sabato 27 marzo 2010
I LUOGHI DELLA STORIA.
LA STORIA DELLA CARTOGRAFIA PER LA CARTOGRAFIA DELLA STORIA TERRITORIALE
Luciano Lago*
C’è una particolare sensibilità che viene attribuita, non a torto, agli uomini di frontiera,nel percepire meglio di altri la tragica labilità del confine; pronto a spostarsi, a oscillare su un territorio, dietro contrapposte sollecitazioni, ma a fissarsi inevitabilmente dove gli eserciti hanno portato le armi. Maledetta sensibilità a comprendere come la spada finisca col tracciare il solco, non sempre col difenderlo, e come ogni riferimento ai “confini naturali”, ovvero quelli delle linee geofisiche spartiacque, sia soggetto alle più diverse interpretazioni di ordine culturale, ideologico, nazionale, etnico.
Così, da qualunque parte lo si guardi, il confine finisce con l’accontentare nessuno e , al tempo stesso, col rassicurare tutti. Perché il confine è stato per molto tempo paravento delle debolezze e pretesto per gli sfoghi sciovinistici più violenti: muro e limes, sponda per le avventure imperialistiche e rappresentazione dei limiti della diplomazia. I peggiori guasti del ventesimo secolo violento e drammatico sono stati provocati in Europa dalle eredità lasciate da pessimi confini tracciati col proposito di consegnare una soluzione al tempo. Di qualunque tipo. E di confini si continua a discutere in Europa, anche se i propositi comunitari, come negli auspici di tanti, li vorrebbero smaterializzare. Ma le giovani Nazioni – come oggi testimoniato dalla nuova realtà europea vissuta dalle nuove Repubbliche – sentono il bisogno dei confini, per affermarsi sul piano delle relazioni internazionali e per consolidare la loro immagine interna.
Il confine italiano nord-orientale ha conosciuto non pochi, clamorosi e drammatici sconvolgimenti, in perfetta sintonia con i grandi spostamenti di confine in Europa: a dimostrazione non tanto della sua centralità quanto della debolezza insita nel pensiero che potesse esistere, in una regione complessa per storia e popoli, un confine più giusto o meno penalizzante di un altro. Confine mobilissimo, perché anche frontiera ideologica, nel senso più ampio del significato, su un territorio economicamente complementare, per cui di difficile rappresentazione. Ora però si tratta di comprendere in che modo le oscillazioni confinarie, reali o solo pensate, abbiano finito con l’incidere sulla storia di un territorio. Un ripensamento sui valori concettuali dei confini può trarre sicuramente un ricco materiale di riflessione dall’analisi dell’evoluzione storica delle frontiere, a patto però che non ci si limiti ad una mera registrazione degli spostamenti subiti dalle linee confinarie. Ciò che più conta, infatti, è la capacità di cogliere il significato di quelle trasformazioni alla luce dei rapporti che di volta in volta hanno connesso le comunità umane con degli assetti istituzionali e di potere, da un lato, e con il territorio entro cui essi si sono dispiegati, dall’altro.
E ciò in quanto l’aspetto fisico del confine – concretamente delineabile sul terreno o su una carta – non solo si carica di un valore simbolico che può essere percepito in maniera più o meno acuta da una parte della società, ma rappresenta di per sé la materializzazione di un concetto, di un’idea, che riguarda non solo i limiti territoriali di un aggregato umano, ma – ancor più – i legami con il potere di cui è emanazione. Diversamente dal nuovo clima globalizzante dell’internazionalizzazione, oggi nella nuova Europa appena costituita e celebrata come espressione del nuovo clima politico di distensione e di superamento degli antichi antagonismi si dovrebbe poter parlare di confini d’Italia con serenità ed obiettività, senza indulgere a quella deleteria concezione mitologica e sacrale che dei confini statali ci ha lasciato la storia e che è stata la fonte di tante guerre. In realtà il confine è un fatto meramente artificiale concepito dall’uomo e non dalla natura e perciò soggetto a mutare non solo il suo tracciato, ma anche il suo valore. E’ perciò un aspetto geografico dinamico, in continua evoluzione spaziale e di conseguenza funzionale nella vita di relazione tra Stati e popoli contigui. Ed è nei suoi aspetti evolutivi che esso va osservato, poiché ha profondamente influito sullo sviluppo dell’insediamento umano e delle attività economiche lasciando evidenti tracce nella diverse realtà territoriali. E’ quanto qui si è voluto tentare con questa ricerca, espressione per ora, nonostante l’imponente mole, fortemente esemplificativa, sintetica e dimostrativa, che vuole proporre al grande problema della frontiera uno strumento di studio autentico perché “rappresentato”, come nodo centrale di conoscenza e di riflessione, con l’augurio che l’analisi di questi documenti di archivio e l’elaborazione della cartografia di sintesi possa servire a ripercorrere la storia di questa parte di Europa qui raffigurata nella sua progressiva partecipazione al comune avvenire europeo.
