Liana De Luca – Il Leone nello Studio

mercoledì 06 maggio 2009

IL LEONE NELLO STUDIO
L’iconografia celebra San Gerolamo accanto al potente felino
Liana De Luca*

Parce milli, Domine, (quia dalmata sum è il motto di San Gerola­mo che, attraverso la matrice della nascita a Stridone nel 340 circa, confessa una personalità tanto tor­mentata e complessa da meritare la particolare comprensione divina. La leggenda narra che, durante il periodo trascorso nel deserto della Calcide, un leone, ammansito per l’estrazione di una spina dalla zampa e reso domesti­co dalla riconoscenza, gli facesse a vol­te compagnia. L’immagine dell’anaco­reta, aspro e crudo con se stesso e con il proprio corpo, in un paesaggio di roccia o desertico, era potenzialmente piena di risorse e venne sfruttata in tutte le sue variazioni dalla iconogra­fia specie del Rinascimento. I veneti soprattutto (Jacopo e Giovanni Belli­ni, Lorenzo Lotto, Tiziano fra gli al­tri), rivolti al culto di San Gerolamo anche per vicinanza del luogo di na­scita, lo trattarono con predilezione in­troducendo spesso il leone fra le rupi illiriche in un ambiente sceneggiato dì simboli. Il motivo appare emblemati­co, perché fu il santo piuttosto, per la fiera anima dalmata, a richiamare tal­volta l’impeto leonino. Ma anche se cercò di estrarre da sé la spina, l’opera­zione non gli riuscì mai completamen­te. Non serviva digiunare o percuoter­si il petto con un sasso puntuto, come lo riprende per esempio Piero della Francesca, per placare il sangue caldo della Dalmazia esaltato dalla ipersen­sibilità raffinata del basso impero.
Ma San Gerolamo, oltre che come eremita, fu anche raffigurato come dottore della Chiesa. Fondamentali furono i suoi studi a Roma e poi a Treviri e Aquileia. Esperto di filologia e di teologia, conoscitore della lingua ebraica e di quella greca, ebbe l’incari­co da Papa Damaso di rivedere e correggere i libri del Nuovo Testamento che avevano subito numerose varia­zioni a uso delle Chiese occidentali. In tarda età realizzò, per sua iniziativa, la traduzione della Bibbia dí prima mano dall’originale direttamente in latino. L’opera prese in nome di Vul­gata, dopo l’indicazione di Ruggero Bacone e in seguito di Erasmo da Rot­terdam, titolo definitivamente consa­crato dal Concilio di Trento nel 1546. A proposito del dilemma fra la fedeltà all’originale, a scapito dello scarsa qualità letteraria, e la libertà della ver­sione in funzione del valore artistico, il protettore dei traduttori prende net­ta posizione: non verbum de verbo, sed sensuin exprimere de sensu. Caravaggio fonde le due tendenze dell’eremita e dell’erudito: su fondo scuro Gerola­mo, avvolto solo da un panno, prende appunti da libri sopra i quali domina un teschio.
Ma l’opera che meglio rende lo spi­rito dell’umanista è quella di Anto­nello da Messina, eseguita intorno al 1474. Il pittore compì la sua formazio­ne a Napoli, dove attinse, attraverso le influenze fiamminghe, spagnole e provenzali, una visione oggettiva e realistica che fuse con la nuova spa­zialità prospettica italiana. La nitida perfezione formale, lo splendore lu­minoso del colore in un certo contra­sto con le ombre, la consistenza plasti­ca delle forme, possono fare pensare a un precursore di Caravaggio. Auto- nello riprende Gerolamo al lavoro nel suo studio, in un ambiente chiesastico di natura molto complessa, mentre tiene con imperturbabile concentra­zione fra le mani i fogli del codice che sta leggendo. La figura si trova al centro di una complessa composizione che gioca sui ritmi di luce-ombra e su architetture prospettiche. Una cornice