I delegati sloveni se ne erano appena andati dal Congresso della Lega dei comunisti. Era la fine del 1989, Lubiana aveva varato una serie di riforme costituzionali che avrebbero portato il paese alle prime elezioni democratiche. I comunisti sloveni, che avevano anch’essi contribuito a traghettare il paese verso la democrazia, si presentarono a quel voto con lo slogan “Europa adesso”. Il loro sogno ed anche quello di tutte le altre forze politiche era di far approdare la Slovenia in Europa, con o senza il resto della Jugoslavia.
Ben presto ci si rese conto che un futuro comune jugoslavo non era più possibile. La Slovenia proclamò l’indipendenza e se la cavò, tutto sommato a buon mercato. Tutto si risolse in 10 giorni di scaramucce e si concluse dopo qualche mese di trattative diplomatiche per far uscire dal paese le truppe federali e per vedersi riconosciuta l’indipendenza. Quella che era considerata la Svizzera dei Balcani stava cominciando il suo cammino verso l’Europa, proprio quando il resto della federazione stava precipitando in una sanguinosa spirale di conflitti etnici sempre più violenti.
A Lubiana credevano di essere i primi della classe e con cipiglio austroungarico iniziarono ad adeguare la loro legislazione a quella comunitaria. La convinzione era quella di essere stati molto bravi a fare i compiti e che le porte dell’Europa si sarebbero presto aperte per loro.
In quel periodo a rompere le uova nel paniere dei sogni sloveni ci pensò l’Italia. Roma pose tutta una serie di blocchi al cammino europeo di Lubiana a causa dell’irrisolto contenzioso relativo alle proprietà immobiliari degli esuli: gli italiani che nell’immediato dopoguerra abbandonarono in massa i territori passati all’allora Jugoslavia. Il problema si risolse con l’apertura del mercato immobiliare sloveno per gli stranieri. A quel punto Lubiana era pronta ad entrare in Europa, ma le cose continuarono a complicarsi.
La prima doccia fredda arrivò nel 1997, quando Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia vennero invitare a far parte della NATO. Formalmente vennero accolte nell’alleanza nel 1999. L’adesione alla NATO era considerata da molti un passo necessario per quella nell’Unione Europea. La Slovenia era stata lasciata fuori dalla porta non a causa di qualche strano complotto, semplicemente perché erano stati fatti entrare paesi potenzialmente più utili e tutti ex membri del Patto di Varsavia. Nel paese il clima era di vero e proprio lutto nazionale, uno smacco difficile da digerire per la classe politica e da giustificare di fronte all’opinione pubblica nazionale.
Alla fine, le porte dell’alleanza si aprirono per la Slovenia solo cinque anni dopo, nel 2004. Per arrivarci Lubiana dovette passare sotto la forca caudina della firma della Dichiarazione di Vilnius, un documento in cui assieme ad Albania, Bulgaria, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Macedonia, Slovacchia e Romania espresse sostegno alla linea dura americana nei confronti dell’Iraq ed all’idea che Saddam Hussein possedesse davvero armi di distruzione di massa. Senza quella firma l’adesione alla NATO sarebbe stata a rischio e forse anche quella all’Unione Europea.
Guardandola dall’ottica della realpolitik il gioco valse la candela. Il primo maggio del 2004 piazza della Transalpina tra Gorizia e Nova Gorica fu lo scenario della manifestazione centrale che celebrava l’allargamento dell’Unione ad est. Assieme alla Slovenia entrarono a far parte dell’Europa comunitaria anche Cipro, Malta, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania e Repubblica Ceca.
Sui giornali sloveni illustri commentatori scrissero che il grande sogno si era realizzato e che adesso la politica slovena non aveva più bisogno di essere unitaria e di marciare insieme verso un grande obiettivo, ma avrebbe potuto diventare normale. Ben presto nel paese emersero le vecchie divisioni e tra le forze politiche iniziarono ad andare in scena indegne “baruffe chiozzotte” che con il passare del tempo non hanno fatto che aumentare d’intensità.
Gli indicatori macroeconomici e quelli che misurano il livello di vita ed il potere d’acquisto dei cittadini dicono che oggi in Slovenia si vive molto meglio che nel passato, ma ciò non basta per mitigare una certa disillusione. Così c’è chi sogna un paese fuori dall’Alleanza Atlantica, indipendente in politica estera, magari un ritorno alla politica del non allineamento di jugoslava memoria. Altri guardano con nostalgia alla federazione socialista quando tutti erano più poveri, ma anche più uguali. Più che il rimpianto per l’ex federazione è piuttosto quello per la nomea dei primi della classe. La Slovenia, che al tempo della Jugoslavia era considerata la Svizzera dei Balcani, presto ha dovuto rendersi conto che non sarebbe diventata anche la Svizzera dell’Unione europea e che il paese non era altro che una delle tante zone periferiche ai margini dell’Europa.
Sudditi di Vienna prima e poi di Belgrado, gli sloveni tradizionalmente sono privi di un alto senso dello stato. Nei confronti del potere e delle istituzioni mantengono una certa tradizionale sfiducia, che tale si è mantenuta anche quando loro stessi sono diventati padroni del loro destino. Proprio per questo il paese, così, deve fare i conti con un progetto statale non perfettamente riuscito.
Alla fine, però gli sloveni sono anche consapevoli che forse l’Europa potrebbe anche fare a meno della Slovenia, ma non la Slovenia dell’Europa.
Stefano Lusa
Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa – 02/05/2024