La prospettiva della assenza di frontiere, o piuttosto la loro scomparsa programmata, fa comprendere comunque la necessità di dare dei limiti ai territori, cioè di tracciare dei confini che abbiano significati particolari e specifici, come dimostrano anche le nuove proposte di Euroreciprocità. Con questa funzione il nostro lavoro nel suo interesse autentico, ha voluto quindi proporre più semplicemente anche un “blocco dell’immagine” dei sistemi di trasformazione in atto, come realtà da comprendere e da rispettare. E’ stata insomma la storia a costruire – in un primo approccio – il livello fondativo della complessità di immagini che sono state qui raccolte, in questo ponderoso contributo di studio, che qui quest’oggi presentiamo. Il confronto tra le prime e più incerte “descrizioni” dei luoghi di confine, le successive, più scientifiche e ricche di particolari geometrici, rappresentazioni topografiche degli stessi siti, sino alle moderne elaborazioni tratte da aereofotogrammetria costituiscono degli straordinari “documenti territoriali” la cui utilità pratica non può sfuggire ad alcuno.
Il carattere di continuità storica e l’ampia prospezione offerta dalla disamina di così diversi, sia pure coincidenti, “documenti territoriali” ha costituito un’ occasione straordinaria per noi, che, attenti agli aspetti contemporanei delle possibili applicazioni concettuali dell’approccio geografico agli studi di pianificazione ed assetto del territorio, ci è sembrato opportuno richiamare all’attenzione dei ricercatori e di tutti gli attori sociali. La evidente correlazione tra varie fonti, la complementarietà temporale ed il relativo contenuto tematico dei molti “pezzi” analizzati hanno consentito qui la ricostruzione di uno spaccato assai netto e particolareggiato dei meccanismi attraverso i quali si è esercitatato ed affermato il potere del “Principe” sul territorio, sia in termini di mera estensione di un dominio prioritario, sia di indirizzo e controllo degli assetti amministrativi ed organizzativi. Quindi la nostra raccolta non si è limitata al piacere estetico che sostiene i documenti proposti con la raffigurazione plastica delle montagne, il simbolismo dei segni convenzionali e la bellezza in molti casi della decorazione cromatica, ma ha voluto invece aiutarci a capire meglio il sistema di relazione che le diverse popolazioni nelle diverse epoche storiche hanno interessato lo spazio che le ospita.
Queste carte documentali registrano, nei diversi momenti, il rapporto di forza tra le Potenze che si ripartiscono il territorio. I confini si stabiliscono sulla linea di arresto delle Potenze antagoniste e, sotto questo aspetto assumono dunque funzione di isobare politiche. Da qui il carattere apparentemente contradditorio del limite. Esso pretende, da un lato, l’immobilità e la sua permanenza è sacralizzata da una imagologia che mistifica un tracciato contraddistinto da un valore dominante o affettivo. Ma allo stesso tempo la frontiera è sottomessa, a seconda delle congiunture ad un processo di erosione o di ampliamento che la deformano. Un confine quindi non è solo una linea di qualche colore tracciata – sempre fuori scala, accentuata rispetto agli altri segni grafici – su una carta geografica, ma il risultato provvisorio [come testimonia la vicenda delle terre da noi qui indagate] di una continua negoziazione tra soggetti e forze diverse. E’ intorno a questa pratica dell’interazione, che non può prescindere dal riconoscere l’esistenza dell’altro [nello stesso luogo o dall’altra parte della linea], che si gioca la nostra capacità di limitare il potenziale di violenza impresso nella parola confine. Ricordandoci però che non è l’unica maniera possibile di farlo, sempre che non vogliamo reiterare all’infinito le disatrose politiche di tanti tempi passati.
La nostra ricerca ci ha permesso quindi di vedere come le raffigurazioni cartografiche abbiano riflesso le diverse concezioni della loro territorialità e la trascrizione in forma rappresentata dei limiti che l’hanno contraddistinta nelle diverse epoche. In effetti, nella lunga vicenda cronografica presa in considerazione dalle origini ad oggi le diverse immagini hanno prospettato inusuali o inaspettati registri nella presa di coscienza di una forma suggestiva ed estetica del territorio, in quasi segrete nozioni archeologiche, dentro a ipotesi di ricomposizione di antiche e non meno seducenti morfologie primigenie. Lo scarto tra la percezione e la descrizione delle forme geografiche nei monumenta della cartografia trecentesca, quattrocentesca e l’immagine mentale e materiale che oggi ancora ci appartiene è davvero minimo; più ampio apparirebbe, al contrario, il divario tra l’immagine storicamente consolidata secondo le tecniche descrittive tradizionali e l’astrazione –formalizzazione delle strumentazioni odierne. Non dobbiamo di certo perdere le nostre coordinate di riferimento; possiamo tuttavia cambiare la distanza di osservazione, focalizzare qualche problema e leggere i mutamenti con la coscienza della loro complessità.
