martedì 03 novembre 2009
Si osserva un sostanziale silenzio, da parte della critica, sulla produzione letteraria della provincia italiana di Dalmazia, silenzio che, con sparute apprezzabilissime eccezioni, riguarda tanto i manuali e i repertori quanto la saggistica specializzata. Si dà quindi in breve un’idea complessiva del fenomeno attraverso una presentazione generale che mette in luce le linee essenziali, trascurando ciò che è comunque già abbastanza noto o fenomeni marginali e minimi.
Il presente saggio è stato realizzato a quattro mani (tutta la prima parte, Letteratura italiana in Dalmazia dal Marulo al Boscovich, da Anna Bellio, e la seconda, Letteratura dalmata italiana fra Ottocento e Novecento, da Giorgio Baroni) con lo scopo di dare un’idea d’insieme della letteratura dalmata italiana, sollevandola dall’oblio in cui tende a scivolare e offrendo spunto per più specifiche ricerche. Gli autori denunciano i propri debiti verso il secondo volume, intitolato Dalmazia, dell’opera di Francesco Semi e Vanni Tacconi, Istria e Dalmazia. Uomini e tempi[1], cui rimandano nei casi di notizie generali qui riportate senza indicazioni bibliografiche.
Letteratura italiana in Dalmazia dal Marulo al Boscovich
1.1 Premessa
È innanzi tutto necessario precisare che i confini della Dalmazia sono più volte nei secoli mutati; senza entrare in speculazioni[2] storiche e geografiche, si precisa di aver considerato Dalmazia le isole dell’Adriatico orientale e un breve entroterra da Veglia ad Antivari.
Si ricordi che la terra dalmata, oltre che alla letteratura, dette anche alla storia politica e religiosa d’Italia personaggi illustri: di Dioclea, presso Salona, fu il glorioso imperatore Diocleziano, continuatore e restauratore della tradizione dell’antica Roma; a Stridone nacque uno dei Padri della Chiesa: san Girolamo, colui che, insieme ad alcuni letterati gallo-romani, penso a san Paolino di Nola con il quale era in corrispondenza, ma anche ad Ausonio e Prudenzio, volle conciliare umanesimo classico e misticismo cristiano. Di lui si ricorda qui solo il contributo che il suo trattato De viris illustribus diede alla storia della letteratura. Lo scrisse al modo di Svetonio: in 135 capitoli il santo offre una rassegna di 135 scrittori, cristiani e non, da Pietro a se medesimo. Tra i migliori esemplari di prose latine si annoverano le sue lettere.
In alcuni momenti dell’indagine è parso di avanzare su un terreno minato e questo non tanto per i diversi problemi sollevati dalle particolari condizioni storico-politiche, dalla composizione etnica e dalla realtà linguistica di una terra di tal confine quale è stata la Dalmazia, ma per l’attuale più o meno sotterraneo processo di croatizzazione che sta interessando alcuni personaggi della nostra letteratura, catturati per dare il senso della tradizione a una letteratura più giovane di quella italiana, nata accanto ad essa, spesso per filiazione, negli ultimi decenni del XV secolo col Menze, il Vetrani e il Marulo, scritta in una lingua per secoli rimasta quasi esclusivamente orale tra la popolazione slava dell’interno, lentamente penetrata nelle città costiere e spesso addirittura messa da parte dai nuclei stessi degli immigrati che assimilavano leggi lingua e costumanze della nuova patria italiana in cui si inserivano a vivere, dove podestà, notai, medici, maestri erano italiani e si parlava il volgare neolatino e il latino era la lingua colta, insieme al neolatino letterario.[3] Tale lingua slava, d’uso pratico, né culturale, né letterario, trovò nientemeno i suoi competenti cultori «fra gli studiosi di ceppo romanico, che ne trattarono l’ortografia e la grammatica». Si fanno al riguardo i nomi di Fausto Veranzio di Sebenico, autore di un grande dizionario quinquilingue, edito a Venezia nel 1595, nel quale figura per la prima volta il lessico della lingua slava e di Giacomo Micalia da Pescia, toscano, autore del primo vocabolario serbo-croato con traduzione in latino e in italiano di ogni vocabolo, pubblicato a Loreto nel 1646, col titolo Thesaurum linguae illiricae.[4]
Non è possibile parlare della letteratura italiana della terra dalmata senza rievocarne la storia politica e definire i caratteri etnografici e fisici del suo popolo, vissuto e cresciuto col nome e col sentimento dell’Italia[5].
1.2 Cenni storici
Nel corso del primo millennio avanti Cristo abitarono la Dalmazia popolazioni illiriche, che si stanziarono anche in altre regioni della costa adriatica; dopo la metà di questo primo millennio la costa e le isole furono colonizzate dai greci, sorsero, infatti, numerose colonie: Lissa, Curzola, Faro, Cittavecchia di Lesina, Ragusavecchia, Traù, Bocche di Cattaro, Meleda. Romana dal III sec. a. C. e intensamente romanizzata, quindi cristianizzata (Paolo asserì da Corinto di aver portato il Vangelo fin nell’Illirico), fu invasa, nel VII secolo, dagli Avaro-slavi che si fermarono però davanti ai centri della costa e delle isole i quali rimasero latini. Veneziana per secoli dal 1000 d. C. fino alla caduta di Venezia nel 1797, la Dalmazia, regione confinaria d’Italia, è cresciuta italiana per ideali, lingua e cultura, salvaguardati, nelle isole e nella fascia costiera, dalle vicende storiche.
Il mare fu ponte tra le città delle due rive adriatiche; gli scambi commerciali, culturali ed etnici si realizzavano nel segno di una comune origine e della comune civiltà di Roma. Così in Dalmazia la lingua latina si modificò, per evoluzione naturale, in un volgare neolatino, il dalmatico,[6] affermatosi già nel 1181, ma che culminò nell’uso corrente verso il XIV secolo (di questo periodo sono quasi tutti i documenti che lo attestano)[7], si accompagnò, dopo il XIII secolo, all’italiano volgare e letterario e fu poi soppiantato dal veneto sopravvivendo però fino alla fine del secolo scorso a Veglia, la più settentrionale delle isole dalmate.
Parallelamente a quanto avveniva in Italia, i municipi romani della Dalmazia si trasformarono in Comuni medioevali con gli stessi statuti di quelli della penisola, si assisteva a scambi di podestà e amministratori; codici e documenti testimoniano comunanza di lingua e di valori. Da Firenze, durante il 1300, numerosi esuli della fazione dei Neri ripararono a Zara, Spalato, Traù, Ragusa, Sebenico. Tra questi v’era anche, a Ragusa, città assai fiorente e vitale di traffici, il padre dello scrittore Franco Sacchetti che qui nacque. A Ragusa, per quasi un decennio, svolse attività di cancelliere della libera Repubblica Senofonte Filelfo, della famosa famiglia marchigiana di umanisti. Era figlio di Francesco e fratello di Gian Mario, l’autore della Raguseida[8], poema dedicato alla città, scritto in duplice redazione, latina e volgare, segno degli stretti rapporti culturali oltre che commerciali e politici esistenti fra una costa e l’altra dell’Adriatico nel XV secolo.
L’avvento di Venezia di cui si è detto, superate riserve e diffidenze che continuarono fino al 1400, fu l‘inizio di un dominio fiorente, accettato e poi persino rimpianto, che coinvolse tutta la Dalmazia tranne Ragusa, repubblica marinara indipendente caduta, anch’essa per mano napoleonica, nel 1808. La civiltà e la letteratura in Dalmazia crebbero in questi secoli di pari passo con quelle delle altre regioni italiane d’oltre adriatico e parlarono orgogliose per secoli la lingua di Virgilio, Dante, Tasso e Machiavelli, Alfieri e Goldoni. Particolarmente fiorenti furono l’epoca rinascimentale e quella illuministica; fino al Settecento l’attività letteraria e artistica fu limitata quasi esclusivamente agli ecclesiastici e, più che altrove, prosperò a Ragusa. Frequenti furono soprattutto gli scritti di edificazione spirituale e morale, memorie, laudes ossiacelebrazioni di singole città e, fra la letteratura d’occasione, studi sulla origine e la potenza del popolo turco e poesie sui conflitti tra Venezia e i Turchi.
1.3 Umanesimo e Rinascimento
L’Umanesimo e il Rinascimento trovarono in Dalmazia terreno particolarmente ricettivo perché sincero e appassionato vi era il culto dell’antichità, che affascinò la letteratura e la trattatistica dalmate per tutto il XVI secolo. Intensa fu qui come in Toscana l’attività di ricerca di antichi codici: a Traù nel 1654 Marino Statileo trovò in casa Cippico, che vantava ben tre umanisti (Pietro, Coriolano e Alvise) la Coena Trimalchionis dal Satyricon di Petronio Arbitro; Traguriensis si chiama infatti il codice che la contiene insieme con le opere di Catullo, Tibullo e Properzio. Letterati, naturalisti, giuristi, scienziati scrivevano in elegante latino, scritto e parlato talvolta fino a tutto il XIX secolo; accanto a questi, notai e popolo usavano la forma dialettale italiana: il già menzionato dalmatico.
A Zara, Traù, Spalato e Ragusa vivevano e insegnavano, provenienti dall’Italia peninsulare, rinomati maestri, conosciuti anche come oratori, trattatisti, poeti, commentatori di classici. Molti dalmati si trasferivano in Italia a studiare, a Padova, a Venezia, a Bologna, e poi ad insegnare. Lo studio patavino chiamava docenti dalla Dalmazia e anche dall’Istria; la cultura umanistica era insomma itinerante tra le regioni italiane delle sponde adriatiche e questo continuo scambio, con alternarsi e variare anche dei maestri, fu la caratteristica più ricca di conseguenze della civiltà Rinascimentale italiana.
Tra Ancona, Zara e Traù nacque, nella prima metà del Quattrocento, l’epigrafia e numerose iscrizioni dalmate figurano tra le prime che furono raccolte in sillogi. Due maestri sono da citare al riguardo: l’anconitano Ciriaco di Filippo Pizzicolli e il raguseo Marino di Michele Resti.
