disturbava. E tutte le insegne dei negozi lungo la stessa Plemica Borelli Uliza? Disturbava. C’è chi dirà: il nazionalismo slavo non c’entra. Non sta forse la comunità, a tradurre l’indirizzo, in «via conte Borelli»? Il vecchio professor Gastone Coen, che fu compagno di scuola di Enzo Bettiza a Spalato, sorride amaro: «Il conte Borelli, a dispetto dell’origine bolognese, fu un patriota croato». Di più: il «croato» Borelli è stato omaggiato dal rispetto toponomastico del cognome italiano e l’italiano Alessandro Paravia, grande letterato di schietti sentimenti risorgimentali che chiuse la carriera come docente a Torino e donò la sua immensa biblioteca alla città, è stato croatizzato: «Alesandra Paravije». Questa è Zara, oggi. Ogni traccia del suo passato è stata accuratamente cancellata. Certo, le vetrine di Benetton hanno aperto la strada a un po’ di locali e negozi, soprattutto di moda, dal nome nostrano. Business is business. E i turisti bisogna ben accontentarli. Altri riconoscimenti, però, zero. Scriveva un secolo fa Luigi Federzoni, destinato a diventare presidente del Senato e dell’Accademia d’Italia, che «Venezia non partorì mai, nella sua lunga e copiosa maternità, figliola più somigliante di questa, ne più degna, ne più devota. Zara è adorabile. Zara dovrebbe essere in cima ai pensieri di tutti gli italiani. Per il labirinto delle calli pittoresche formicola tanta festevole, graziosa e appassionata venezianità».
Non per altro, narra la leggenda, il giorno della caduta della Serenissima, il 12 maggio 1797, nell’ultima seduta del Maggior consiglio, Francesco Pesaro avrebbe urlato al Doge Ludovico Manin: «Tolé su el corno e andè a Zara!» E quando questa dovette deporre le insegne di San Marco, il 6 luglio successivo, racconta Lorenzo Licini, «talmente dalle lacrime rimasero bagnati i vessilli» che pareva «fossero stati immersi nell’acqua ». C’è poi da stupirsi se, come ha ricostruito Oddone Talpo in «Per l’Italia», gli zaratini furono numerosi nelle vicende risorgimentali? Se i rapporti della polizia austriaca erano pieni di simpatizzanti dell’Unità? Se c’erano dalmati tra i garibaldini accorsi in difesa della Repubblica romana, nelle battaglie di Curtatone e di Calatafimi, nella difesa della Repubblica veneta di Daniele Manin? Se uno dei due quotidiani in edicola a metà Ottocento si chiamava «Il Risorgimento »? Certo, nonostante i 54 bombardamenti («Zara fu la Dresda dell’Adriatico», ha scritto Bettiza) compiuti dagli alleati agli sgoccioli della II Guerra mondiale, bombardamenti forse dovuti alle informazioni volutamente false passate agli americani dai partigiani titini interessati ad annientare l’ultimo baluardo cocciutamente italiano della costa dalmata, alcuni dei gioielli che facevano di Zara un sestiere serenissimo con 72 calli e 15 campielli, sono ancora lì. Bellissimi. Come l’elegantissima Loggia veneta nota come loggia Paravia. O il tempio di San Donato. La Chiesa di San Simeone. La Cattedrale di Sant’Anastasia. La porta di Terraferma eretta su disegno di Sammicheli e dominata da un magnifico leone sopravvissuto alle martellate dei nazionalisti slavi. Il campo dei Cinque pozzi. Le mura. Ma nulla porta più traccia del nome che aveva. E in definitiva della sua identità. Come se si fosse compiuto quanto minacciò il presidente del comitato di liberazione della Croazia Vladimiro Nazor, in un lontano comizio del 1944: «L’Italia aveva ingrandito e abbellito Zara non per amore, ma per calcoli politici. Spazzeremo dal nostro terreno le pietre della torre nemica distrutta e le getteremo nel mare profondo dell’oblio. Al posto di Zara distrutta sorgerà una nuova Zadar che sarà la nostra vedetta nell’Adriatico». La Calle Larga, l’antico cardo della Jadera voluta da Cesare Augusto, è stata corretta: Kalelarga. E per trovare nomi italiani devi andare al vecchio cimitero. Del quale si prende cura il Madrinato Dalmatico. Come ha scritto Ottavio Missoni, a lungo sindaco degli zaratini in esilio, «Zara forse esiste ormai solo nel cuore e nel disperato amore dei suoi cittadini dispersi nel mondo ».