Una buona ricerca storico-cartografica è utilissima per indagare sulle dinamiche passate dei territori, non solo per ricostruirne le vicende, in questo caso intendendo semplicemente la storia, ma anche aiuto consistente alla comprensione del presente e dell’immediata evoluzione futura delle complesse relazioni interagenti tra uomini ed ambienti, questi ultimi sia naturali residui, sia già umanizzati. Infatti il presente ed il futuro prossimo dipendono dal passato in misura stocastica, cioè probabilistica. Affermazioni queste che crediamo ben condivisibili perché la civiltà della memoria è l’espressione particolare di un principio di importanza centrale per la crescita e lo sviluppo di una comunità: la ricostruzione della propria storia. Considerare una comunità come artefice della costruzione del proprio territorio porta a ricostruire gli oggetti e le trame che li hanno sostenuti con il supporto della memoria storica. Questa ricostruzione ci insegna a rifare l’oggetto stesso. Con l’apporto della storia sociale, economica, politica, culturale ed artistica, è possibile porre quelle premesse conoscitive ed interpretative per intervenire e salvaguardare, valorizzare e riqualificare l’insieme delle stratificazioni storiche del territorio. Ogni civiltà ha tentato di organizzare lo spazio secondo un proprio modello produttivo e quindi ha conservato, ha distrutto, ha abbandonato ciò che i limiti della propria cultura e del condizionamento storico imponevano. Secondo alterne vicende della storia i prodotti di ogni cultura si sono integrati o sovrapposti o aggiunti o sostanzialmente modificati rispetto a quelli precedenti.
Ciò che è rimasto, in questo continuo processo di trasformazione, il territorio lo riporta fisicamente, però bisogna rintracciarlo, bisogna individuarlo, e quindi farlo fonte di conoscenza che deve essere inquadrata storicamente affinchè possa acquisire un significato di valore interpretativo e prospettivo. Assume allora veramente il valore di un bene culturale. Diventa espressione globale di una data cultura, di una data storia civile, di un particolare rapporto natura-uomo, rappresenta cioè un documento di cultura, una testimonianza materiale avente valore di civiltà. Le diverse realtà territoriali vanno considerate come compresenze in atto e come stratificazioni storiche di usi e di spazi nei quali sono rintracciabili i segni delle trasformazioni subite nel tempo. Ciò vuol dire che del territorio fanno parte integrante gli elementi naturali, come gli elementi artificiali, le sedi abitate, le sedi abbandonate, nonché tutte le strutture costruite sul suolo. Il nuovo ed il vecchio coesistono nello spazio come insieme di totalità storiche. Il territorio così inteso come compresenza e stratificazione diventa ai nostri occhi spazio ricco di memoria e di tensioni proiettate nel futuro, articolandosi in luoghi popolati di figure, forme, materiali, colori ma anche miti che stimolano la nostra immaginazione.
Il nuovo ed il vecchio coesistono perciò nello spazio come insieme di totalità storiche. Il territorio così inteso come compresenza e stratificazione diventa ai nostri occhi spazio ricco di memoria e di tensioni proiettate nel futuro, articolandosi in luoghi popolati di figure, forme, materiali, colori, ma anche miti che stimolano la nostra immaginazione. Con questi intenti è stato quindi utile affrontare la valenza contenutistica della cartografia, valenza che dovremmo intendere perciò non come semplice curiosità del passato, ma come vero e proprio documento, cioè testimonianza viva di epoche, di tecniche di culture, di uomini atta ad esplicare eventi e processi avvenuti all’interno di una cornice, facciamo attenzione, delimitata nel tempo e nello spazio. Per fare questo, una geocarta antica che può essere meno bella di un monumento architettonico, archeologico, artistico, paesistico, non è sicuramente meno significativa per la storia e della tecnica e del territorio, meno rappresentativa di qualsiasi immagine storica del Mondo, e meno capace di offrire qualcosa di fruibile e di utile sul piano del patrimonio culturale agli uomini di ieri di oggi e di domani. Le antiche carte geografiche perciò non sono soltanto testimonianze tangibili di cultura, ma prove vive di epoche, di tecniche, di culture e di uomini. Ne consegue che l’indagine regionale condotta su base storico-cartografica di aree significative, soprattutto se incentrata su rappresentazioni realmente comparabili con situazioni attuali e che spieghi squilibri ed equilibri di paesaggi e di strutture, può e deve essere utilizzata ai fini della ricostruzione comparativa dei diversi quadri territoriali che si sono succeduti nel tempo.