A Salona, tra le rovine romane, il poeta Marco Marulo trovava ispirazione per la rievocazione dell’antichità nel suo Regnum Dalmatiae et Croatiae gestas latinitate donata e compose i Commentaria in inscriptiones veterum in marmore incisas. Nativo di Spalato (1450-1524), lo si ricorda cantore della gloria veneziana alla quale collaborarono come comandanti militari i fratelli Valerio e Simeone. Trilingue, compose, soprattutto in latino, opere di edificazione religiosa; tra queste il De imitazione Christi, la Vita Beati Hieronymi, l’ Evangelistarium in sette libri, il De humilitate et gloria Christi. La sua prima opera fu il De institutione bene vivendi, edito a Venezia nel 1507; suo è il poema epico religioso in quattordici canti Davidiados carmen, che si inserisce nel complesso delle opere letterarie dalmate legate al pericolo degli invasori Turchi e che ebbe largo consenso in patria e all’estero. Allo stesso tema della lotta contro i turchi s’ispira la Judita, poema eroico-religioso in sei canti, scritto in lingua slava (nella variante ciakava croata) perchè potessero comprendere anche quelli che non erano avvezzi al latino e all’italiano. Nel 2001, a Padova, una giornata di studio: Italia-Slavia tra Quattro e Cinquecento, ha illuminato l’interessante e complessa personalità di questo letterato, le sue relazioni con lo Studio patavino, il suo culto per il Petrarca, la sua rilevanza come pioniere, con la Judita, della letteratura croata, il suo versatile ingegno espressosi anche in sonetti in italiano, dispersi tranne due, pubblicati nel 1936 sul «Giornale storico della letteratura italiana» da Mirko Deanovi?, riproposti da Giacomo Scotti nel 1997[9].
Non sembri strano che un umanista italiano possa essere citato come fondatore della letteratura croata; personaggi simili a Marulo appaiono piccola cosa per una letteratura dalle tradizioni già illustri e secolari come quella italiana, ma di grande momento per una letteratura a quel tempo ancora prevalentemente orale. Del resto le uniche voci letterarie serbo-croate di quei secoli sono ragusee o dalmate, opera di dalmati trilingui che, cito dallo Scotti, «cominciando a scrivere in croato, si richiamano pure, è vero, alla letteratura popolare (orale) slavo-dalmata, ma fanno leva principalmente sulla ricchezza del latino e dell’italiano letterari, sulla ricchezza della letteratura umanistica del Quattrocento italiano»[10].
Il Marulo rese in latino il I canto dell’Inferno di Dante e la Canzone alla Vergine di Francesco Petrarca; le sue versioni testimoniano quanto, in terra dalmata, fosse stimata l’espressione classica latina «il cui uso si protrasse, nelle lettere, più a lungo che altrove».[11] Sulla versione maruliana della canzone petrarchesca ha scritto recentemente Giuseppe Frasso[12] e sul codice torinese G VI 40, autografo della Davidiade,ha lavorato Claudio Griggio.[13]
Ragusa soprattutto, fondata dagli esuli romani di Epidauro, intratteneva con la penisola e la cultura italiane stretti rapporti. Tra le sue mura circolavano le opere di Ludovico Ariosto, Francesco Berni, Luigi Pulci, Pietro Aretino, Nicolò Machiavelli, Baldassarre Castiglione. In Ragusa nacquero insigni poeti latini; caro al Poliziano per il terso latino dei suoi versi, purtroppo dispersi, fu Giovanni Gozze (1451-1502). Raguseo fu uno dei maggiori umanisti in grado di competere con i grandi nomi europei; si tratta di Elio Lampridio Cerva (1460-1520), contemporaneo del Marulo e forse il maggior poeta latino dell’epoca. Nel poema epico incompiuto De Epidauro professa ripetutamente con orgoglio la sua ammirazione per Roma dove studiò integrandosi nella vita culturale della città rievocata poi nei suoi carmi latini leggibili in due codici della biblioteca Vaticana (n. 2939). Nell’ode In Ragusam: propago vera, verior colonia bis prolesque quiritium definisce la sua città «creatura di Roma» e con preoccupazione guarda alla contaminazione, negli affari pubblici, del dalmatico con la lingua croata del contado, che premeva alle porte delle mura.
A tal proposito, fu con gran dispetto dei nobili ragusei che si comportò, letterariamente e non solo, il concittadino del Cerva, Marino Darsa (Ragusa1508-Venezia1567), di aristocratica famiglia, ma dalla vita disordinata e difficile. Fu autore di testi teatrali satirici proprio in quella lingua mista di slavo e italiano che si veniva formando per i continui rapporti che Ragusa aveva col contado e che era considerata incolta e barbara dai nobili e dai letterati che in città, tra l‘altro, praticavano, oltre il latino, il toscano più che il veneto. Letterato dissidente dunque il Darsa, satirico verso il mondo da cui proveniva, ma dotato di comunicativa, estroso. Di chiaro successo furono, tra il popolo, i suoi drammi pastorali Tirena, Venera i Adon (Venere e Adone), la sua farsa Novela od Stanca (La beffa di Stanac), e le sue commedie Dundo Maroje (Lo zio Maroje), Skup (L’avaro), Arkulin (Arcolin), Mande (Maddalena), tutti testi assai interessanti per quel che riguarda la lingua, mutevole per caratterizzare i diversi personaggi, mista di gergo, latino maccheronico, toscano perfetto.
Anche Giovanni Francesco de Gondola (1588-1638), umanista raguseo, scrittore in italiano di alcuni poemetti e drammi, oltre a volgere in slavo la Gerusalemme (il manoscritto andò perduto fra gli incendi del terremoto del 1667), scrisse in slavo un poema epico imitando il Tasso: l’Osman. Il poema, considerato il suo capolavoro, è un rifacimento della Gerusalemme, esempio di quella letteratura slava di cui erano esponenti anche il Marulo e il Darsa e che, ispirandosi alla tradizione italiana, si sviluppò soprattutto in Ragusa, costituendo le prime prove della successiva letteratura croata che appena coll’Illirismo del XIX secolo venne ad assumere importanza come segno della rinascita nazionale. Lo stesso Osman fu pubblicato solo nel 1826 per iniziativa di editori italiani.
In questa clima culturale e linguistico, animato dai continui scambi con la penisola d’oltremare, nel quale pure coloro che poetavano in lingua slava erano sempre rivolti alla tradizione italiana e usavano anche il latino e l‘italiano, fu proprio il dalmata Giovanni Francesco Fortunio, nativo dell’isola di Selve, a fissare, tra la metà del Quattrocento e il 1517, anno della sua morte, le regole della lingua italiana nella prima grammatica, fatica oggi quasi dimenticata perché oscurata dal lavoro di Pietro Bembo che comunque, seppure a malincuore, dovette riconoscere la priorità del Fortunio e delle sue Regole grammaticali della volgar lingua (due libri editi in Ancona per i tipi di Bernardino Vercese nel 1516). Per la questione relativa al Bembo e al Fortunio, e agli screzi tra i due, si rimanda agli studi sul Bembo del Dionisotti, del quale ricordo qui anche il fondamentale saggio sul Fortunio e la filologia umanistica.[14] L’umanista zaratino s’inseriva nel movimento linguistico che riconosceva all’italiano la capacità di ben esprimere il pensiero moderno. Egli sosteneva che è il senso delle parole a dettare la sintassi e che essa, quindi, può essere quella del latino, ma non è necessario che lo sia. Nel primo libro delle Regole, discutendo l‘uso del nome e del pronome, del verbo e dell’avverbio fatto da Dante e da Petrarca, riconosce la conquista di un’espressione chiara come i classici avevano realizzato nelle loro opere: così l’italiano era nobilitato come evoluzione naturale del latino e durante il Cinquecento, in tutte le città della costa, si poetava in lingua italiana. Di Lodovico Pasquali, cattarino, si ricordano le Rime volgari composte sul modello del Poliziano, ancora di Cattaro furono Giorgio Bisanti, autore delle Rime amorose e Marino Bolizza, mentre di Zara fu Giambattista Dietrico, elogiato dal Bembo in una lettera al fratello.
Ed ecco di nuovo Ragusa pronta ad offrire l’ambiente più adatto alla nuova poesia. Scrisse versi in volgare, inserendosi nel petrarchismo dalmata ravvivato da spunti idillici quattrocenteschi, il raguseo Savino de Bobali Sordo (1530-1585). Fu in rapporti epistolari col Caro e col Varchi e tra i fondatori dell’Accademia dei Concordi, la prima fondata sulla sponda orientale dell’Adriatico; gli associati si raccoglievano a leggere le loro rime nel palazzo della Dogana, detto Sponza. Era membro dell’Accademia anche Marino Darsa, insieme al meglio dell’ingegno di Ragusa nella seconda metà del Cinquecento: Marino Caboga, Natale Tudisi, Domenico Ragnina, Giulia Bona, Flora Zuzzeri, Michele Monaldi. Del Bobali si propone un sonetto dalle Rime amorose pastorali e satiriche, pubblicate a Venezia dall’amico Aldo Manuzio nel 1589:
Io vivea dolcemente i miei primi anni
Da’ legami d’Amor libero, e sciolto;
Né tema, o cura avea d’esser mai colto
Dalla sua falsa fede, e veri inganni;
Quand’ei pronto, e leggier mosse a miei danni
Con le sue frodi; ed entro un caro volto
Mostrommi tutto ‘l bello insieme accolto,
Che può venir quaggiù dagli alti scanni.
Stupiine i’ allora: e, qual augellin suole,
Che cibo vede, pien d’alta vaghezza
Vi corsi tal, che caddi al laccio teso.