Che senso c’è a cancellare un pezzo del proprio passato addomesticandolo su misura? Quante città vorrebbero vantarsi di avere avuto l’impronta di Venezia? Che futuro può avere un paese che «resetta» la memoria fino ad allevare ragazze graziose e gentili quali quelle che accompagnano i turisti nel tour delle Incoronate e non conoscono neppure uno dei nomi che queste isole avevano? Eppure, come dimostra lo storico incontro avvenuto a Trieste tra il presidente italiano Giorgio Napolitano, quello sloveno Danilo Turk e quello croato Ivo Josipovic, qualcosa sta cambiando. E come ha scritto Enzo Bettiza, nato a Spalato da padre italiano e madre slava e cresciuto da una balia serba che gli riempì la testa con «i mirabolanti duelli fra Marko Kraljevic e il Turco dalle tre teste saettanti», potrebbe essere arrivato davvero il «momento di dimenticare un passato fra i più pesanti e spietati lungo le frastagliate frontiere europee». È vero, è difficile dimenticare. Per gli slavi, che dopo averci a lungo amati (vale la pena di leggere «l’Italia agli occhi dei croati», di Zdravka Krpina) furono sottoposti a insopportabili angherie nazionaliste sotto il ventennio mussoliniano. E più ancora per noi. Buttati fuori dall’Istria, dal Quarnero e dalla Dalmazia in 350mila, stando alle cifre di padre Flaminio Rocchi, autore del libro sull’esodo considerato a torto o a ragione dagli esuli una specie di Vangelo. Sottoposti nelle fasi finali del conflitto e nei primi anni del dopoguerra a vendette feroci culminate nell’omicidio di migliaia di persone. Annientati nello stesso diritto di ricordare il peso della cultura e dell’arte veneziane e italiane in luoghi che si chiamavano Cittanova, Albona, Rovigno, Capodistria, Umago…
Gianni Duiella, ottantadue anni, «zaratino da mezzo millennio», se li ricorda bene quegli anni di lacerazione, quando la sua famiglia si spaccò tra quelli che poterono scegliere di abbandonare tutto e andare in Italia e quelli che restarono, come lui: «Furono tantissimi, gli italiani fatti sparire. Senza un processo. Certo, qui non ci sono le foibe e i partigiani comunisti hanno dovuto arrangiarsi. Gli attaccavano una pietra al collo e li buttavano in mare». Come capitò a Nicolò Luxardo, il titolare della celeberrima fabbrica di Maraschino affogato nelle acque dell’isola di Selve con la moglie Bianca. Quanti furono, quei nostri connazionali assassinati a Zara non è chia ro. Duiella pensa a trecento. Coen «forse cinquecento ». Flaminio Rocchi scrive di novecento. Eppure, gli stessi zaratini esuli come Ottavio Missoni, Lucio Toth, Giorgio Varisco, vorrebbero recuperare una volta per tutte un rapporto decente e rispettoso con gli zaratini croati di oggi: «Non possiamo rinfacciarci i rispettivi torti per secoli, non ha senso. Dobbiamo guardare avanti. Per il bene dei nostri nipoti. Per il bene della nostra Zara». Sia chiaro: nulla va cancellato, perché la memoria aiuta a capire gli errori per non ripeterli. Ma, anche se lo stesso Napolitano ha riconosciuto che ci fu «un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica», occorre andare oltre. Anche perché, come ha ricordato Paolo Mieli ricostruendo attraverso il libro di Paolo Simoncelli «Zara. Due e più facce di una medaglia», dedicato ai retroscena della mancata assegnazione della medaglia d’oro al Gonfalone della città per i bombardamenti alleati, i torti non sono tutti da una parte sola. Basti ricordare l’infinito e offensivo tormentone dei risarcimenti agli esuli. Qual è il nocciolo? Che i beni requisiti dai comunisti dopo la conquista del potere da parte del maresciallo Tito, una volta schiantatasi la Repubblica popolare jugoslava, sono stati restituiti ai vecchi proprietari. Ovvio: era dura, per la nuova Slovenia e la nuova Croazia decise a entrare in Europa sventolando principi liberali, tenere i beni nazionalizzati. Gli unici a non aver nulla sono stati i nostri esuli. Scappati clandestinamente (c’è chi remò da Umago a Bibione) o costretti ad andarsene firmando la rinuncia a tutto. Prendiamo la storia della famiglia Luxardo. La loro fabbrica era forse il maggiore stabilimento dalmata. L’arrivo delle truppe di Tito cancellò tutto. I due fratelli maggiori, Pietro e Nicolò Luxardo, come abbiamo detto, furono uccisi. La fabbrica distrutta dai bombardamenti. Sopravvisse solo il Maraschino, un liquore famosissimo fatto con le ciliegie marasche. Ma a Torreglia, in provincia di Padova, dove la famiglia era scappata.