Sintesi dunque sistematica e per immagini dei processi conoscitivi dei territori indagati, attraverso una rielaborazione dei contenuti già acquisiti, rinnovati ed arricchiti per adeguarli ad una diversa architettura concettuale, quella adatta ad un viaggio nella memoria, predisposto per favorire un’interpretazione concreta della varietà e della evoluzione dei quadri ambientali delle regioni che la compongono ed insieme la percezione del cambiamento che gli uomini hanno progressivamente avvertito nelle diverse realtà territoriali. L’insieme ha voluto insomma proporre una nuova “corologia storica”, che rileggesse in modo antologico l’immagine cartografica. Le moltissime figurazioni, alternate in un continuo mutamento di scale, di prospettiva, di contenuti, hanno potuto così fornire attraverso la comprensione e una più facile lettura ed interpretazione dello scambio tra simbolo, segno, memoria rappresentata, letteratura, l’acquisizione di nuove conoscenze e di nuovi parametri di giudizio, visti nell’ottica che tende a riscoprire e a documentare i valori e le testimonianze. Ne è conseguito che ogni fatto “fisico”, sia una sede umana, sia tutto lo spazio, dovevano essere considerati come beni collettivi, frutto di strutture insediative, integrate con i loro rispettivi territori.
In effetti, un territorio non è soltanto fatto di oggetti fisici ma prima di tutto è una questione di rappresentazione. La costruzione del territorio, ci ricorda Franco Farinelli (Geografia. Un introduzione ai modelli del Mondo, Bologna, Einaudi, 2003), con la consueta sua capacità di interpretazione, non è soltanto una questione di processi politici e sociali e di operazioni materiali, ma passa attraverso anche la costruzione di un complesso di immagini cui spetta il compito, tra l’altro, di legittimare la forma di potere esistente. Nel nostro Paese, come del resto in altri paesi europei ed anglosassoni, soltanto di recente si è iniziato a riflettere sul ruolo attivo ( e non di semplice copia) che l’immagine cartografica svolge nella determinazione dei processi territoriali. Manca però fino ad oggi, nel nostro Paese, come all’estero, una sistematica analisi del ruolo assunto dall’immagine cartografica e della logica ad essa inerente come primo e principale produttore della natura e della percezione delle forme di territorialità nazionale. Sorprendentemente geografi e cartografi devono ancora esaminare con attenzione l’equivalenza stabilita in epoca moderna, tra “mappa” e “mondo” e la sua importanza nella costruzione del corpo della rappresentazione dello Stato moderno.
Sempre più insistentemente viene percepita a livello internazionale l’insoddisfazione per le correnti tecniche d’analisi dell’immagine cartografica, specialmente per quanto riguarda la cartografia di interesse storico. In realtà la evidente correlazione tra varie fonti, la complementarietà temporale ed il relativo contenuto tematico dei molti “pezzi” analizzati ci hanno consentito invece la ricostruzione di uno spaccato assai netto e particolareggiato dei meccanismi attraverso i quali si esercitava ed affermava il potere del “Principe-padrone” sul territorio, sia in termini di mera estensione di un dominio prioritario, sia di indirizzo e controllo degli assetti amministrativi ed organizzativi. In sostanza, il “disegno” territoriale che è emerso dall’insieme dei documenti raccolti non è altro che la esplicita rappresentazione del più complesso disegno politico, sotteso alla concreta azione di governo, incentrato sulla ricerca di sempre più soddisfacenti equilibri di potere con gli altri Stati confinanti e, per molti versi, rispetto ai più significativi gruppi sociali presenti.
Per queste ragioni, sotto il profilo storico-cartografico, la constatazione della mancanza di raccolte sistematiche dei toponimi nei territori dell’Istria e del bacino adriatico orientale ha suggerito di predisporre per la prima volta un repertorio corretto e completo nei riguardi delle fonti più autorevoli della stratificazione storica della toponomastica dell’Istria e dei territori limitrofi, caratterizzati da una straordinaria ricchezza di tradizioni linguistiche e dialettali specialmente nelle varianti del latino, del veneto, dell’italiano.