Né mi dispiacque: che due stelle, un Sole,
Rubin, perle, oro, e tanta altra bellezza
Furon dolc’esca, e rete, ond’io fui preso.[15]
Le ultime battute sono evidente reminiscenza dell’endecasillabo petrarchesco che recita «Quand’i fui preso e non me ne guardai» nel sonetto III del Canzoniere; la prima quartina racconta uno stato di innocente beatitudine, libera dalle pene d’amore, di chiara impronta umanistica, così come il subitaneo adattamento alla mutata situazione d’innamoramento, accolta con cordialità d’accenti: «Né mi dispiacque…», dice infatti il poeta. Alle poesie che celebrano la bellezza della donna amata seguono, nelle Rime amorose, quelle in morte della stessa in una serie di dolenti rimpianti e affanni. Si noti la scioltezza e la regolarità dei versi, indizio di competenza, attento studio e provata consuetudine con i classici.
Tra i Concordi ragusei merita di essere ricordato il bilingue Domenico Ragnina (1536-1607), mercante di professione, ma poeta d’elezione, gradito a Cosimo I de’ Medici e autore di una trentina di sonetti in lingua italiana e di una raccolta di 445 componimenti poetici di vari autori in croato. Chiaro esempio di petrarchismo lessicale è il sonetto che segue:
Deh come il mio sperar mi venne meno:
Nessun fu più di me doglioso mai:
La bella fera, ch’io tanto cacciai,
Hor altri al suo piacer si tene in seno.
Ed altri il frutto pur di questo ameno
Colle, che con fatica io coltivai,
Si gode in pace; e a me trahendo guai
Fa viver con il cor de doglie pieno.
Et al più caldo giorno il fonte chiaro
Ch’io ritrovai in valle ombrosa e humile;
Altri se beve, e io moro d’inopia.
Onde ‘l mio viver più, ch’assentio amaro
Veggendo ch’altri à se mie cose appropria.
Così fortuna va cangiando stile.[16]
Né va dimenticato Niccolò Vito Gozze, tipico esponente del Rinascimento italiano, stimato autore di dialoghi ispirati a quelli di Torquato Tasso. Protagoniste interpreti del Dialogo della Bellezza e del Dialogo d’amore sono due donne belle e colte della Ragusa cinquecentesca: Flora Zuzzeri, poetessa apprezzata e Maria Gondola, moglie del Gozze.[17] Dalla gentile e bella Flora Zuzzeri egli confessa di essere stato ispirato nella composizione dei dialoghi.
Tra il Quattro e il Cinquecento una delle più importanti famiglie di Lesina, per censo e peso politico, fu quella dei Paladini; in questa nacque, poeta latino e italiano, della schiera dei petrarchisti, Paolo Paladini. Le incerte notizie biografiche su di lui, lo dicono uomo d’armi in difesa di Venezia contro i Turchi; fu in rapporti con il Cerva. In un recente volume, uscito nel 2005, Sante Graciotti ne propone il Canzoniere con i testi sia in latino sia in italiano. È interessante riconoscere nella poesia del Paladini echi della tradizione lirica amorosa petrarchesca. Numerose consonanze tra il Petrarca e il Paladini sono state individuate dal Graciotti che riporta anche un evidente calco dei versi 67-70 dal sonetto petrarchesco CCLXVIII. Così il Paladini ad Alessandro Pesaro:
Pon fren al fier dolor che ti trasporta
Et fa gir travagliato in fantasia;
Che per soverchia voglia l’hom se oblia
Et perde ‘l coel, ov’è ita l’alma ac[o]rta
Per cui sospiri, rapta no, né morta.
e Amore parla in tal modo al Petrarca:
Pon freno al gran dolor che ti trasporta,
Ché per soverchie voglie
Si perde ‘l ciel ove il tuo core aspira,
dove è viva colei ch’altrui par morta.[18]
Nativo di Lesina fu pure Annibale Lucio, cantore appassionato di Venezia nei suoi sonetti italiani, nei quali si rivela poeta al modo del Poliziano.
Di Cherso fu Francesco Patrizi (1529-1597); studiò a Bologna e a Padova, dove ebbe tra i compagni di studio Ippolito Aldobrandini, il futuro papa Clemente VIII. Dopo un’adolescenza sul mare, militando nella lotta tra Venezia e i Turchi, visse a lungo a Ferrara. Fu in amicizia con Bernardo Tasso, Girolamo Ruscelli, il Guarini, il Panigarola, il Montecatino. Uomo di vasta cultura letteraria, storica, musicale, filosofica, scientifica fu trattatista fecondo, dalla ricca bibliografia per la quale si rimanda al prezioso volume Istria e Dalmazia.[19] Autore di due innovativi dialoghi in italiano, genere fecondo all’epoca: Dialoghi della historia e Dialoghi della retorica, lo si ricorda qui anche per la Città felice (1553), imitazione della Repubblica di Platone e degli scritti politici di Aristotele e concepita sul modello del governo veneziano. Autore anche dei dialoghi dell’Amorosa Filosofia e della Nova Philosophia, come letterato partecipò a varie dispute di estetica e di poetica pronunciandosi sulla questione della fedeltà del Tasso epico ai principi aristotelici dell’imitazione, dell’unità d’azione, della coerenza e verosimiglianza dai quali si era allontanato l’Ariosto nel suo poema e per questo criticato. Richiesto da Leonardo Salviati, fece uscire il suo breve parere In difesa dell’Ariosto che così si conclude:
Chi queste cose riprende nel Furioso, non mostra aver pesato l’Iliade nè l’Odissea d’Omero. Il che piuttosto vorrei che se pesate si sono se ne mostrasse oblianza, per farsi calle all’accusa dell’Ariosto. Nè men si mostra di aver posto mente alla natura degli uomini, la quale fece palese in Filippo Macedone, in Demostene, in Demetrio Re, in Marc’Antonio, in Cesare, in Cicerone, in Ottaviano, in Nerone, quanto ella sia varia e quanto con niuna catena di necessità leghi ad un fermo stato nè le voglie nè i costumi umani… [20]
A leggere queste ultime battute ci si rende conto della cultura latina del nostro, della sua orgogliosa italianità e viva partecipazione alla civiltà letteraria della madre patria che intende celebrare con i propri scritti. Non per niente dedica il suo unico poema in versi, L’Eridano, a Ferrara e agli Estensi. Le dolorose e difficili sorti della città mutano in seguito al suo legame con Azzo d’Este:
Videsi quivi di letitia e di vin ebbro
Il Pado, di populee frondi e di saligne
Coronato, danzar a suon di carme; e gli altri
Fiumi, qual di cannuccia e qual di verdi giunchi
E qual di musco il capo ornato, a mano a mano
Con le ninfe menar festose danze allegri;
ma più degli altri, d’ambri e di coralli il petto
E il collo adorna, e di gentil diversi fiori
Coronata le tempie, al sposo sempre apresso
Seder l’alma Ferrara, o gir danzando a passi
Soavi e lenti e dolcemente ragionando.[21]
Il poema è scritto in un verso eroico di tredici sillabe e gli varrà, nell’Ottocento, l’attenzione del Carducci che lo ripubblicò nella Poesia barbara nei secoli XV e XVI.
1.4 Seicento e Settecento
In Dalmazia ha origine la tradizione romanzesca italiana, infatti nativo di Lesina é Gianfrancesco Biondi (1574-1645), famoso autore, ai suoi tempi, di tre romanzi fiume erotico-cavallereschi, i primi del genere nella letteratura italiana: L’Eromena in sei libri (Venezia, 1624), La donzella desterrada in tre libri (venezia, 1627), Il Coralbo incompiuto (Venezia, 1632).
Il XVII secolo traghetta la letteratura italiana dal Rinascimento umanistico al grande rinnovamento culturale scientifico e letterario dell’Illuminismo. Nel Seicento poetarono in italiano: Stefano Gradi (1613-1683), per lungo tempo prefetto della biblioteca Vaticana a Roma, fecondo scrittore sui più disparati argomenti e membro della prima Accademia d’Arcadia fondata da Cristina di Svezia, Ignazio di Nicolò Giorgi (1675-1737) e Bernardo Ragacci (1646-1719), entrambi ragusei.
Il Ragacci si ricorda qui in quanto autore della Pratica istruzione ossia l’uso emendato della lingua italiana, opera che costituisce un altro importante capitolo dell’attenzione con la quale la Dalmazia curò la lingua italiana; solo pochi anni dopo infatti, nel 1744, Giorgio Tomicich, pubblicherà a Venezia La critica perfezione della poesia italiana nella Dalmazia o sia la pulitezza del verso italiano e la critica e l’arte di perfettamente comporre il Sonetto, il Madrigale e la Canzone. Il manuale era dedicato al Cardinale Carlo Rezzonico e su di esso, nel Seminario di Spalato, studiò la metrica italiana Ugo Foscolo.
Tra i poeti latini si distinse, nel Seicento, Giovanni Luccari (1621-1709); trilingue fu Ignazio Giorgi (1673-1737), autore polemico e satirico, poeta galante in liriche italiane d’occasione e d’amore, dopo prove latine di commento ai Salmi e una Vita di san Benedetto. La critica è comunque concorde nel ritenere la sua produzione in slavo la più geniale e genuina.
In pieno Settecento, col fiorir dell’Arcadia, si assiste al rianimarsi della musa latina che in Dalmazia, più che nell’Italia d’oltre mare, ebbe fervidi cultori per tutto il secolo e non solo nelle opere scientifiche, nelle scritture ascetiche, teologiche o agiografiche ma anche nella poesia encomiastica, d’occasione, satirica, nelle memorie storiche e autobiografiche. Nativo di Zara nel 1728, morto a Spalato nel 1801 Nicolò Busotti, cappuccino col nome di padre Fedele, fu fecondo poeta latino, lasciò, fra altri scritti di vario genere, una raccolta di Carmina in quattro libri: Epistole ed Elegie, Epigrammi, Odi ed Inni. Li ispira una concezione al tempo stesso classica e illuministica di poesia trattata come otium e, al tempo stesso, come strumento didattico.[22]
Cordiale figura di poeta latino fu, nel XVIII secolo, Giorgio Ferich, autore didascalico, scrittore di favole su imitazione di Fedro per le quali traeva spunto da motti e proverbi slavi.