Sgretolata la Jugoslavia, la fabbrica finì nelle mani di un austriaco di origini slave, ma non funzionò. Tanto che si arrivò a distribuire le azioni della «Maraska» ai dipendenti. Racconta Franco Luxardo: «A un certo punto ci arrivò un messaggio in codice. Una specie di invito a riprendere in mano la situazione.Ma era impraticabile. Intanto per la difficoltà di rintracciare tutte le azioni sparpagliate. Poi per problemi oggettivi. Producevamo più noi con trenta dipendenti che loro con 250». «Ricompriamoci l’Istria e la Dalmazia!», incitavano anni fa, dopo lo sgretolamento jugoslavo, alcuni nazionalisti triestini. Le cose, in realtà, sono andate diversamente. Anche per le vecchie ferite rimaste aperte. Fra il 1993 e il 2009 sono arrivati in Croazia investimenti esteri per 21 miliardi 434 milioni di euro. Un mare di soldi: quasi 5 mila euro per ogni cittadino croato. Peccato che quelli italiani siano stati appena il 4,6% del totale: 989 milioni. Una percentuale trascurabile non soltanto rispetto al volume di risorse arrivate dall’Austria (6,1 miliardi, pari al 28,6% del totale), ma anche nei confronti degli investimenti olandesi (3,3 miliardi, il 15,4%), tedeschi (il 12,6%), ungheresi (quasi il 10%), francesi (6,3%) e addirittura lussemburghesi (5,4%). Nei primi tre mesi del 2009, nonostante la congiuntura economica croata sia pessima, le somme investite da italiani sono precipitate all’1,4%. Di più: il 67% dei nostri investimenti è dovuto a quattro acquisizioni bancarie: Unicredit ha comprato la Zagrebacka banka, Intesa San Paolo la Privredna banka, Veneto banca la Gospodarsko kreditna banka e il Banco popolare Verona e Novara la Banca Sonic. Per il resto, briciole. E soprattutto «Zero a Zara». Nell’elenco dei 56 «principali operatori italiani presenti in Croazia » stilato dall’Ice a fine settembre 2009 non ce n’era nemmeno uno con sede nella città dalmata. Gli esuli istriani e dalmati sono stati scottati due volte. La prima quando gli jugoslavi li hanno cacciati. La seconda quando dovevano essere indennizzati dallo Stato italiano: una vicenda allucinante, che va avanti dalla fine degli anni Quaranta senza che i profughi, secondo la stima di Lucio Toth, animatore dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, abbiano avuto neppure il 20% di quanto lasciato a Tito. Cornuti e mazziati. Proprio dalla amatissima Italia. In oltre mezzo secolo, infatti, due accordi internazionali (nel 1954 e nel 1983) hanno stabilito il principio che gli immobili e le aziende di proprietà italiana rimasti «di là» erano il prezzo che il nostro Paese doveva pagare per i danni di guerra. Gli esuli, a loro volta, sarebbero stati rimborsati dallo Stato italiano. L’accordo del 1983 fissava inoltre a carico di Belgrado un conguaglio di 110 milioni di dollari, da pagare in 13 rate a partire dal primo gennaio 1993: a quella data la Jugoslavia non c’era più. Da allora avrebbero dovuto far fronte all’obbligo la Croazia e la Slovenia. E parte di quella somma è stata in effetti depositata, ma non è mai stata utilizzata: le associazioni degli esuli si sono sempre opposte, in mancanza di una soluzione definitiva. Tanto più che quei 110 milioni di dollari, secondo i calcoli, non avrebbero rappresentato che briciole. Come quelle arrivate finora.