Il complesso lavoro di censimento e catalogazione dei toponimi, che è stato condotto con l’ausilio delle fonti cartografiche e dei materiali provenienti da diverse realtà museali,dalle raccolte faticosamente costituite in cinquant’anni dal Dipartimento di Scienze Geografiche-Storiche dell’Ateneo triestino, da centri regionali di documentazione, da enti pubblici e privati e dall’ Istituto Geografico Militare ha inteso, quindi, da un lato, colmare una lacuna scientifica e , dall’altro, aiutare a comprendere la continuità storica di molti toponimi, le strutture originarie che li hanno definiti e la loro evoluzione, la persistenza o meno delle denominazioni dall’antichità ad oggi nell’area di riferimento, sia nel contesto urbano che in quello rurale. Il risultato di questa ricerca ha prodotto un sorprendente mosaico complessivo, pieno di suggestione, dove il presente è dato obliterato per evidenziare meglio la storia. I preziosissimi documenti cartografici che abbiamo utilizzato per questa scala toponomastica ci hanno invitato ad uno studio di geografia storica in quei suoi aspetti metodologici del ricostruire il mutare nel tempo dei “luoghi” e dell’illuminare il passato che organicamente vive nel presente, dando quindi valore applicativo alla disciplina geografica prescelta, con la conoscenza del territorio adeguata alla sistematicità degli interventi già avvenuti, finalizzandoli allo sviluppo conoscitivo e alla loro, per quanto possibile, conservazione.
Oggi, nella nuova Europa appena costituita e celebrata come espressione del nuovo clima politico di distensione e di superamento degli antichi antagonismi, si dovrebbe poter parlare dei confini con serenità ed obiettività, senza indulgere a quella deleteria concezione mitologica e sacrale che dei confini statali ci ha lasciato la storia e che è stata la fonte di tante guerre civili. In realtà il confine è un fatto meramente artificiale concepito dall’uomo e non dalla natura e perciò soggetto a mutare non solo il suo tracciato, ma anche il suo valore. E’ perciò un aspetto geografico dinamico, in continua evoluzione spaziale e di conseguenza funzionale nella vita di relazione tra Stati e popoli contigui. Ed è nei suoi aspetti evolutivi che esso va osservato, poiché ha profondamente influito sullo sviluppo dell’insediamento umano e delle attività economiche delle regioni di frontiera, lasciando evidenti tracce nelle diversità territoriali. Secondo alterne vicende della storia i prodotti di ogni cultura si sono integrati o sovrapposti o aggiunti a quelli precedenti. Ciò che è rimasto, in questo continuo processo di trasformazione, il territorio lo riporta fisicamente, però bisogna rintracciarlo, bisogna individuarlo, e quindi farlo fonte di conoscenza che deve essere inquadrata storicamente affinchè possa allora acquistare significato di valore interpretativo e prospettivo. Assume veramente il valore di un bene culturale. Diventa espressione globale di una data cultura, di una storia civile, di un particolare rapporto natura-uomo, rappresenta cioè un documento di cultura, una testimonianza materiale avente valore di civiltà. Le diverse realtà territoriali vanno considerate come compresenze in atto e come stratificazioni storiche di usi e di spazi nei quali sono rintracciabili i segni delle trasformazioni subite nel tempo. Ciò vuol dire che del territorio fanno parte integrante gli elementi naturali, come gli elementi artificiali, le sedi abitate, le sedi abbandonate, nonché tutte le strutture costruite sul suolo.
I “luoghi”, che condividiamo nelle nostre esperienze di vita, sono il frutto di un lungo processo di evoluzione tra insediamento umano, modelli di civilizzazione, ambiente naturale e storia. Ogni civiltà ha tentato di organizzare lo spazio secondo un proprio modello produttivo: ha conservato, distrutto, abbandonato ciò che i limiti della propria cultura e del condizionamento storico imponevano. Secondo le alterne vicende della storia, i prodotti di ogni cultura si sono integrati o aggiunti a quelli precedenti. Chi vuole dialogare con i “luoghi” deve quindi conoscerne gli elementi e le relazioni, visibili ed invisibili, che li hanno costruiti. Comprendere i “luoghi”, capirne il segreto per inventarne il futuro, richiede un sapere multidisciplinare o almeno il dialogo con molte discipline per ricondurre ad unità la conoscenza del luogo che è indivisibile.