A Ragusa, sempre ricca d’ingegni, l’opera di Benedetto Stay (1714-1809) testimonia mirabilmente il fiorire della poesia filosofica, scientifica e didascalica e ancora la vitalità del latino, così fresco e terso nei suoi poemi da essere egli passato alla storia letteraria come il Lucrezio raguseo. Lo stesso vale per Ruggero Boscovich (1711-1787), suo conterraneo ed amico, matematico ed astronomo. Il Boscovich fu tra i fondatori dell’Osservatorio milanese di Brera, studioso di meccanica e di ottica, lo si ricorda tra i sommi esponenti della cultura illuministica della quale interpretò le istanze divulgative attraverso una duttile, chiara e precisa scrittura scientifica in lingua latina. Fu letterato oltre che scienziato e assecondò la propria vena poetica con componimenti in italiano. Tre furono le sue opere in prosa redatte in lingua italiana: Giornale di un viaggio da Costantinopoli in Polonia, Relazione delle rovine di Troia esistenti in faccia al Tènedo, Prospetto delle opere nuove matematiche, contenute in cinque tomi.[23]
A Ragusa, in casa di Marino Orsatto Sorgo, insieme allo Stay e al Boscovich, si riunivano altri letterati, gesuiti e allievi di gesuiti. Meritano di essere ricordati Raimondo Cunich, Bernardo Zamagna, cantore delle prime mongolfiere tra le quali la famosa macchina volante del padre Lana, Giunio Antonio Resti. Tutti ebbero stretti legami con la penisola italiana dove vissero in rapporto d’amicizia con i nostri letterati, in condivisione d’esperienze di ricerca, studio e confronto critico secondo le contemporanee abitudini e tendenze culturali illuministiche orientate alla speculazione e all’indagine scientifica piuttosto che alla poesia. Famoso grecista fu il Cunich, traduttore degli idillidi Teocrito, autore di elegie e di epigrammi sui temi classici della poesia edificante; va ricordato soprattutto per un’elegante versione dell’Iliade in esametri latini. Destinatari di alcuni suoi epigrammi latini sono nomi conosciuti della letteratura italiana settecentesca: Metastasio, Pindemonte, Alfieri, Monti. Un epigramma è indirizzato ai detrattori delle tragedie alfieriane che parlano, dice il Cunich, per pura invidia e non ottengono altro che l’effetto contrario a quello che cercano:
Lividuli carpunt tua carmina: nunc mihi demum,
Victori, vates diceris eximius.
Multa etenim dicunt , possunt nec dicere quidquam,
Approbet auditum candida quod Ratio;
Quod non contemnat, non prorsum despuat, ortum
Nec sciat ex animo futile lividulo.
Sic utinam semper carpant tua carmina, teque
Ornent, dum cupiunt laedere lividuli![24]
Concludo la mia stringatissima rassegna leggendo dai versi di Giunio Antonio Resti (1755-1814). Agli amici peregrinanti in contrade patrie, questo il titolo del componimento, egli si rivolge con amabile apprensione da innamorato:
L’isola come vi parve di Meleda? Come vi parve
Lagosta? Come lo scorrer dei mari tra opposti imbocchi?
Come d’agresti la prisca repubblica?
Questo arguto autore di satire sul modello oraziano, nelle quali rievoca i vivaci incontri in casa Orsatto Sorgo, polemizza con gli ambiziosi concittadini disonesti, si scaglia contro Napoleone, dichiara il suo amor patrio e canta, appena gli si offre l’occasione, la bellezza delle contrade ragusee interpretando i più vivi sentimenti di molti scrittori dalmati fortemente legati alla propria terra ovunque fossero peregrinanti, per ragioni culturali, nel momento del più vivace cosmopolitismo settecentesco.
2. LETTERATURA DALMATA ITALIANA FRA OTTOCENTO E NOVECENTO
2.1 Premessa
Il passaggio di Napoleone, la caduta delle due centenarie Repubbliche adriatiche, di Ragusa e di Venezia, e la successiva dominazione austriaca non furono senza conseguenze per la società, la cultura e la letteratura della Dalmazia. Nel confrontare la produzione letteraria dell’Ottocento con quella dei secoli precedenti balza per esempio agli occhi la straordinaria riduzione del peso di una Ragusa che ha perso non soltanto la libertà, ma anche la floridità, la flotta e buona parte della popolazione.
Passano pochi decenni e le guerre d’indipendenza italiana inducono l’Impero Austroungarico a una politica adriatica di repressione della componente italiana a favore di quella slava, ritenuta meno pericolosa; la separazione politica da Venezia nel 1866 e la nascita del nazionalismo slavo peggiorano la situazione, e lo testimonia il fatto che i dalmati italiani tendono a privilegiare nei loro scritti i temi storico-politici in chiave irredentista o autonomista.
Tutto ciò contribuisce a rompere l’unità culturale del popolo dalmata, vissuto per secoli usando il veneto come lingua franca (aveva in buona parte del Mediterraneo la funzione dell’inglese oggi), il latino e poi l’italiano come lingua colta, il dialetto locale, quasi sempre mistilingue, come lingua materna. Non è un caso che persino i primi giornali nazionalisti serbo-croati siano scritti in italiano, per garantirne la diffusione.
La convivenza stabilitasi nei secoli fra genti latine e slave dopo una prima fase bellicosa viene messa in crisi dai nazionalismi e sostituita da una lotta sempre più aperta che costringe gli italiani ad abbandonare le posizioni gradualmente già nell’Ottocento (secolo durante il quale il controllo politico dei comuni passa in pochi anni dagli italiani agli slavi – tutti i comuni tranne Zara che rimane saldamente italiana fino al 1944). Nel Novecento con l’assegnazione dopo la prima guerra mondiale di larga parte della Dalmazia al Regno di Serbia, Croazia, Slovenia, divenuto poi di Jugoslavia, e con la persecuzione degli italiani rimasti si ha un rilevante esodo della popolazione italiana verso l’altra sponda dell’Adriatico o verso gli ultimi baluardi italiani in Dalmazia: Zara, Cherso e Lussino. Questi centri riescono a sopravvivere e a produrre cultura e letteratura, traendo linfa sia dalla secolare tradizione sia dal ricongiungimento alla madre patria, nonostante le difficoltà derivanti dalla novità dell’isolamento rispetto al resto della Dalmazia.
L’effimera annessione di quasi tutta la Dalmazia al Regno d’Italia fra il 1941 e il 1943 da momento di entusiasmo si traduce in canto del cigno per la ormai minoranza italiana, dal ’44 in poi costretta dalla violenza (i bombardamenti di Zara e la “pulizia etnica” pianificata ed eseguita in più riprese dai seguaci di Tito) a un esodo quasi totale[25].
Dopo di allora scompare quasi del tutto la letteratura italiana in Dalmazia, mentre una letteratura dalmata in dialetto o in lingua italiana sopravvive in Italia e nei cento luoghi in cui la diaspora ha condotto le genti istriane fiumane e dalmate, spazzate via dalla propria terra.
2.2 La letteratura dalmata nell’Ottocento
Continua marginalmente nell’Ottocento la tradizione di fare letteratura in latino, ed è il caso dei ragusei Giorgio Ferich, Antonio Chersa, Urbano Appendini e Luca Stulli, o di far da ponte fra la cultura italiana e quella slava, traducendo o componendo nelle due lingue, come fecero alcuni poeti sebenzani: i coniugi Marc’Antonio e Anna Vidovich e Ferdinando de Pellegrini[26]. In posizione intermedia si colloca Francesco Maria Appendini, raguseo, fratello di Urbano, critico, memorialista ed erudito, autore anche di Sermoni in latino e di studi slavistici. Versi in latino scrisse pure Roberto de Visiani di Sebenico, noto come botanico, ma anche umanista e critico letterario.
Dalla composizione di versi latini mosse i primi passi anche il maggior esponente della cultura dalmata dell’Ottocento Niccolò Tommaseo, nato a Sebenico nel 1802. La sua notorietà è troppo grande perché gli si dedichi uno spazio proporzionato. Basta accennare alla sua versatilità per cui viene ricordato come linguista, critico, giornalista, poeta, romanziere, trattatista, trascrittore di testi popolari, fra i quali i Canti del popolo dalmata, testimonianza di un legame con la propria terra, mai spento, nonostante una vita adulta spesa prevalentemente altrove: nel Veneto, in Lombardia, in Toscana e in Francia, tutti luoghi in cui Tommaseo s’inserì nel contesto culturale lasciando segni indelebili. Quasi tutta la sua sterminata produzione letteraria e il suo epistolario sono in italiano; pubblicò anche in francese e in neogreco; per un omaggio alla fratellanza dei popoli, nel dialetto degli slavi di Dalmazia compose, con l’aiuto e le correzioni di un amico, una trentina di prosette, Iskrice (Scintille). Tanto è bastato per alcuni tentativi croati di appropriazione, giunti ben dopo che il monumento a Tommaseo eretto a Sebenico era stato fatto saltare in aria per cancellare un segno di italianità.
Alla Dalmazia s’intitola pure una delle Poesie uscite per Le Monnier di Firenze (1872):
Spregio o pietate alle superbe genti,
O poveretta mia, suona il tuo nome,
Siccome il braccio che, da corpo vivo,
Mezzo reciso, dolorosa noia,
Spenzola, in te così la vita altrui
Scarsa, o Dalmazia, e con dolor s’infonde
Serbica e Turca, ed Itala e Francese,
Né ben d’altrui né tua ben fosti mai;
Patria viva non ha chi di te nacque.
Ma se non mente al mio doglioso affetto
Il ciel sereno […]
Vedrai, sincera mia, stagion più lieta.
[…]
Né più tra il monte e il mar povero lembo
Di terra e poche ignude isole sparte,
O patria mia sarai; ma la rinata
Serbia (guerriera mano, e mite spirto),
E quanti campi, all’italo sorriso
Nati, impaluda l’ottoman letargo,
Teco una vita ed un voler faranno,
E darann’entro alle tue vene stanche
Vigor novello. E tu, porgendo fida
La destra a Italia, ad Ellade la manca,
In sacre le unirai danze ed amplessi.
