Scritto da Francesco Dal Mas, «Avvenire», 23/10/14
giovedì 23 ottobre 2014
Le numerose le cerimonie nel 60° anniversario del ritorno di Trieste all’Italia, si sono aperte ieri con la presentazione del “CalendEsercito” 2015, il calendario dell’esercito italiano, che porta il titolo: La Grande Guerra… un Popolo in Armi. Sabato la Sala Tripcovich ospiterà la proiezione del documentario I nostri giorni americani e musica made in Usa anni ’40 e ’50 con la Shipyard Jazz Town Orchestra; nel foyer mostra della collezione Simic. Domenica si riunirà in seduta straordinaria il Consiglio comunale per conferire la cittadinanza onoraria all’Ottavo bersaglieri, di cui facevano parte i reparti che per primi giunsero in città nel ’54. Alle 10 e alle 17, in piazza unità, l’alzabandiera e l’ammainabandiera, uno sportello per l’annullo filatelico e una staffetta commemorativa per portare un maxitricolore.
Per i giorni successivi la Marina invierà a Trieste l’ammiraglia Cavour, con i suoi oltre 240 metri di lunghezza e i 1200 uomini d’equipaggio. Il 5 novembre al Molo Bersaglieri la città donerà il vessillo di combattimento alla fregata Virgilio Fasan, seconda unità italiana del programma Fregate europee multimissione recentemente impiegata con la Aliseo nell’operazione Mare Nostrum. Migliaia di triestini in piazza Unità d’Italia, lungo le Rive, sul molo Audace. Tutti a festeggiare la colonna dei camion dei militari italiani che facevano ingresso nella città. È il 26 ottobre 1954. Trieste torna italiana, dopo 11 anni di occupazioni contrapposte. Ripercorriamo quel dramma e quella festa con Raoul Pupo, che insegna storia contemporanea al Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste. Alla questione di Trieste ha dedicato opere come Il lungo esodo (Rizzoli, 2005) e Trieste ’45 (Laterza, 2010). Nel 2014, sempre per Laterza, ha curato il volume La vittoria senza pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra, che verrà presentato il 28 novembre alla camera dei deputati, a Roma. Iztok Furlanic, presidente del Consiglio comunale di Trieste, ha sostenuto in questi giorni che l’esercito jugoslavo ha liberato Trieste dai nazisti; altro che occupazione. Lei, da storico, è trasecolato? «No, per niente, perché so bene che a Trieste convivono due memorie diverse. Per una componente della popolazione – che nel 1945 era piuttosto numerosa, perché comprendeva gli sloveni e buona parte dei comunisti italiani – la liberazione è arrivata sulle baionette dell’armata popolare jugoslava, perché era liberazione non solo dai nazisti ma anche dall’Italia.
Per l’altra componente, che in seguito si sarebbe rivelata maggioritaria, la liberazione è invece quella portata dagli angloamericani, che il 12 giugno costrinsero a sgombrare le truppe jugoslave. Per questo in riferimento a Trieste gli storici parlano in genere di ‘liberazioni’ al plurale, o di ‘doppia liberazione’». Il 7 giugno 1953 non passa il progetto De Gasperi di modificare la legge elettorale e l’allora presidente deve cedere il passo a Giuseppe Pella che deve vedersela con l’inaspettata crisi internazionale. Se De Gasperi fosse rimasto a capo del Governo, la prospettiva per Trieste come sarebbe cambiata? De Gasperi, infatti, non era favorevole alla divisione del territorio così come poi avvenne. «Era abbastanza chiaro che dopo le elezioni del 7 giugno si sarebbe arrivati alla trattativa finale sulla sorte del TLT. Se De Gasperi avesse vinto, la posizione negoziale dell’Italia si sarebbe rafforzata, ma non sappiamo se ciò sarebbe stato sufficiente per salvare all’Italia almeno alcune delle cittadine della zona B. Invece la sconfitta di De Gasperi e la sua sostituzione con un governo debole come quello di Pella rischiarono di far franare la capacità negoziale italiana. Per questo Pella, da un lato mise in piedi una dimostrazione militare, dall’altro si affrettò ad informare gli anglo-americani che si sarebbe accontentato di Trieste, purché subito e con una formula tale da ‘salvare la faccia’ al governo italiano».