L’Italia aveva cominciato a risarcire gli esuli nel ‘49, prima ancora dell’accordo del ‘54. Ma col contagocce. Tranne eccezioni. Come l’indennizzo di 102 miliardi di lire (valuta del 1993) ai pronipoti italiani di un generale austro-ungarico: il principe Alfredo Candidus Ferdinand von Windisch Graetz, protagonista nel 1848 della repressione della rivolta di Vienna. I suoi eredi avevano lasciato nei territori ex-italiani proprietà sterminate: 11 castelli e un’impresa con 3mila dipendenti. E Mariano Hugo, grazie al rimborso, sarebbe diventato il principale azionista privato del Banco di Napoli. Di legge in legge si è arrivati al 2001. Quando la legge stabilì che i risarcimenti sarebbero dovuti avvenire in base ai nuovi coefficienti di rivalutazione variabili secondo il valore nominale attribuibile ai beni nel 1938. Coefficienti, però, ancora ridicoli. Basta dire che i valori fino a 100 mila lire si sarebbero dovuti moltiplicare per 350. E che il parametro sarebbe stato via via ridotto al crescere dell’importo, fermandosi ad appena dieci volte per le somme superiori a 5 milioni di lire del 1938. Un’idea di quanto fosse sballato e ingiusto quel sistema? Secondo le tabelle Istat, una lira del 1938 valeva nel 2001 qualcosa come 1.377 lire. Quattro volte più del coefficiente massimo. Inutile dire che il tormentone delle pratiche ancora aperte, 11.608, non si è mai chiuso. Anche perché da anni le associazioni degli esuli chiedono che vengano applicati parametri più realistici. Per esempio quello per «il ripristino di edifici privati distrutti dagli eventi bellici» stabilito annualmente dal ministero delle Infrastrutture secondo una legge del 1966. Ora il moltiplicatore, riferito in questo caso al 1940, sarebbe superiore a 4.800: oltre due volte e mezzo la rivalutazione monetaria Istat. Il che porterebbe a una stima complessiva di circa 5 miliardi di euro. Impossibile. Senza arrivare a tanto, è stato calcolato che un indennizzo equo non dovrebbe essere comunque inferiore a 2 miliardi di euro. Ma dove trovarli? E’ centrale, la questione di soldi. Anche sotto il profilo culturale. Lo prova l’annosa vicenda del tentativo di fare rinascere a Zara, quel pezzo d’Italia che non è più Italia, un asilo di lingua italiana. Sono anni che il progetto va faticosissimamente avanti. E anni che si impantana quando ormai sembra in dirittura d’arrivo. Zagabria sarebbe favorevole. Anche perché è interesse di tutti costruire una nuova Europa dove finalmente vengano accantonati i rancori. Il comune di Zara, per quanto se ne sa, è un po’ più diffidente. Perché, dopo il grande esodo, i morti sotto le macerie e le decimazioni operate dai partigiani titini, persiste un certo nazionalismo riottoso a riaprire un capitolo chiuso. Perché gli italiani che erano l’85% della popolazione di un tempo si sono via via ridotti ad essere, in una città gonfiatasi da venti a oltre centomila abitanti, una piccola minoranza, pari a mezzo migliaio di persone iscritte alla comunità di cui soltanto un centinaio registrate come di nazionalità italiana. Perché infine anche in Croazia stanno tagliando finanziamenti alle scuole e si sa com’è la politica: come fai a dir di sì agli italiani se già i croati non trovano posto negli asili per i loro bambini? Fatto sta che il calvario di illusioni e delusioni sta stremando la stessa Unione degli italiani. Facendo nascere dolorose spaccature intestine tra gli istriani e i dalmati. I primi, attraverso il presidente Maurizio Tremul, dicono che questo «è un passaggio così importante che occorre partire col piede giusto: questo asilo deve essere pubblico. Certo, il comune di Zara potrebbe dare un contributo, sulla carta, anche a una struttura privata. Lo prevede la legge. Ma domani? Possiamo noi farci carico del rischio che domani, a fronte di pochissimi alunni, il comune non cambi idea? La verità è che i bambini che chiedevano di essere iscritti, alla fine, erano troppo pochi.» Gli zaratini, per bocca di Rina Villani, dicono che no, non si può più aspettare: «Ci sono già cento bambini che seguono i corsi di italiano alle elementari ed è fondamentale incoraggiare questa tendenza aprendo questo benedetto asilo anche a costo di farlo privato, a spese nostre, accettando che il comune paghi solo gli insegnanti. C’erano già i soldi, per comprare il “nostro” asilo. E invece, rinvia rinvia, hanno preferito usarli per fare un ospizio a Pola… ». Sullo sfondo, al di là del sogno dell’asilo, c’è qualcosa di più. E cioè la sofferenza degli italiani zaratini che, nel momento in cui cercano di rialzare la testa, si sentono, come sospira Gaetano Coen, «lontani non solo da Roma ma anche dall’Istria».