Circa negli stessi anni godè di ragguardevole notorietà lo zaratino Pier Alessandro Paravia (1797-1857), critico della letteratura italiana e straniera, poeta, memorialista e traduttore. Formatosi a Venezia e a Padova, si realizzò a Torino come professore di eloquenza e ricoprendo, per nomina regia, alti incarichi culturali; mai dimenticò la propria città d’origine cui donò la propria cospicua raccolta di libri, che formò la base dell’importante Biblioteca Paravia di Zara[27]. I suoi scritti critici furono molto apprezzati; la sua produzione letteraria risente di toni ancora settecenteschi, come si può notare in questi versi amorosi:
DOCUMENTO DI AMORE
Per questo la gente
Beato mi dice,
Che al fianco di Nice
Assiduo mi sto.
Ma chi del mio stato
Tal move parola,
D’amore la scola
Non mai visitò.
Sovente chi a Nice
Da presso non siede
Di Nice possiede
La parte miglior.
E spesso chi a Nice
Dimora da canto,
Lontano, ma quanto!
Le resta dal cor.[28]
Nel campo della critica letteraria si segnalano nell’Ottocento i dantisti Donato Fabianich di Pago e Antonio Lubin di Traù, lo zaratino Giuseppe Ferrari Cupilli, Matteo Ivcevich di Traù, Giuseppe Ciobarnich di Macarsca e gli spalatini Giorgio Politeo, più noto per gli studi filosofici, e Stefano Ivacich che scrisse Dell’educazione letteraria.
Autore di romanzi ambientati in Dalmazia è Marco Casotti[29] di Traù; scrissero versi in italiano Spiridione Carrara di Traù, lo spalatino Nicolò Giaxich e Luigi Pavissich di Macarsca. Lo spalatino Francesco Carrara, archeologo e memorialista, trascrisse Canti del popolo dalmato. Al teatro si dedicarono il sebenzano Bonaventura Vidovich, i librettisti zaratini Giovanni Albinoni Kreglianovich e lo spalatino Giulio Solitro. Lo zaratino Luigi Fichert vide un proprio poemetto, La madre slava, trasformato in libretto e musicato da Nicolò de Stermich, ma scrisse anche romanzi e poesie; fra queste cito da una satira, Emancipate, che risente dell’insegnamento pariniano:
Emancipata!!
Così una nuova teoria risuona
Nel progredito mondo, e già s’atteggia
A legge socïal, che i dritti sacri
Della donna rivendica.
Gli è un dono
Che la figliuola America tributa
Riconoscente alla materna Europa. –
De’ fiumi sterminati, in mezzo a tanto
Rigoglio di natura, la sovrana
Idea sbocciò tra le fragranti droghe
Del Maryland, e qui giunse tra noi,
Recata a vol sui variopinti vanni
Dei pappagalli.
Oh dal tuo lungo sonno,
Antichissima madre Eva, qual nuovo
Parossismo d’amor oggi ti desta
Nella riscossa di codeste tue
Battagliere nepoti!
Glorïoso
Sventola all’aure attonite il vessillo
Della libera donna, in sull’eccelse
Babèli.[30]
Questi pochi cenni permettono di notare come la letteratura abbia trovato adepti non soltanto nei centri maggiori, ma un po’ in tutta la Dalmazia, segno indubbio di una vitalità linguistica diffusa. Tale caratteristica viene solo in parte confermata nei decenni seguenti, a cavallo fra Otto e Novecento.
2.3 Tra Otto e Novecento
Di questo periodo l’ingegno più vivace fu Arturo Colautti, nato a Zara nel 1851, giornalista di valore; esule in Italia per ragioni politiche, giunse a dirigere il «Corriere del Mattino», prestigioso giornale del sud, restando sempre politicamente scomodo. Per l’attività letteraria ottenne riconoscimenti anche in Germania e in Inghilterra: scrisse quattro romanzi: Fidelia, Il figlio, Nihil e Primadonna, cinque raccolte di poesiae una decina fra drammi lirici e vari scritti teatrali; conobbe un grande successo con il libretto Adriana Lecouvreur, rappresentato al Lirico di Milano, direttore il maestro Cilea. La narrativa appare oggi la parte meno caduca dell’opera colauttiana: i romanzi riflettono la sua competenza giornalistica e la conoscenza diretta di tutta l’Italia, specialmente della provincia, frequentata grazie al professionale girovagare e alle battaglie politiche: indubbio valore documentario hanno le descrizioni di torbide vicende elettorali. Ma il motivo tematico prevalente dei suoi romanzi e presente nella produzione in versi e teatrale, è quello dell’amore e della donna: al privato tormento di un matrimonio sbagliato corrisponde un’attrazione verso la donna trasgressiva,
non la sposa, la madre, la compagna, l’educatrice, l’infermiera, la cuoca; ma la donna infeconda, la donna multipla, la donna onnivaga, la donna superflua, la donna inevitabile, la donna disastrosa, la donna Divertente[31].
Analogamente nei Canti virili sono reinterpretate illustri donne dell’antichità; di Eva così Colautti riscrive la storia:
Mendace è il Libro: io credo fermamente
che con l’inganno del natìo candore,
onde la terra abbrividì d’amore,
da te sedotto fosse il bel Serpente.
Non del semplice Adamo, che temea
d’un frutice il savor, ma del Ribelle
la migrante noi siam cupida prole:
Eva il desìo di tutte le cose belle
ne porse e il genio delle dolci fole:
Satana il dubio e la superbia rea.[32]
Un altro sonetto si apre con l’immagine di Menelao che cerca Elena nel giorno della caduta di Troia per compiere la propria vendetta, ma…
Ritta sul sommo della incesa rôcca,
il glorioso sen concesso al vento,
la bellissima sta contro la Sorte.
S’arresta il truce, a quel candor, sgomento;
ed obliando degli eroi la morte,
non la spada v’immerge, ma la bocca.[33]
Fra i poeti del periodo brilla per popolarità lo zaratino Giuseppe Sabalich, studioso e autore di numerose opere fra storia e folclore, ma noto soprattutto per la canzonetta El Sì. Per far capire che cosa fu questa canzone cito da un ricordo di Marco Perlini:
il Sì in quei primi anni della redenzione sgorgava spontaneo, trionfale e festoso dalle bocche dei dalmati tutti ed echeggiava più volte al giorno nei cortei, nei ritrovi, nelle piazze, nei caffè senza che mai il popolo si stancasse di cantare le elettrizzanti strofe; […] cantato con pericolo e sottovoce anche durante la guerra, eruppe dai petti nel novembre del ’18 e riempì di sè ogni giorno e ogni ora di quegli anni di gioie, di speranze e di delusioni […]. Quella canzone era tanto connaturata nel popolo di Zara, che a noi ragazzi non sembrava nata da uno solo e forse allora non pensavamo, come lo pensiamo ora, che Giuseppe Sabalich aveva personificato l’anima popolare in un’epoca eroica di tutta una città.[34]
Ecco le prime strofe di questa canzone cantata ancora con viva commozione dagli esuli dalmati nei loro raduni:
Do basi ‘chi trova
parola più bela
più dolce de quela
che a mi m’à imparà
da picolo el santolo
la nona, mia mare,
el nono, mio pare,
e’l barba soldà.
Scolteme ‘mi,
scolteme ‘mi,
no val le ciacole,
ghe vol el sì!
Ocio fradei,
za me capì,
restemo quei,
gente del sì!
Se’l sì, in te le case
se vede stampado,
sto sì i l’à trovado,
nel vecio abecè…
Se i frati e le muneghe
lo parla in convento
dal mile e dosento
vol dir che’l ghe xe![35]
Del Sì esistono numerose varianti, come è giusto per una vera canzone popolare; ogni città della Dalmazia ha trovato il modo di inserirvi una propria gloria; a Sebenico si cantava così:
e che i beva pur aseo
nela patria de Tomaseo
no se parla che italian.
A Zara:
e che i fazi pur la spia
nela patria de Paravia
non se parla che italian.
A Trieste si cantava con Rossetti al posto di Paravia e la rima costruita con «dispeti» al posto di «la spia».[36]
Raccoglitore di tradizioni e forme popolari oltre che poeta fu anche Luigi Bauch nativo di Sebenico, ma vissuto in prevalenza a Zara; El mulo zaratin, una canzonetta in dialetto, fu la sua composizione più fortunata, di taglio popolare e degna testimonianza dei suoi interessi etnografici:
I ne ciama mularia
perché scarpe no gavemo,
perché in strada sempre semo,
far i pugni e bestemiar.
Ma no i sa che senza n’altri
per le strade no saria
gnanca un poco d’alegria
gnanca un poco de morbin.
[…]
Semo muli, sì, xe vero,
disperai ma cantarini,
semo veri zaratini,
senza braghe ma morbin,
Quando xe stagion de fighi,
assai pochi li compremo,
che se i fighi no sgrafemo,
gnanca dolzi no ‘i ne par.[37]
Temi patriottici o di esaltazione della propria terra accomunano altre voci poetiche di questi anni. Così lo spalatino Gerolamo Italo Boxis canta in terzine dantesche i martiri di Belfiore[38]; Arturo Bellotti, anch’egli di Spalato, autore di drammi, libretti d’opera, novelle e poesie canta nel 1896 la sua Dalmazia:
Laggiù…. laggiù!… passato il rio Quarnero,
Lungo l’Adriaca spiaggia e le distese
Creste azzurre di monti – il mio pensiero
Vola sovente in grembo al mio paese.
Non è che sassi…. è ver!… che sassi bianchi,
Qualche casetta candida che in mare
Rispecchia al fondo i delicati fianchi,
Come donzella ch’ha desio d’amare.
La lirica continua con riferimenti a Foscolo, «ch’ivi fu educato», e a Tommaseo che dall’alto del suo monumento «muto par la guerra stia mirando / Che tra’ fratelli suoi regna infelice» e termina con una dichiarazione:
T’amo, o Dalmazia mia, t’amo!…. epur chiedi
Stilla per stilla tutto il sangue mio,
Per te morir mi fosse! […][39]
Mentre era in un campo di concentramento austriaco, dove poi morì, nel 1917 scrisse Il canto della Redenzione. Uscito postumo, appare il sogno di una vittoria ormai imminente, cantato con diffusione e con l’entusiasmo generato da lunga attesa. Lo si può forse sintetizzare con questa citazione:
Brillino al sole tutte le bandiere!