«Descrivere o ri-conoscere le basi territoriali della soggettività umana, fondere l’oggettività geografico-fattuale con le soggettività culturali, ci può dare, per Giuseppe Campione (2005, p. 314 – 315), il senso del luogo, senza quella banalità di cui viene spesso caricato, quasi fosse preziosa raffinatezza, ma invece con la ricchezza simbolica di quello che rappresenta. Il paesaggio delle opzioni pianificatorie non sarà soltanto paesaggio visivo, ma soprattutto paesaggio emozionale. Con la cultura che è il significato, la sommatoria dei nostri gesti, una cultura che assomiglia molto a un verbo coniugato da persone differenti, che in tempi e modi differenti hanno acceso in modo creativo beni simbolici. Così è rappresentata la stratificazione della nostra vita e delle nostre esperienze: la ricostruzione del senso del luogo, la percezione spaziale dei soggetti non possono che essere il viatico alla territorializzazione dell’azione collettiva. Il paesaggio della memoria può finire con l’apparire distante, alternativo alle visioni e sensazioni del presente. Ma è nell’abitare questa distanza che forse sarà possibile cogliere lo spessore della mobilità delle forme che si accompagna al diverso percorso mentale che assume trasformando la “realtà o cosalità” dell’oggetto.
Un paesaggio-memoria perciò, che scandisce l’accaduto con tutta l’irrevocabilità del giudizio e che fissa dolorosamente ciascuno alla sua storia”. Nel contesto della velocità di trasformazione e di mobilità nel tempo e nello spazio che caratterizza la nostra epoca esiste, tuttora e fortunatamente nell’ipotesi che qui è stata prospettata, un senso di identità che si collega a singoli luoghi del territorio. L’anomìa che consegue al rischio di degrado della propria individualità, della propria cultura e del proprio modo di vita, stimola una reattività che porta ad assegnare valore simbolico ad alcuni punti del territorio. Questi punti forti rappresentano in genere il passato, ma oltre a ciò finiscono col rispecchiare l’identità dei singoli e del gruppo sociale nel momento attuale. Le operazioni di traduzione e di trascrizione assumono un rilievo particolare perché si applicano su qualcosa cui oggi, nell’epoca della globalizzazione, attribuiamo un valore sempre maggiore: la dialettica delle identità. L’invenzione della tradizione agisce su quella materia delicata e preziosa – alcuni, in chiave ecologica, direbbero “risorsa non rinnovabile” – che chiamiamo “identità”.
“L’identità – e ciò va tenuto fermo – è un Plurale tantum, presuppone altre identità. Senza la molteplicità non si dà l’unità, senza l’alterità non si dà la specificità” ( Guarrasi V., Memoria di luoghi, “Geotema”, a. X (2006), vol. 30, Territori, tradizioni, luoghi oggi, 2006, pp. 13 – 22 ). Il principio del Plurale tantum è essenziale per intendere il nesso tra la pluralità delle culture e lo sviluppo dell’umanità nel suo complesso. Nel contatto tra le culture si giocano grandi opportunità per lo sviluppo della riflessività, ma altrettanto importante è il lavoro orientato alla costruzione della memoria. Il contatto noi/altri, che rende possibile l’affiorare alla coscienza del carattere convenzionale e contingente di norme, valori, istituzioni e interpretazioni del mondo, non si completa se non si attiva una dialettica tra oblio e memoria. Ciò che era dato per scontato manifesta la propria natura di costrutto sociale e impone di riscoprirne le motivazioni costitutive. Il problema è come si alimenta la memoria di un mondo dominato dalla contingenza e quasi totalmente inserito nell’orizzonte del presente? Tocca, forse, al luogo stesso in cui avvengono le interazioni umane il delicato compito di conservare tracce del passato idonee a mobilitarne la memoria culturale. Memoria, tratto identitario, per eccellenza, non può fare appello che agli indizi di passato offerti dall’ambiente fisico circostante.
L’oblio consente a ciascuna cultura di naturalizzarsi rendendo opache le sue peculiarità e convenzionalità. Quando ciò avviene, però, non è possibile l’emergenza di una identità collettiva né della riflessività; il senso del noi è vissuto soltanto per differenziazione da – o contrapposizione a – gli altri. Il nesso tra luogo, cultura e identità assume significati molto diversi in rapporto alla definizione che adottiamo di “luogo”, “cultura” e “identità”. Tutti e tre i termini sono, infatti, polisemici. Ad esempio, per cultura possiamo intendere un insieme di fatti immateriali (modelli, valori, concezioni del mondo) o il complesso dei fatti materiali (strumenti e tecniche, oggetti di consumo, abitazioni, ecc.) e immateriali che caratterizzano un particolare gruppo umano. Che cosa avviene quando uno o più membri di una comunità abbandona il luogo in cui essa risiede?