Fonte: «Corriere della Sera», 17/07/10.
4.) Quella regione testarda che ha battuto le new town
«Ecumò ce hao di paja?». Così disse la vecchia terremotata, sotto gli occhi di padre David Maria Turoldo. I soccorritori le avevano appena consegnato un paio di coperte e dei viveri e lei voleva sapere: «E adesso cosa devo pagare?». Spiegava il frate poeta che lì c’era il senso di tutto: «Una ricostruzione, per essere vera, perché sia segno di civiltà e abbia un valore, non può essere regalata. Una ricostruzione si paga e basta: allora ha un valore. Una cosa si deve fare con le proprie mani, allora la si ama». Quindi «è bene che non ci sia dato nulla in regalo». Sia chiaro: non è che lo Stato non abbia fatto la sua parte, dopo la doppia randellata che il sisma diede alle colline delle prealpi carniche il 6 maggio e l’11 settembre del 1976 uccidendo 989 persone alla prima conta più tutti quelli morti nelle settimane seguenti negli ospedali. Anzi, per una volta la macchina pubblica, Stato, Regione, Provincia, Comunità collinare e Comuni furono all’altezza della sfida. Al punto che Italo Calvino si sbilanciò a scrivere che «i responsabili politici lavorarono unitariamente mettendo insieme quei tesori di impegno, di finezza, di pazienza e di moralità che occorrono per il successo di una battaglia politica perché questo era l’imperativo categorico dettato dalla loro coscienza». Senza badare, per una volta, alle tessere.
Quali siano i risultati, lo dice una passeggiata nel cuore di Gemona, lo stesso descritto allora da Gianni Rodari, il nostro Hans Christian Andersen, in un reportage per Paese Sera tra le «macerie di una cittadina che fu già bellissima, e ora è soltanto un groviglio pauroso. Il vecchio storico borgo è crollato da 48 ore, ma sembra morto da secoli. Le stradine preziose, i vicoli pittoreschi sono soltanto torrenti di detriti, le case sventrate, schiacciate, frantumate, è già come se non fossero state abbattute da questo terremoto ma da un altro, cento anni fa o da un bombardamento in qualche guerra». Era impressionato, Rodari: «Non si vede più nessuno piangere il secondo giorno dopo il terremoto. La fine di quello che c’era è una cosa accaduta in un tempo già lontano. È cominciata un’altra cosa. Non si sa ancora che cosa sarà». Eccolo qui com’è, oggi, il cuore di Gemona. Il Duomo, il palazzetto gentilizio che ospita la ricca cineteca del Friuli, le stradine, le piazzette… Certo, le foto di allora con quegli ammassi di macerie dicono che quasi nulla è davvero «originale». Insomma, la «purezza » delle pietre antiche non è poi così antica. Se chiedi alle persone se avrebbero preferito buttar via tutto e tirar su una new town, però, ti guardano di traverso.
E così a Venzone, dove puoi vedere forse l’espressione migliore di quella filosofia che dominò la ricostruzione: «dov’era, com’ era». Dov’era e com’era è il possente muro di cinta, dov’era e com’era è la porta di accesso al borgo, dov’erano e com’erano sono i palazzi allineati lungo la strada principale. Ma soprattutto, bellissimo, dov’era e com’era è il Duomo, che era stato inaugurato nel 1338 da Bertrando di Saint-Geniés, patriarca- guerriero di Aquileia e dopo avere barcollato alla prima botta sismica di maggio, era stato annientato dalla seconda di settembre. Architetti, restauratori, ingegneri, storici dell’arte ed esperti vari erano tutti d’accordo: danni troppo gravi, impossibile ricostruire. Meglio fare una chiesa nuova. Qualcuno andò oltre, proponendo di coprire il paese intero con una gran cupola di plastica. Mai, dissero gli abitanti. E quando arrivarono le ruspe, sbarrarono loro la strada. E firmarono in massa (630 su 650 adulti) una petizione: com’era e dov’era. La leggenda, raccolta per Epoca da Gualtiero Strano, narra che a un certo punto il sovrintendente tentò di mettere in riga il prete, Giovan Battista Della Bianca: «Lei stia sul suo altare a dire la messa che a fare gli architetti ci pensiamo noi». E quello: «Se siete inefficienti faremo noi anche gli architetti ». Finì che i cittadini recuperarono tutte le pietre del loro Duomo, le caricarono sui furgoni e le carriole e le sparpagliarono in un grande campo: 7.650 pietre. Numerate una ad una grazie alla perizia fatta dopo la prima scossa.