Quelle che nel dolore conservammo,
quelle che nelle lotte difendemmo
quelle che nel silenzio venerammo
e quelle che nel pianto nascondemmo,
quelle che custodimmo nel terrore
sfidando le tempeste,
odiando l’oppressore.[40]
Pax tibi Marce è il titolo di una lirica di Antonio Cippico, indubbio segno di rimpianto del tempo in cui la Dalmazia era parte della Serenissima; per le città d’oltre Adriatico il sogno di rinascita può accompagnarsi al simbolo dello storico leone, sulle cui effigi di pietra non a caso si sono accaniti poi gli slavi:
E Zara, l’invitto naviglio
De la glorïosa carena?
– Aspetta nei dì del periglio,
Che tu le sia rostro e polena!
Traù. la merlata? E la scolta
Penultima d’Adria, Perasto?
– Nel sogno de l’antico fasto,
Ti attendono ancora una volta![41]
Cippico, nato a Zara, oltre che poeta fu critico, giornalista e per molti anni docente di Letteratura italiana all’Università di Londra; divenne anche Senatore del Regno e ricoprì incarichi istituzionali e di rappresentanza internazionale dell’Italia. Nel 1902 a Zara, presso l’editore Schönfeld, aveva pubblicato la raccolta di versi Aspettando l’aurora, dal titolo allusivo a un tema, quello risorgimentale, per il resto d’Italia superato, ma per le terre irredente di scottante attualità. Molti di questi versi si segnalano per la loro modernità: ne cito alcuni che contengono un espressione onomatopeica e si presentano in forme ambigue tipiche di più maturo Novecento:
Crac. L’acqua passa e si confonde a ‘l Mare.
Scoppietta e smuore l’ultima scintilla
ne i lacunari de ‘l gran cuore, in calma.
Alia ne l’ombra un’Ombra – un sogno o l’alma? –
Luce prona la palma, e la pupilla
sotto la esangue palpebra dispare.
Crac. L’acqua muglia e si confonde a ‘l Mare.[42]
Sempre in questo periodo fra Otto e Novecento hanno contribuito alla letteratura dalmata anche altri scrittori; segnalo qui lo spalatino Arnolfo Bacotich, memorialista e poligrafo, Giacomo Marcocchia di Signo, storico e critico, gli zaratini Giuseppe de Bersa, storico dell’arte e poeta, Pietro Kasandri?, poeta e storico del giornalismo, Giuseppe Modrich, storico e narratore, il critico Angelo Nani, il poeta Virgilio Pavanello e Riccardo Forster, giornalista e poligrafo, costretto sin da giovane ad abbandonare la Dalmazia e a rifugiarsi in Italia, raccoglitore di Fiabe popolari dalmate[43].
2.4 Gli scrittori della diaspora
Si giunge così alla generazione di coloro che riuscirono a vedere la fine della prima guerra mondiale, a vivere per circa un quarto di secolo congiunti alla madre patria, se a Zara o nelle isole redente, o a provare prima degli altri l’esilio dopo l’assegnazione del resto della Dalmazia al Regno SHS. In entrambi i casi con la fine della seconda guerra mondiale divennero quasi tutti esuli, chi in Patria e chi altrove, anche molto lontano, nelle Americhe o in Australia.
Ciò che accomuna quasi tutti è il desiderio di testimoniare il dramma della propria terra; per questo si assiste con gli anni a un intensificarsi della produzione memorialistica e critica. Forse alcuni mai sarebbero divenuti scrittori se la violenza degli eventi non li avesse obbligati a lasciare una traccia, per sè stessi e per la propria gente.
Nella vasta categoria dei poligrafi, attivi fra memorialistica, saggistica e giornalismo, si citano qui gli zaratini Antonio Verdus-Just, Luigi Stefani, Marco Perlini, Carlo Schreiner, Nerino Rismondo, Vanni Tacconi, Beppo Marussi, Tullio Bressan, Arrigo Zink e Tullio Vallery, gli spalatini Ildebrando Tacconi e Luciano Morpurgo, i sebenzani Manlio Cace e Tullio Covacev, i chersini Antonio e Jacopo Cella e Gianna Duda Marinelli (nata a Trieste da genitori chersini), i paghesani Silvano Drago e Germano Palcich-Paoli, Flaminio Rocchi di Neresine, Elsa Bragato di Lussinpiccolo e Vincenzo Trojanis di Curzola. Naturalmente ognuno seguì la propria inclinazione. Così Sereno Detoni di Zara si è dedicato fra l’altro a raccogliere i Proverbi della Dalmazia[44]; Marco Fillini ha trascritto canzoni e proverbi della sua Cherso.
Un taglio tutto particolare hanno le pubblicazioni dei professori Mirco Deanovich, raguseo, che spese la propria vita a insegnare la letteratura italiana all’Università di Zagabria, Arturo Cronia, zaratino, che insegnò il serbo-croato nelle università italiane, ed Eugenio Dario Rustia-Traine, di Sebenico, slavista all’Università di Trieste oltre che poeta. Di analogo interesse sono gli studi dello storico e critico Giuseppe Praga, di Ugliano. Il grande linguista e filologo zaratino Aldo Duro ha trovato il modo di comprendere fra i suoi studi il dalmatico[45], lingua romanza parlata in Dalmazia finché fu gradualmente soppiantata dal veneto.
Altrimenti mostra di non aver dimenticato le proprie origini l’aeropittore futurista Tullio Crali, nato a Igalo, che nel 1983 inserisce nel volume Parole nello spazio[46]questa tavola parolibera:
Diversi narratori hanno fatto rivivere il loro mondo perduto nei propri racconti: Nico Ledwinca di Zara, Mario Coglievina di Cherso e Guido Perale. Certamente più note sono le opere dello spalatino Enzo Bettiza. Giornalista e politico oltre che romanziere, facendo un po’ tutti questi mestieri insieme, scrisse il romanzo I fantasmi di Mosca, nel quale trova il modo di raccontare della propria terra e di dare un’interpretazione di essa, della sua gente e della recente tragedia:
Mi pare di aver già accennato all’Illiria, terra marina, rocciosa e meticcia dove, figlio unico, nacqui settimino il 7 luglio del 1897. Ma molti, ancora oggi, quando io tento, con una punta di malinconico orgoglio, di descrivere il paesaggio grigioverdastro, scorticato, quasi lunare, sul quale i miei occhi si aprirono per la prima volta quarantaquattro anni orsono, mi domandano incuriositi e ignari: dov’è questa tua Illiria?, esiste davvero quest’Illiria oppure è soltanto un parto della tua fantasia?
Tanta vaga ignoranza e quasi incredulità si spiegano bene. L’Illiria esiste. Ma è esistita così intensamente, si è aggrovigliata di storie così opposte, è trasmigrata così spesso con la sua gente nomade e poliglotta da un impero all’altro da perdere, alla fine, la bussola della propria identità, consegnata generosamente agli altri e negata schizofrenicamente a se stessa. L’Illiria […] ha fornito legionari e imperatori ai romani, santi peccaminosi ai cristiani, vescovi arroganti alle plebi dei Balcani, viaggiatori ai veneziani e governatori ai cinesi, ciurme bellicose alle piraterie adriatiche, ammiragli impalatori ai turchi, capitani di lungo corso agli austriaci, capi risorgimentali agli jugoslavi, scrittori bilingui agli italiani e ai croati […]. Essa è stata la negazione delle nazioni chiuse. Meglio: è stata una prenazione aperta, imperfetta ma fertile, una nebulosa incandescente, pregna d’energia, che ha turbinato di qua e di là per il cosmo eurasiatico senza rapprendersi mai sulle scogliere di casa […] Gli illiri amavano, in maniera quasi spudorata, l’informe e detestavano ogni sorta di limiti costrittivi. Inclinavano al misticismo, mai al moralismo. Perfino la loro sfrenata golosità erotica era, non a caso, di fondo religioso. I grandi anacoreti e padri della Chiesa illiri non esorcizzavano stupidamente il peccato; tendevano semmai ad attraversarlo, a guardarlo dritto negli occhi […] La si accetti o no, essa è stata la vicenda esemplare, unica in Europa, di una generosità imprudente che ha finito col produrre, per eccesso di vitalità e versatilità sovrannazionale, il suicidio di una misteriosa nazione incompiuta[47].
Hanno frequentato sia la narrativa sia la poesia Sisinio Zuech di Cherso e Raffaele Cecconi di Zara. Zuech fa rivivere nel romanzo Il custode del faro un mondo fra terra e mare che certamente allude alla sua isola, della quale rifiorisce il dialetto nei dialoghi, come questo un po’ irriverente, di un padre con il proprio figlio, «bravissimo mozzo», ma poco predisposto a farsi istruire:
– Quanto fa zero più sette zeri?
– Spetè, pare, che penso, e si mise il dito sulla sella del naso.
– Perché tieni il dito sul naso?
– Perché el xe più vizin al zervel, e, per ‘ste robe, ghe vol testa. Dunque zero più sette zeri fa…fa…fa… Settanta milioni.
– No! Zero più sette zeri no fa proprio gnente.
– Vedemo adesso se ti te ricordi qualche cossa de religion.
– Chi xe Dio?
Aliseo rispose tutto d’un fato: Dio xe meso Pare, meso Colombo e meso Fio.
– Questo poderia esser, se mai, el Dogma dela Santissima Trinità.
– Va, va, sempio! Replicò deluso il padre. Va! Testa del legno![48]
Personaggio vario e interessante, Raffaele Cecconi, zaratino riparato a Venezia dove ancora vive e scrive, è autore di racconti autobiografici, resoconti dei suoi straordinari e avventurosi viaggi in luoghi remoti, riflessioni e poesie; alla raccolta D… come Dalmata. Poesie nel dialeto de Zara[49], fornita anche di dizionarietto e di una nota tecnica di Aldo Duro, appartiene La sciarpa:
Penso a ‘sto dialetto
che xe come una sciarpa morbida
el xe proprio come un sciale
e più che t’inveci
più ti lo tien streto
per scaldarte i ossi e l’anima.