Gli anglo-americani proposero all’Italia un accordo con la Jugoslavia in termini di ‘prendere o lasciare’. L’Italia perché fu costretta a fare quel sacrificio? Non aveva proprio nessuna alternativa? «No, perché la sua posizione si stava indebolendo sempre di più, visto che il suoi alleati si erano già messi d’accordo con la controparte… Inoltre, la situazione a Trieste era gravissima, perché la popolazione italiana era esasperata contro il governo militare alleato, nel novembre 1953 c’erano stati i morti per le strade e la crisi poteva riesplodere in ogni momento». Le truppe italiane furono accolte a Trieste con una festa per aspetti sorprendente. La città usciva da 11 anni di successive occupazioni – nazista, slava e alleata – ancorchè diversamente caratterizzate. Così si spiega anche quell’accoglienza così festosa. Ma la responsabilità storica di chi è stata? Lei ha ripetutamente spiegato che, alla fin fine, le popolazioni di frontiera si sono trovare a pagare più di tutte le altre il peso della «follia della politica estera fascista». Perché parla di follia? «La Grande Guerra aveva portato all’Italia tutte le ‘terre irredente’ e anche qualcosa di più. Inoltre, aveva allontanato a nord e ad est le grandi potenze dal confine italiano. La politica fascista, prima accettò l’Anschluss, con il quale si trovò il Terzo Reich al Brennero, e poi fece saltare il confine orientale concordato con la Jugoslavia nel 1920 a Rapallo. Trieste 1954: bimbo “bersagliere” in festa . Sotto, Raoul Pupo. Per un paio d’anni l’Italia si gonfiò ad oriente annettendo parte della Slovenia, la Dalmazia e il Montenegro e poi collassò clamorosamente, trascinando nell’abisso anche i territori guadagnati con la prima guerra mondiale. Alcuni di questi erano abitati da sloveni e croati, ma altri erano città italiane, come Zara, Fiume, Pola, Capodistria… Trieste si salvò solo perché agli anglo-americani interessava mantenere il controllo del porto dell’Austria».
Trieste, anche all’epoca, era molto laicista. Eppure alla sua guida si pose una classe dirigente cattolico-democratica. Come la preparò lo storico vescovo Santin? «Il fatto è, che la classe dirigente, la quale era non solo laicista ma anche nazionalista, aveva fatto fallimento, sostenendo compatta il fascismo e collaborando apertamente con i nazisti. Nel dopoguerra quindi non aveva più la legittimità politica per guidare una nuova stagione irredentista di concerto con il governo dell’Italia democratica e con il sostegno degli anglo-americani, che avevano combattuto contro fascisti e nazisti. Il vuoto venne riempito dai cattolici agendo sia dall’alto che dal basso. Dall’alto, con l’opera del vescovo Santin, che era un patriota ed un uomo di forte personalità. Come altri vescovi italiani, Santin aveva assunto il ruolo di ‘defensor civitatis’ dopo l’8 settembre 1943 e continuò a svolgerlo anche dopo la fine della guerra, perché altri punti di riferimento autorevoli per gli italiani non c’erano. Anche la vecchia dirigenza liberal-nazionale finì rapidamente per guardare a lui. Contemporaneamente, dal basso, un sacerdote d’eccezione, don Edoardo Marzari, durante la resistenza guidò il CLN e nel dopoguerra diede impulso alle organizzazioni sociali e politiche dei cattolici. Questi quindi si erano legittimati anche sul piano antifascista e potevano offrire alla città una nuova classe dirigente credibile e ben collegata con il governo di Roma. Gli angloamericani nicchiarono un po’ prima di accettarla, perché avrebbero preferito degli interlocutori laici e massoni, ma questi ormai politicamente non contavano più nulla».