Naturalmente una parte della cultura si sposta con essi (modelli, valori o condizioni del mondo continuano a orientare il comportamento di queste persone, talvolta per tutta la vita, e li rendono riconoscibili come membri della comunità di origine); un’altra parte – e al suo interno buona parte della cultura materiale – rimane fissata al luogo di partenza secondo un modello che trova esplicito riferimento odierno nella contrapposizione odierna tra rimasti e profughi. Questa dialettica tra memoria e oblio assume una forma inedita. La compressione spazio-temporale produce, infatti, tra i suoi effetti un nuovo regime di storicità. Si accorcia sia la memoria del passato che la proiezione, in termini progettuali, verso il futuro. In tale recupero della memoria è la costruzione degli archivi ad essa specificatamente dedicati. Ma ogni società ha modalità sue proprie di rapportarsi con il suo passato e su esso costruire la propria identità.” Per questo crediamo che sia stato utile quindi affrontare la valenza contenutistica della cartografia, valenza contenutistica che dovremmo intendere perciò non come semplice curiosità del passato, ma come vero e proprio documento, cioè testimonianza viva di epoche, di tecniche di culture, di uomini atta ad applicare eventi e processi avvenuti all’interno di una cornice delimitata nel tempo e nello spazio.
Le moltissime realtà presentate nel nostro impegnativo lavoro attraverso i documenti cartografici in numerose esemplificazioni, alternate nei diversi contenuti, ma raccolte al fine specifico di diverse individuazioni territoriali, hanno raggiunto, almeno lo crediamo, lo scopo finale prefissato di fornire una più facile lettura ed interpretazione dello scambio avvenuto nel tempo tra luoghi, simboli, segni, memorie rappresentate. In questo contesto la toponomastica ha assunto particolare significato di sistema di valori. La toponomastica infatti racchiude in sé la memoria tra l’uomo e il territorio. Essa è in altri termini un archivio vivo ed aperto, che esprime le peculiarità fisiche; ferma nel tempo avvenimenti e tradizioni, azioni di conquista e di trasformazione del territorio per opera dell’uomo; è segno indelebile e monito al contempo contro crimini e le nefandezze della storia; è il panteon dei grandi personaggi del passato, che hanno dato lustro alle scienze, alle arti, alle amministrazioni pubbliche, ma anche delle umili persone di tutti i giorni, che si sono distinte per moralità, per generosità, per atti eroici; è il registro di tanti noti o ignoti proprietari di beni immobili; è il quaderno delle credenze, delle religioni, delle leggende, dei bisogni e delle speranze degli uomini (Cantile, cit., vol. II, p. I, p. 154).
La toponomastica è stata per secoli un patrimonio culturale immateriale, in quanto memoria del passato, per lunghissimo tempo legata alla sola trasmissione orale, ma anche espressione viva e concreta del rapporto tra uomo, ambiente e territorio, rapporto che non può essere certo succube della sola memoria del passato, subendone in modo passivo l’incombente presenza, ma che deve comunque poter esprimere nuove forme di territorializzazione. Alla luce di una chiara consapevolezza storica e senza alcuna soggezione nei confronti del passato, l’uomo deve poter essere libero di esprimere la sua appartenenza a un dato luogo; senza per questo, come purtroppo è avvenuto nell’immediato secondo dopoguerra, operare forzose e prepotenti azioni di cancellazione di nomi geografici, che si trasformano in aggressioni culturali, ferite esposte drammaticamente nella memoria delle genti, violenze che anche a distanza di decenni chiedono giustizia e che solo intelligenza ed animi sgombri da desideri di rivalsa possono ragionevolmente sanare, nel rispetto di regole comuni, condivise e stabilite con omogeneità effettive, di cui può essere garanzia solo un rigoroso approccio scientifico ai problemi.
Con l’aiuto dei preziosissimi documenti del passato da noi pazientemente raccolti lungo cinquant’anni di impegno e di quelli messi di recente a nostra disposizione dell’Istituto Geografico Militare abbiamo potuto individuare le scelte toponomastiche espresse nel variare del tempo come icone importanti di storia linguistica in queste regioni dell’alto Adriatico e della sua fascia orientale, da sempre territori di confine, correlata attraverso i secoli all’interno del paesaggio onomastico in modo forte, soprattutto nell’Istria, al rapporto con il venetico, all’interno dell’universo latino al rapporto con Aquileia, poi al rapporto con l’Aquileia friulana (lato senso) ed infine con Venezia. “Non si è trattato di vedere le cose in una prospettiva riduttiva – né di scoprire che nella lingua, come nella cultura, tutto è correlato a tutto – ma di prendere atto che questi territori non sono mai riusciti, per diversi fatti, a divenire centri irradianti; hanno partecipato della storia, non l’hanno costruita. E forse qui sta l’aspetto più interessante delle loro vicende, in un’individualità costruita e ricostruita giorno per giorno. Ciò appare ancora più chiaro nella età medioevale, moderna e contemporanea, quando, grazie ad un numero ben maggiore di fonti la storia linguistica ha assunto per noi la sua veste più naturale, quelle di storia di parlanti” (Crevatin, 1989).