marmorea fa da tramite fra lo spetta­tore e la scena raffigurata, con un espediente che fu usato anche da Mantegna. La luce proviene dal gran­de portale ad arco, accentuando lo stretto rapporto fra l’osservatore e il santo. Ma altra luce s’infiltra dalle fi­nestre sullo sfondo e colpisce il sog­getto. La prospettiva fa convergere lo sguardo direttamente sulla immagine centrale, per poi allontanarsi seguen­do i dettagli dell’ambiente. In primo piano una pernice e un pavone allu­dono alla Chiesa e all’esistenza di Dio. Accanto un bacile è emblema di pu­rezza. Ai piedi della figura assisa sono disposti due vasi, uno con una pianta di bosso e l’altro di garofani, rispetti­vamente riferimento alla fede nella salvezza divina e alla passione di Cri­sto. Un gatto indugia pigro sui gradi­ni e un cartiglio fissato allo scrittoio reca segni deliberatamente illeggibili. Le suppellettili e i libri distribuiti en­tro gli scaffali e sopra la libreria, così come la tovaglia appesa al bancone, sembrano essere solo elementi generi­ci decorativi. Oltre le finestre inferiori il paesaggio, ancora all’epoca solo ele­mento di sfondo e non soggetto, però curato minuziosamente, mostra a sini­stra una riviera fluviale con barche e a destra lievi colline ondulate. Al di là della finestra superiore degli uccelli, forse upupe, restano volutamente esclusi.
San Gerolamo sta su una predella di legno, concentrato nella lettura. È co­perto da un manto rosso, segno della dignità cardinalizia, e un cappello ros­so con grandi fiocchi pendenti è pog­giato sulla cassapanca alle sue spalle. In realtà l’imposizione del cappello cardinalizio è attribuita a papa Innocenzo IV e sancita dal Concilio di Lione nel 1245. Quindi non è possibi­le che San Gerolamo ne facesse uso. E c’è un altro particolare inquietante. Il letterato è rappresentato, caso quasi unico, senza barba. Questi dettagli hanno sostenuto la tesi che il quadro non rappresenti San Gerolamo, ma un ottima te che aveva da poco otte­nuto la nomina a cardinale. E le ipote­si si sono sbizzarrite. In realtà è più facile pensare a una rappresentazione agiografica sul piano della ritrattistica allegorica.
Resta ancora da considerare il se­condo personaggio dell’opera: il leo­ne. Di solito accucciato ai piedi di San Gerolamo, nel quadro guarda distan­te e vigile nella penombra della nava­tella sullo scorcio di destra. Alle sue spalle una fuga d’archi innesta l’ar­chitettura gotica in quella rinascimen­tale. Si possono fare diversi ipotesi sulla postura del leone. Perché si av­vicina guardingo? Il suo è un atteggiamento di timore o di rispetto? E San Gerolamo, poiché il leone è alle sue spalle, non lo vede o finge di non vederlo per non essere distratto nelle sue ricerche? Forse, semplicemente, la lunga frequentazione li ha portati a una confidente libertà di comporta­mento. Comunque la presenza del leone costituisce un ottimo avallo sulla identità di San Gerolamo quale protagonista.
Bibliografia:
M. Cavallero, San Gerolamo nell’arte, Lorenzo Editore, 2004.
L. De Luca, Scrittoio, Genesi, 2007.
L. Pupi, Il terzo nome del gatto, Marsilio, 1989.
N. Vian, Il leone nello scrittoio, Città Armoniosa, 1980.
* Laureata in lettere, ha insegnato negli istituti superiori. Vive ed opera a Torino. Giornalista pubblicista ha collaborato e collabora a diversi quotidiani e riviste di varia cultura. Molte le sue opere di poesia, di narrativa, di saggistica, che hanno ricevuto ambiti premi. É stata cofondatrice del Cenacolo Orobico di poesia del quale attualmente è presidente onorario.
Fonte: «La Nuova Tribuna Letteraria», n° 6 – 2009.