«Ognuna di queste pietre, quando il Duomo fu edificato, costò una giornata di lavoro a un uomo: 7.650 pietre sono 7.650 giorni», spiegò il pievano, «Venti anni di fatiche, sudori, sofferenze non potevano finire in discarica ». Ci misero anni, i venzonesi, ad averla vinta. Ma ora il Duomo è lì. E chissà che rivederlo non abbia salvato delle vite. Le statistiche degli anni seguiti alla catastrofe, infatti, dicono che lo spaesamento tra i sopravvissuti più fragili fu tale da far impennare i suicidi fino a raddoppiare (11,6 contro 5 ogni centomila abitanti) la media nazionale. Non solo a Gemona, Osoppo o Venzone fu sconfitta la teoria delle new town: «Secondo l’ingegnere autore della prima bozza del piano urbanistico — ricorda l’architetto Luciano Di Sopra, che del «modello Friuli» fu uno dei protagonisti come firmatario del piano di ricostruzione —, il sisma dava l’opportunità di abbandonare le zone danneggiate e trasferire la popolazione lungo l’asse Udine- Pordenone, con una ricostruzione resa più rapida dall’impegno integrale della prefabbricazione edilizia per realizzare nuovi edifici antisismici».
Impugna un libro scritto dopo essersi occupato di varie catastrofi in giro per il mondo compreso inizialmente («ma non facevo parte di nessuna cricca partitica e mi fecero fuori») il sisma in Irpinia. Si intitola Il costo dei terremoti. È pieno di cartine: «È stata una mania sovietica quella di spostare gli abitanti in new town permanenti—ammicca immaginando l’effetto che può fare a Berlusconi —. È il modello Belice. Ecco cosa hanno fatto a Montevago, Salemi, Salaparuta… Per non dire di Gibellina, spostata a una trentina di chilometri di distanza lasciando spazio ad architetti e artisti che avevano in testa modelli di periferie del Nord Europa. Il risultato è lì. Prendete Venzone e Gibellina Nuova. C’è qualcuno che pensa che andasse fatta la scelta siciliana?». Corsi e ricorsi storici. La stessa scelta era stata fatta nell’isola dopo il terremoto che nel 1693 aveva devastato la Valle di Noto, causato almeno 60 mila morti e raso al suolo 25 centri. Fra i quali Occhiolà, feudo del principe di Butera. Il quale decise di spostare il borgo, di chiamarlo Grammichele e di prendere a modello la fortezza di Palmanova. In Friuli.
«Non ripetiamo il Belice», titolò il Corriere il giorno dopo il terremoto ai piedi della Carnia. Eppure non erano solo gli ingegneri «sviluppisti» a essere perplessi sulla possibilità di restituire la vita a quei paesi. «Non posso dimenticare l’incubo che a quattro mesi dal sisma domina in questa città morta», scriveva ai primi di settembre da Gemona il nostro Alfredo Todisco senza immaginare che giorni dopo sarebbe arrivata la seconda batosta, «Restaurare Gemona sarebbe come restaurare Ercolano o Pompei». Ma si sa come sono i furlani: teste dure. Lo sa Vienna che, come spiega il professor Salimbeni nella pagina seguente, ebbe modo di assaggiare di che pasta erano fatti nel 1848, in occasione dell’eroica difesa della fortezza di Osoppo, uno degli episodi purtroppo meno noti del Risorgimento. Lo scrisse mezzo secolo fa, spiegando che i canadesi distinguevano gli italiani «in due grandi categorie: quelli del Friuli e gli altri», Gianfranco Piazzesi. Affascinato, lui, toscano di questo «popolo di emigranti plasmati con sapienza dal parroco: fatti apposta dal buon Dio per rifornire la comunità nazionale di muratori, di carabinieri e di domestiche. Un popolo che risolveva molti problemi e non ne creava nessuno».
