Negli anni scorsi le amministrazioni comunali di Trieste, Gorizia, Monfalcone (GO) e Muggia (TS) hanno introdotto nel loro calendario la ricorrenza del 12 giugno, in ricordo della data in cui se ne andarono nel 1945, per effetto degli accordi di Belgrado, le truppe dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia dopo quaranta giorni di violenze e di terrore. Violenze e terrore che sarebbero proseguiti nella Zona B (entroterra giuliano, Istria e Fiume) che tali accordi avevano assegnato all’amministrazione militare jugoslava, mentre nella Zona A l’amministrazione militare angloamericana portò ad un progressivo ritorno alla normalità. Zona A della quale faceva parte anche Pola, che però il Trattato di Pace assegnò alla Jugoslavia dopo che il 18 agosto 1946 vi aveva inoltre avuto luogo la strage di Vergarolla, tragedia che condizionò pesantemente la scelta dell’esodo massiccio da parte dei polesani.
Gli accordi di Belgrado prevedevano peraltro che tutta la fascia costiera istriana passasse sotto controllo alleato, coerentemente con la netta prevalenza di popolazione italiana nelle località rivierasche, ma i successivi accordi di Duino tra le forze sul campo per organizzare il passaggio delle consegne videro gli jugoslavi opporsi ed i loro interlocutori si accontentarono di Pola, che Winston Churchill ricordava come importante base navale dai tempi della Prima guerra mondiale. D’altro canto pure gli altri confini della Zona A ricalcavano necessità strategiche, poiché assicuravano il controllo del porto di Trieste e delle vie di comunicazione verso nord, al fine di garantire i rifornimenti ed i collegamenti con le truppe alleate di presidio in Austria. Gli accordi armistiziali con cui l’Italia debellata affidava alle potenze firmatarie la liberazione del proprio territorio nazionale entro i confini internazionalmente riconosciuti al momento della sua entrata in guerra (ivi compresa pertanto la Venezia Giulia nella sua interezza, nonché Fiume e Zara) perdevano di importanza di fronte alla necessità di non scontentare eccessivamente la Jugoslavia comunista, all’epoca legata a doppio filo con l’Unione sovietica. Nel giugno 1945 la guerra era finita in Europa, ma non ancora in Estremo oriente, ove Londra e Washington facevano pressioni su Mosca affinché rompesse il suo patto di non aggressione con Tokio (conseguenza del conflitto russo-giapponese degli anni Trenta) e contribuisse allo sforzo finale nell’annientamento dell’Impero del Sol Levante.
Ancora Churchill avrebbe commentato con l’espressione «abbiamo messo un piede nella porta prima che si chiudesse» l’importanza dell’ingresso delle sue truppe a Trieste poche ore dopo le avanguardie jugoslave il primo maggio 1945. In questa maniera era possibile assicurare un spiraglio per future trattative, poiché si attenuava la strategia del fatto compiuto con cui Tito voleva giustificare le annessioni alla Jugoslavia dei territori italiani che le sue truppe avevano “liberato”, rectius occupato. Inglesi e americani durante i quaranta giorni di imperio titoista raccolsero denunce e proteste degli italiani perseguitati, fecero indagini sulle voci che giravano in merito a nuove stragi nelle foibe trovando conferme, ma non intervennero. Da una parte si voleva evitare la situazione di caos che si era verificata in Grecia al momento della liberazione dall’occupazione tedesca, allorchè i britannici si schierarono a fianco dei partigiani nazionalisti in contrapposizione con quelli comunisti sostenuti dal Cremlino. Dall’altra, quando gli ufficiali sul campo chiedevano di poter intervenire per frenare deportazioni in campi di concentramento, arresti arbitrari e processi sommari, la cinica risposta era che bisognava lasciar fare e raccogliere documentazione di questi eccessi al fine di avere materiale con cui successivamente denunciare i crimini comunisti. Il ché non sarebbe mai avvenuto, poiché la rottura di Tito con Stalin nell’estate del 1948 trasformò il dittatore jugoslavo in un interlocutore delle potenze occidentali nelle dinamiche della Guerra fredda.
Il 12 giugno rappresentò insomma una tappa importante nella più ampia questione di Trieste, avviatasi con la “corsa per Trieste”, in cui angloamericani e jugoslavi erano in competizione per giungere nel porto adriatico, e destinata a concludersi ufficialmente con il Trattato di Osimo del 1975, ma anche dimostrò l’impotenza dell’Italia, la quale aveva accettato la resa incondizionata, di fronte alla realpolitik delle potenze vincitrici del conflitto.
Lorenzo Salimbeni