“Transizione tra mondo Istro-venetico e mondo liburnico, tra Italia romana (Aqujleja) e province (Dalmazia), tra Romania e Slavia nell’alto Medioevo. Questa peculiarità è – ed è stata anche forse in primo luogo – culturale; infatti, più specificatamente, l’Istria (e la Dalmazia) hanno fatto di questa particolarità la propria individualità. Una seconda caratteristica logicamente interessata alla prima, è quella di essere uno specchio, tendenzialmente conservativo, di quanto si è svolto oltre (i loro) confini geografici: cioè la storia linguistica dell’Istria (come quella della Dalmazia) non si comprende se non correlata a quelli che di volta in volta sono stati (i loro) centri esterni propulsori (Crevatin, 1989)”. Nessun dubbio quindi circa la realtà del fatto: l’incertezza permane per contro intera relativamente alle modalità di indagine e degli esiti che ci si poteva attendere di conseguire in codesta fase, purtroppo ancora poco praticata dello studio scientifico della storia del territorio. Né si è trattato della scarsità dei documenti ma del disordine – esterno, materiale – di essi, sovente sepolti nei ricetti più inattesi del campo consueto e vasto dell’informazione, e della reticenza – interna, costituzionale – che spesso essi oppongono alla somma di domande di chi li interroga con gli scopi che abbiamo indicato e che, qui di seguito ci ha visti impegnati. Ma prima ancora, la questione ha coinvolto la stessa struttura dei reperti utilizzati, dato che l’impegno ipotizzato pretendeva, a capo di un arduo processo di discriminazione stratigrafica, la restituzione di un immagine che è invece, per sua qualità, dinamica, non già determinata una volta per sempre, ed aperta invece a nuove mutazioni.
Ci è parso doveroso reagire ad una concezione dei concetti e dei rapporti ispirata ad un dualismo di base, a quella generica contrapposizione che di fronte al nostro tema di ricerca poteva derivare dall’esclusiva applicazione di particolari punti di vista, fossero essi puramente storici o puramente geografici. Sono infatti connessioni pur sempre ovvie, perché sia ben chiaro, per concludere il preambolo: si è trattato di individuare, modi, tipi e forme di organizzazione e di conoscenza del territorio da parte dell’uomo: essi ed esse costituiscono un tutto che non solo è presente nello spazio ma esprime anche un divenire temporale, che si colloca come fattore incancellabile e indirettamente operante rispetto a tutti i successivi equilibri. Le modificazioni dell’uomo non si cancellano con la cessazione delle loro necessità: divengono strutture di base delle ulteriori modificazioni.
Nel contesto della velocità di trasformazione e di mobilità nel tempo e nello spazio che caratterizza la nostra epoca esiste tuttavia, nella ipotesi che qui è stata prospettata, un senso di identità che si collega a singoli luoghi del territorio. L’anomia che consegue al rischio di degrado della propria individualità, della propria cultura e del proprio modo di vita, stimola una reattività che porta ad assegnare valore simbolico ad alcuni punti del territorio. Questi punti forti rappresentano in genere il passato, ma oltre a ciò finiscono col rispecchiare l’identità dei singoli e del gruppo sociale nel momento attuale. Perciò, la loro indagine abbiamo creduto che meritasse di essere perseguita ed approfondita, almeno nei limiti che noi ci siamo proposti; perché solo dipanando le serie delle soluzioni e congiungendo la successione delle mediazioni culturali che attraverso una storia di lento svolgimento e di lente mutazioni hanno regolato, e regolano, i rapporti tra uomo ed ambiente genericamente intesi, potremo comprendere appieno, con una maggior forza di penetrazione ed una maggior consistenza problematica, il complesso contenuto e la configurazione dell’odierna realtà paesistica di queste terre.
Ci auguriamo perciò che, nell’Europa che viene, si ridisegni un Adriatico aperto, in cui sia possibile fruire appieno della memoria di secolari interazioni. Oggi, forse una nuova riflessione è possibile, grazie anche ai nuovi progetti transfrontalieri ed euro regionali che stimolano rinnovate speranze per la civiltà del popolo istriano, fiumano e dalmata di lingua italiana, nella sua unità e nelle sue articolazioni.
* professore ordinario f. r. di Geografia, già Direttore del Dipartimento di Scienze Geografiche e Storiche e Preside della Facoltà di Magistero (1988-1993) e di Scienze della Formazione (1993-2003) dell’Università di Trieste.