Decisero di far le cose a modo loro e le fecero. Senza che ancora esistesse, così come la conosciamo oggi, la Protezione civile. Senza le scorciatoie emergenziali che oggi sono ritenute assolutamente indispensabili. Senza esibizioni muscolari. Senza l’alone mistico di uomini della Provvidenza. Bastò il buon senso e l’efficienza di Giuseppe Zambeletti, il sottosegretario che forse avrebbe potuto dare di più a questo Paese se non lo avessero fatto fuori alla prima occasione. Bastò la saggia decisione andreottiana di delegare il più possibile alla Regione e ai Comuni. Bastò una netta divisione dei compiti settore per settore. Bastò la collaborazione (questa sì una fortuna irripetibile) di quei 57mila militari che in quegli anni in cui c’era ancora la Cortina di ferro erano acquartierati nelle caserme a ridosso della frontiera jugoslava. Determinante, certo, fu lo spirito dei friulani. Basti ricordare quanto disse anni fa l’allora presidente regionale, il dc Antonio Comelli: «Prima pensammo alle fabbriche, al lavoro, alla produzione. Poi alle case. Ricordo ad esempio che l’anno dopo il terremoto prelevammo 300 o 350 miliardi dal fondo per la ricostruzione per l’autostrada Udine-Tarvisio che era arrivata solo fino a Gemona. La gente era ancora nelle baracche. Pensammo: è giusto farlo, ma questa è la volta che ci linciano. E invece la gente capì: occorreva ripartire abbinando ricostruzione e sviluppo». Una scelta difficile, ma compresa: «Molti rinunciarono ai contributi statali. Chi aveva un danno non troppo grave si vergognava un po’ a chiedere soldi che magari servivano da altre parti». Il contrario di quanto sarebbe accaduto pochi anni dopo in Irpinia con l’allargamento dei comuni colpiti: alla prima conta 36, all’ultima 687. A un certo punto il Gazzettino confrontò le due catastrofi. Itinerari opposti: fatti 100 i finanziamenti al momento del disastro, sette anni dopo gli stanziamenti per Gemona o Buja erano ridotti a 38, quelli per Sant’Angelo dei Lombardi o Nusco erano saliti a 132.
Di soldi dallo Stato, comunque, anche in Friuli, ne arrivarono: al 31 dicembre ‘95, quando la ricostruzione poteva ormai considerarsi conclusa, il pallottoliere si fermò a 12.905 miliardi. Nove miliardi di euro d’oggi. Un settimo dei 66 spesi in Campania. Certo, i friulani ci misero forza e cuore. Ma quanto hanno pesato, sui fallimenti in Belice e in Irpinia, le scelte diametralmente diverse della politica, che certo non possono essere superficialmente addebitate alla «pigrizia » dei siciliani e dei campani? Marco Fantoni se lo ricorda come fosse ieri mattina, quel 6 maggio. Tutti i capannoni dello stabilimento di Osoppo in cui produceva mobili e pannelli furono devastati dalla botta: «Sulle prime ci venne da piangere: un disastro. Ma era inutile star lì a lagnarci. Era un giovedì sera. Mentre organizzavamo nel piazzale un centro per le roulotte per ospitare le famiglie dei dipendenti, abbiamo cominciato a consolidare con dei tiranti l’unico capannone rimasto in piedi e a portarci i macchinari che ancora potevano essere riparati. Il lunedì mattina ripartimmo con la produzione. Un mese dopo brindammo al primo mobile della rinascita».
Dice che no, non ha chiarissimo se il terremoto abbia dato un’accelerazione allo sviluppo delle aziende della zona e in particolare della sua: «Va’ a saperlo… Eravamo già ben avviati. Fu una sfida, questo sì: dovevamo mostrare di essere più forti della sfortuna». Certo è che al momento della scossa i dipendenti erano 310 e il fatturato di 6 miliardi di lire. Dieci anni dopo, i primi erano saliti a 510 e il secondo a 49. Un’impennata proseguita (360 milioni di euro nel 2007) fino alla grande crisi internazionale. Fortuna dovuta a una pioggia di aiuti pubblici? «Mica tanto — risponde il figlio Giovanni, già presidente degli industriali friulani —. I contributi a fondo perduto sui danni accertati furono pari al 30% del danno subito per le aziende distrutte e al 20% per quelle danneggiate ». Finanziamenti? «Fino a 12 anni con 3 di preammortamento al tasso del 4%. La Regione, certo, faceva da garante. E questo aiutò. I soldi, però, li abbiamo dovuti restituire». Anni buoni, dopo la botta. Buonissimi. Sospira: «Diciamo che per certi aspetti il terremoto più grave forse forse è quello finanziario di questi tempi». Che ha costretto l’azienda a ricorrere in modo massiccio ai contratti di solidarietà. Un destino comune a buona parte delle imprese friulane.