Penso a ‘sto dialetto
che xe come la pele tacada al corpo
qualcosa che respira con ti
e con ti more.
Folta è la schiera di coloro che hanno affidato ai versi il ricordo della Dalmazia e del tragico esodo. Antonio De Micheli di Sebenico dedica alla Dalmazia un poemetto, I segni dell’Apocalisse[50], cui affida le proprie inquietudini per la perdita di valori e in cui lamenta le proprie sventure di esule. Aquileia. Canti delle terre perdute istriane e dalmate[51] è il titolo di una raccolta di Mario Mari; vi si legge della Riva Nova di «Zara ventosa nei dì d’aprile», di Ugliano della quale «eran crude, stagliate nel cielo / azzurro / le colline d’oltremare», di Lussino, «Isola luminosa di cielo e di mare». Lo spalatino Luigi Miotto, docente universitario di psicologia, fonde il dramma dei profughi con altre tragedie del Novecento:
IL NOSTRO TEMPO
Questo è lo stesso sole
sorto sopra il ghetto di Varsavia
il campo di Auswitz
le case di Marzabotto
il fucile che prendeva la mira
il cappio che stringeva
la sferza che si snodava
è sempre lo stesso sole
a risplendere sull’autostrada
dove noi che tutto abbiamo visto
e tutto dimenticato
corriamo felici
con la donna
che ci sorride al fianco[52]
Nata a Zara ed esule prima e Rimini e poi a Pesaro, Caterina Felici ha preferito nelle sue poesie cantare la vita, le sue ragioni e perdersi «tra visioni del passato / e del futuro»[53]
Una varia e folta produzione letteraria testimonia anche la sopravvivenza del dialetto nella parlata degli esuli dalmati. Oltre al già citato Cecconi, si ricordano qui innanzi tutto il chersino Aldo Policek de Pitor e la sua raccolta Poesie chersine: nella lirica Colori propone un accostamento fra i propri versi e un policromo mazzo di fiori vari e di altri colori della sua isola, per concludere galantemente:
Gho fato un bochè,
una vera beleza!
Par ti lo go fato, o dona chersina,
ti madre
sorela
ti sposa e regina.[54]
Nella poesia El parangal assimila l’attività del pescare, tipica della natia Cherso, alla propria vita:
So nato. Qualchedun ga calado
sto parangal che xe la vita mia.
Adesso salpo i ami, uno par uno,
senza saver quanti che ancora sia
quei che me resta de tirar a bordo.
E la casseta xe sempre più piena
de ami cu le iesche consumade:
son stanco e sento che me diol la schena,
drio el moto non me manca miga tanto
par tirar suso, tuto el parangal;
do, tre bragule, chi sa, forsi diese
e po’ salparò l’ultimo segnal.[55]
L’avvocato zaratino Silvio Crechici ha una vena poetica delicata e attenta agli affetti familiari; ma anche in una tenera ninna nanna vernacolare emergono certi brutti ricordi della natia città bombardata e incendiata:
NINA NANA ZARATINA
Dormi, dormi fantolin
[…]
Xe passà quel bruto giorno
Co dal mar una galera
E i canoni da la tera
Dopo averne bombardà
Ne inzendiava la zità.
Per le mure sue sguarnide
Ai sposini Amor ‘ghe ride,
Xe stà là che t’ho pensà
Cussì bel col tuo papà.[56]
In lingua italiana ha invece preferito comporre i suoi versi pieni di nostalgia lo spalatino Renato Seveglievich.
Fra i pochissimi italiani rimasti in Dalmazia e sopravvissuti nonostante tutto si segnala Giovanni Parach, spalatino, riuscito a resistere sia nella Jugoslavia fra le due guerre, sia dopo la seconda guerra mondiale, continuando a scrivere soprattutto poesie in italiano, alcune delle quali tradusse poi in croato.
Dare un’informazione completa sulla letteratura Dalmata in esilio è impresa quasi impossibile, dato che la migrazione forzata ha preso direzioni molto varie e la distanza stessa è un ostacolo; inoltre soltanto alcuni autori sono segnalati in repertori e pubblicazioni; di altri si riesce magari a conoscere l’esistenza, ma non è semplice ricostruire il legame con le origini. Si pone tra l’altro il problema dell’appartenenza: se è facile attribuire alla letteratura dalmata in esilio uno scrittore vissuto a Zara o a Spalato, più sottile diviene il legame per chi vi è soltanto nato o poco più, come Luigi Surdich, nato a Cherso nel ’46, professore di letteratura italiana a Genova, o il sottoscritto, nato da genitori zaratini riparati a Trieste, che pure si sente di appartenere alla letteratura dalmata in esilio e ancora sa parlare il dialetto. Di Surdich è stato ristampato su «Comunità chersina», aprile 2005, un suo articolo scritto per «Resine. Quaderni liguri di cultura», n.99-100, intitolato Cherso, l’isola che c’è, un saggio di critica naturalmente, ma anche una testimonianza di vita e di affetti.
È noto di esuli in Canada i cui figli parlano inglese o francese fuori casa, ma in dialetto in famiglia, riuscendo a volte a farlo parlare anche al marito, più raramente alla moglie; non è detto che qualcuno di loro si metta a fare lo scrittore, ma se lo farà è probabile che si riconoscano ancora in loro i tratti di una letteratura che ormai raramente si troverà nella terra d’origine. In ogni caso il passare delle generazioni renderà questo sempre più difficile, anche se il compianto umanista Giuseppe Billanovich, durante un colloquio personale accennò al suo nonno (o bisnonno) di Traù e concluse proclamandosi orgogliosamente «dalmata, come San Girolamo».
Il rischio che questo patrimonio di cultura e d’italianità finisca è tuttavia concreto e appare doveroso segnalare l’opportunità e l’urgenza di studi sistematici per salvare la documentazione di questa parte di cultura italiana sopravvissuta per millenni sulla sponda orientale dell’Adriatico e ora dispersa. A tal fine si segnala che in questi sessant’anni sono esistiti e in parte esistono ancora delle pubblicazioni periodiche dei dalmati in esilio: soprattutto nei primi anni la povertà della carta e dei mezzi di stampa testimoniano le condizioni di gente che tutto ha dovuto lasciare; ma non mancano riviste culturali di peso e importanza, accanto a bollettini di provenienti da singole città o isole, o a giornaletti di organizzazioni aperte a profughi fiumani e istriani. Per questi giornaletti la componente letteraria è marginale: per lo più si parla delle poche provvidenze per i profughi e delle molte promesse e speranze; dell’attività sociale, della raccolta di fondi, dei rapporti fra persone e associazioni, delle attività dei conterranei lontani (anche di altri continenti); ma non manca quasi mai un contributo letterario: una poesia, un proverbio, un racconto, una memoria o un breve saggio su autori del passato. Le riviste possono essere d’interesse storico o letterario e artistico; i giornaletti anche di interesse sociologico o antropologico. In ogni caso un inventario della letteratura dalmata in esilio non potrà prescindere da queste fonti.
In conclusione quindi ecco un piccolo elenco di testate dalmate (o giuliano-dalmate): tutte quelle, vive o estinte:
– riviste di taglio culturale: «La rivista dalmatica», «Scuola dalmata dei SS. Giorgio e Trifone», «Atti e memorie della Società dalmata di storia patria»
– periodici associativi e vari: «Difesa adriatica», «Il Dalmata», «L’Osservatore adriatico», «Coordinamento adriatico», «La Voce dei giuliano-dalmati a Brescia», «Zara», «Tra ieri e oggi», «Comunità chersina. Foglio dei chersini e dei loro amici», «L’Esule», «Istriani, Fiumani e Dalmati a Milano», «Bollettino d’informazioni del Centro studi adriatici», «El Boletin. Periodico informativo del Club giuliano-dalmato di Toronto», «Il Faro. Periodico dell’Associazione giuliani e dalmati» (North Bergen, U.S.A.)
Parallelamente sono nati in questi anni dei siti internet, collegati ai periodici o altri come www.arcipelagoadriatico.it e www.exilium.it.
*Formatosi a Trieste e poi a Milano, si è laureato in Lettere e perfezionato in Filologia Moderna all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nello stesso Ateneo è stato ricercatore, quindi associato di Storia della Critica ed è attualmente professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea, insegnamento professato anche nel Dottorato di Ricerca in Letteratura e storia dell’Europa moderna. È stato visiting professor a Princeton, Salamanca, Coimbra, Salonicco, Lovanio, Lisbona, New York e in diverse università italiane. È membro dell’Accademia d’Arcadia. Per nomina ministeriale è stato nel 2003-2004 Garante per la ricerca scientifica PRIN e nel 2005 membro del Comitato d’area del CIVR. Il 15 aprile 2008 è stato nominato Presidente del Comitato per l’Edizione Nazionale delle opere di Giuseppe Parini e nel maggio del 2008 ha ricevuto la nomina a Direttore del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica.
[1] Udine, Del Bianco, 1992.
[2] GIOTTO DAINELLI, Dalmazia.Il nome “Dalmazia”e la estensione che gli è stata data nel corso dei secoli, «La Rivista dalmatica», Roma, aprile- giugno 1982, pp. 81ss.