Dice una recentissima relazione degli uffici regionali che la produzione industriale del Friuli-Venezia Giulia è diminuita del 4,7% nel 2008 e addirittura dell’11% nel 2009. Senza risparmiare praticamente nessuno. A partire dal settore del mobile, che da queste parti è sempre stato una locomotiva. All’inizio del 2009 il calo, secondo Edi Snaidero, si aggirava sul 20-25%. Colpa degli ordinativi dai mercati extracomunitari, diminuiti nel 2009 di quasi il 7%. Letteralmente crollate le esportazioni in Russia: -55,8%. Incassata la mazzata più pesante negli Stati Uniti, la società ha reagito buttandosi sul mercato asiatico e lanciando modelli di cucine low cost con l’obiettivo di conquistare una fetta del mercato presidiato dalla Ikea. Auguri. Nei primi tre mesi del 2010 c’è stata una certa ripresa. E l’aumento tendenziale su base annua della produzione industriale ha toccato punte del 12%. Con una ripresa nei fatturati (precipitati nel 2009 del 13,8%) oltre il 6,2%. Ma dire che la tempesta sia finita non si può. E se un po’ di fiducia sembra essere ritornata, molti imprenditori si leccano ancora le ferite. A fine 2009 il numero delle aziende iscritte alle Camere di commercio della regione era sceso per la prima volta da tanti anni sotto le 100 mila unità. Uno shock: in dodici mesi ne erano sparite 1.629. Con un tasso di mortalità più elevato della media nazionale e la scomparsa nel solo manifatturiero di 289 imprese: dalla siderurgia alla lavorazione dei metalli, dai mobili ai beni di consumo. Con una parallela impennata dei disoccupati: 34.700. Il doppio rispetto a tre anni fa.
Altri, con quei nuvoloni ancora addensati all’orizzonte, la vedrebbero nera. Eppure, dopo essere usciti alla grande dall’apocalisse del 1976, i friulani fanno mostra di ottimismo. Questione di carattere. Quello che colpì anche Riccardo Bacchelli. Un carattere che secondo il grande scrittore sarebbe stato temprato dall’essere sempre vissuti, i friulani, in un’area a cavallo fra il mondo tedesco, quello slavo, quello italiano e in definitiva avendo sempre l’immagine «immanente» di un terremoto, un’invasione, una guerra. Insomma, dall’esser sempre stati «sotto la bocca dei cannoni».
4.I.) Strage a Porzus. Così a est nacque Gladio
Paolo Rastelli
Tra il settembre 1951 e l’aprile del 1952, oltre un secolo dopo l’assedio risorgimentale, il nome «Osoppo» tornò all’attenzione degli italiani. In quel periodo si svolse il processo per il massacro di 20 partigiani cattolici e laico-socialisti inquadrati nella Divisione Osoppo da parte di un gruppo di gappisti comunisti avvenuto il 7 febbraio del 1945 a Porzus, nel Friuli orientale. L’eccidio va inquadrato nella situazione politico-militare dell’epoca: i partigiani jugoslavi, con l’attiva collaborazione delle formazioni comuniste italiane locali, premevano alle nostre frontiere orientali con l’obiettivo di annettere la maggiore quantità di territorio possibile in vista del collasso nazifascista. I partigiani non comunisti, come quelli della Osoppo, erano di ostacolo: il massacro fu giustificato con l’accusa di tradimento, mai provata e quasi sicuramente inventata. Furono uccisi, tra l’altro, uno dei comandanti della Osoppo, Francesco De Gregori (zio del cantautore), e Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo. Corriere della Sera e Corriere d’Informazione «coprirono» il processo con una nutrita serie di pezzi di Amedeo Lasagna. Ma nonostante la collocazione «centrista» del giornale e il clima politico (si era in piena guerra fredda), gli articoli appaiono piuttosto pacati. Sono, è ovvio, molto più vicini alle tesi dell’accusa che della difesa (peraltro abbastanza risibili visto che quasi tutti affermavano di non aver visto e fatto nulla e gettavano la colpa sui comandanti comunisti, opportunamente riparati all’Est), ma non affondano più che tanto. Forse anche nei giornali, come in molti italiani, c’era voglia di oblio e pacificazione. Ma gli uomini della Osoppo non dimenticarono: dalle loro file, nel dopoguerra, vennero non pochi membri di Gladio, l’organizzazione segreta anticomunista.
Fonte: «Corriere della Sera», 04/09/10.
Ultimo aggiornamento ( sabato 04 settembre 2010 )