[3] È ben conosciuto dagli studiosi di letteratura italiana in Dalmazia il caso di appropriazione indebita di un grande italiano del Rinascimento: Francesco Patrizio Patrizi da Cherso. Si ricordi al riguardo l’articolo di Luigi Tomaz, Francesco Patrizio Patrizi da Cherso. Il grande falsificato («La rivista dalmatica», Roma, gennaio-marzo, 1998, pp. 4-30). Vi si parla anche di un monumento al Patrizi, ribattezzato, quanto al nome, in Franc Petri? Petriševi?; si tratta di una statua inaugurata a Cherso nel luglio del 1997. Comunque già nel 1768 il nostro Boscovich aveva motivo di lamentarsi presso il Firmian per un’errata sua identificazione onomastica sull’orario delle lezioni affisso all’Università di Pavia presso la quale insegnava come Lettore: vide scritto Roglerio Boscovik. Le rimostranze dello scienziato miravano a salvaguardare la sua appartenenza all’Italia e il Firmian molto opportunamente, a giro di posta, provvedeva a fare ristampare l’orario sottolineando che la notorietà del nome dell’italiano avrebbe dovuto essere garanzia di una sua corretta grafia. Si vedano anche GIACOMO SCOTTI, Della Bellezza e dell’Amore, in ID., Famiglie dalmate. La civiltà italiana nelle storie di personaggi poco noti, Mestre-Venezia, Grafiche Liberalato, 2003, p. 79 e ALBERTO MIELE, Marco Polo, falso mito croato, «La rivista dalmatica», luglio-settembre 1993, p.254. Queste brevi notizie do qui senza intenzioni polemiche, ma per rispetto alla verità storica salvaguardata, del resto, da studiosi agguerriti conoscitori del problema abbastanza complesso da presentare contraddizioni persino entro le espressioni di uno stesso critico croato quando s’interessa d’un autore dalmata italiano.
[4] ILDEBRANDO TACCONI, Contributo della Dalmazia alla vita e alla cultura italiana, in Atti e memorie della Società dalmata di storia patria, V, Roma, Società dalmata di storia patria, 1966, p. 80.
[5] GIUSEPPE PRAGA, Storia di Dalmazia, Padova, Cedam, 1954.
[6] Lessicografo recentemente scomparso e studioso dei fenomeni linguistici dalmati è lo zaratino Aldo Duro, direttore, tra l’altro, dal 1964 al 1972 del Vocabolario storico della lingua italiana per l’Accademia della Crusca. Nel primo decennio del Novecento studiarono il dalmatico medievale Costantino Jire?ek e Matteo Giulio Bartoli, preceduti nel Seicento dalle intuizioni dello storico Giovanni Lucio e, nell’Ottocento, dall’Ascoli e dal Brunelli. Una sintesi dell’opera del Bartoli si trova nell’articolo Due parole sul neolatino indigeno di Dalmazia, « La rivista dalmatica», Roma, gennaio-marzo, 1983, pp. 11-19. Per queste ed altre indicazioni bibliografiche si legga GIUSEPPE PRAGA, Testi volgari spalatini del Trecento, in Atti e memorie della Società dalmata di storia patria, II, Zara, Tipografia E. de Schönfeld, 1928.
[7] GIUSEPPE PRAGA, Testi volgari spalatini del Trecento, cit., pp.7-43.
[8] PIETRO FRASSICA, Reminiscenze dantesche nella «Raguseida» di Gian Mario Filelfo, in Atti del Convegno Dante e il mondo slavo, Zagabria, Academia scientiarum et artium slavorum meridionalium, 1984; ID., I Filelfo: due generazioni di umanisti, in Francesco Filelfo nel quinto centenario della morte, Padova, Antenore, 1981.
[9] GIACOMO SCOTTI, Marco Maruli? sotto una diversa luce. Il «Dante croato» (1450-1524 ) fu anche poeta italiano, « La rivista dalmatica», Roma, gennaio-marzo, 1997, pp. 12-13.
[10] Ivi, p.7.
[11] FRANCESCO SEMI-VANNI TACCONI, Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, Bologna, Del Bianco editore, 1992, p. 194.
[12] Canzone alla Vergine con la traduzione latina dell’umanista Marko Maruli?. Prefazione e nota di Giuseppe Frasso, Novara, Interlinea, 2003.
[13] CLAUDIO GRIGGIO, Sul codice torinese del Marulo, in Italia-Slavia tra Quattro e Cinquecento. Marko Maruli? umanista croato nel contesto storico-letterario dell’Italia e di Padova. Atti della giornata di studio tenutasi presso l’Università di Padova il 7 dicembre 2001, a cura di Luciana Borsetto, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004.
[14] Il saggio si legge in Rinascimento europeo e Rinascimento veneziano, a cura di Vittore Branca, Firenze, 1967.
[15] SAVINO DE BOBALI SORDO, Rime amorose pastorali e satire, Ragusa, Stamperia di Carlo Antonio Occhi, 1783, p. 1.
[16] Questo sonetto del Ragnina fu pubblicato, insieme con gli altri dell’autore, in Rime scelte da diversi eccellenti autori, Venezia, Gabriel Gioliti de’ Ferrari, 1563, ora lo si legge in GIACOMO SCOTTI, Famiglie dalmate, cit., p. 143.
[17] GIACOMO SCOTTI, Famiglie dalmate, cit., pp. 62-82.
[18] SANTE GRACIOTTI, Il petrarchista dalmata Paolo Paladini e il suo canzoniere (1496), Roma, Società dalmata di storia patria, 2005, pp. 81-82.
[19] Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, a cura di Francesco Semi e Vanni Tacconi, Bologna, Del Bianco Editore, 1992.
[20] FRANCESCO PATRIZI, Pagine scelte, a cura di Sergio Cella, Padova, Liviana, 1965, p. 110.
[21] Ivi, p. 65.
[22] PADRE REDENTO DA ALANO, Padre Fedele da Zara (1728-1801) poeta latino, «La rivista dalmatica», Roma, gennaio- marzo 2004, pp. 74-89.
[23] EUGENIO DARIO RUSTIA-TRAINE, Ruggiero Giuseppe Boscovich scrittore e narratore italiano del Settecento, «La rivista dalmatica», Roma, luglio- settembre 1988, pp. 173-179.
[24] Saggio di versione degli epigrammi latini di Raimondo Cunich raguseo del dottor Lorenzo Rondolini, Trieste, Tipografia Eredi Coletti, 1832, p. 9.
[25] Sull’argomento esiste un’ampia bibliografia storica. Si segnala qui ODDONE TALPO, La scomparsa degli Italiani in Dalmazia, «La Rivista Dalamtica», Roma, LXXIV, 2002, pp.2-20.
[26]Vedi per es. Saggio di una versione di Canti popolari slavi di FERDINANDO DE PELLEGRINI, Roma Tip. Bertinelli, 1847.
[27] Cfr.: GIUSEPPE FERRARI CUPILLI, Della persona, degli scritti e della biblioteca di Pier-Alessandro Paravia zaratino, «La Rivista Dalmatica», Roma, LXXIII, 2002.
[28] Versi di Pier Alessandro Paravia iadrense, Venezia, Orlandelli, 1825, p.132.
[29] Suo è anche il volume Le coste e isole dell’Istria e della Dalmazia. Descrizione, Zara, Battara, 1840.
[30] Le emancipate. Satira, Venezia, Tipografia del Tempo, 1871, pp.23 s.
[31] Il figlio, Milano, Baldini e Castoldi, 1890, p. 26.
[32] Canti virili, Milano, Treves, 1896, p.107.
[33] Ivi, p.108.
[34] Giuseppe Sabalich letterato e storiografo zaratino, in GIUSEPPE SABALICH, Le campane zaratine. Polimetro dialettale in sette parti con illustrazioni storiche, sotto gli auspici della Società Dalmata di storia patria di Venezia, Trieste, Libero Comune di Zara in esilio, 1979.
[35] Per comodità si cita da FRANCESCO SEMI e VANNI TACCONI, op.cit., volume secondo, p.470.
[36] Cfr. ARTURO AURELIO, Uomini leggende e canti di Dalmazia, Roma, Biblioteca Editrice, s.d.
[37] FRANCESCO SEMI e VANNI TACCONI, op.cit., volume secondo, p.508.
[38] Belfiore; per comodità si cita da Poeti italiani d’oltre confine. Canti raccolti da GIUSEPPE PICCIOLA, Firenze, Sansoni, 1914, pp. 208 ss.
[39] Fogliuzze. Versi, Trieste, Soc. dei Tipografi, 1899, s.i.p.
[40] I versi dell’esilio. Pubblicazione postuma per cura della “Società Dalmatica” di Trieste, Trieste, Libreria Trani, 1928, p. 84.
[41] In Poeti italiani d’oltre confine…, cit., p.216.
[42] P. 45.
[43] Zara, 1890.
[44] «La Rivista dalmatica», 1970-1974; dello stesso cfr. Ritorno a Zara, Udine, Del Bianco, 1971, una lucida, spontanea, affettuosa, seria descrizione di un viaggio a Zara dopo molti anni.
[45] MATTEO GIULIO BARTOLI, Il Dalmatico. Resti di un’antica lingua romanza da Veglia a Ragusa, a cura di Aldo Duro, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2000.
[46] Milano, Ed. Futuriste, s.i.p.
[47] I fantasmi di Mosca, Milano, Mondadori, 1993, pp.38 ss.
[48] Il custode del faro.Romanzo, Trieste, I.Svevo ed., 1985, p.13. Cfr. anche il suo Poema cosmico, Trieste, Monciatti, 1957.
[49] con apparato fotografico di Sergio Brcic, sotto gli auspici della Scuola Dalmata dei SS. Giorgio e Trifone, Udine, Del Bianco, 1998.
[50] Chieti, Solfanelli, 1962.
[51] Udine, 1947.
[52] Tempo di vivere.Tempo di morire. Poesie, Trieste, Il Timavo – Società Artistico Letteraria, 1974, p.17.
[53] Brindisi per l’anno nuovo, in Tessere di vita, Ravenna, Longo, 2003, p.17.
[54] Poesie chersine, Chioggia, Le cronache, 1984, s.i.p.
[55] Idem.
[56] Il Bragozzo. Raccolta di liriche dei poeti giuliani e dalmati, a cura di Sebastiano Blasotti e Luigi Papo, introd. di Umberto Nani, Supplemento al n. 282 del «Bollettino d’Informazioni del Centro Studi Adriatici», Roma, 29 settembre 1956. p.21.
Fonte: «Rivista di letteratura italiana», XXIV, 3, 2006.